lunedì 13 gennaio 2014

Perché dagli egizi a Omero siamo figli del mondo classico


Umberto Eco


“La Repubblica“, 13 gennaio 2014

Torniamo alle radici della saggezza classica, all’Iliade. Teti si rivolge a Efesto affinché nelle sue fucine appronti nuove armi per suo figlio Achille. Efesto si mette al lavoro e parte del XVIII canto del poema è dedicata alla descrizione dello scudo che egli prepara. Questo scudo è una “forma” perfetta, dove l’intero universo è contenuto e definito nei limiti del cerchio e delle sue zone concentriche, così che nei limiti di quella forma Efesto può rappresentare la Terra, il Mare, il Cielo, il Sole, la Luna, gli Astri, le Pleiadi, Orione e l’Orsa Maggiore, due popolose città con le loro feste e i loro riti civili, la guerra, i lavori agresti e la pastorizia, la vendemmia, la caccia, le danze campestri… Il grande fiume Oceano circonda, limita, termina ogni scena e separa lo scudo dal resto dell’universo.
Lo scudo non lascia supporre che altro ci sia al di fuori dei suoi bordi; esso è un mondo conchiuso, ed è appunto l’epifania della Forma, del modo in cui l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche in cui viene istituito un ordine, una gerarchia, un rapporto figura-sfondo tra le cose rappresentate. [...] Esiste però un altro modo di rappresentazione artistica che si manifesta quando, di ciò che si vuole rappresentare, non si conoscono i confini, quando non si sa quante siano le cose di cui si parla e se ne presuppone un numero, se non infinito, astronomicamente grande; o quando ancora di qualcosa non si riesce a dare una definizione per essenza e quindi, per parlarne, per renderlo comprensibile, in qualche modo percepibile, se ne elencano confusamente le proprietà – e le proprietà accidentali di un qualcosa, dai Greci ai giorni nostri, sono ritenute infinite.
C’è un momento in cui Omero vuole dare il senso dell’immensità dell’esercito greco (nel canto II dell’Iliade [...]). Dapprima egli tenta un paragone: «Quella massa d’uomini, le cui armi riflettono la luce del sole, è come un fuoco che dilaga per una foresta, è come uno sciame d’oche o di gru che pare attraversare con un rombo il cielo» – ma nessuna metafora lo soccorre, e chiama a soccorso le Muse:«Ditemi, o Muse che abitate l’Olimpo, voi che tutto sapete… quali erano i capi e i guidatori dei Danai; la folla non chiamerò per nome, nemmeno se avessi dieci lingue e dieci bocche», e pertanto si dispone a nominare solo i capitani e le navi. Sembra una scorciatoia ma questa scorciatoia prende 350 versi del poema. Apparentemente l’elenco è finito [...], ma siccome non si può dire quanti uomini ci siano per ogni duce, il numero a cui si allude è per intanto indefinito.
Omero gioca al limite, perché la stessa matematica greca aveva il terrore dell’infinito, e i pitagorici, di fronte all’infinito e a ciò che non può essere ricondotto a un limite, avvertivano una sorta di sacro terrore e cercavano nel numero la regola capace di limitare la realtà, di darle ordine e comprensibilità. Ma in fondo tutti gli aspetti oscuri della civiltà classica [...], e che si oppongono alla idealizzazione neoclassica, rappresentano altrettanti modi di fare i conti (spesso senza riuscirci) con l’infinito,con l’irrazionale, col mondo delle pulsioni e delle passioni incontrollabili. Ed è per questo che noi ancora oggi viviamo all’ombra del modello classico, in tutte le sue contraddizioni.
Così, che si tratti di Apollo o di Dioniso, noi ricorriamo alla mitologia antica per individuarvi dei modelli di comportamento, al punto tale che persino i poeti cristiani (si veda tra tutti Dante) non esitano a invocare Apollo o le Muse, o a mettere in scena Cerbero. Noi viviamo usando ancora forme di ragionamento e dimostrazioni geometriche prodotte dal pensiero greco, e arrivate sino a noi dopo aver fecondato sia il pensiero arabo che quello dell’Occidente medievale. I non credenti si appellano ancora a un’etica che è stata proposta da Platone, da Aristotele e dagli stoici, né i credenti la trovano in complesso contraria ai principi dell’etica cristiana — senza contare che in greco scrivevano, e in parte pensavano, i primi Padri della Chiesa. Dalla Grecia abbiamo tratto il modello politico della democrazia, da Roma i principi del diritto, da entrambe le civiltà le tecniche retoriche che, anche quando non le riconosciamo come tali, usiamo ancor oggi nei parlamenti, nei tribunali, nella pubblicità. Noi coltiviamo ancora una visione eroica dello sport che ci proviene dalle Olimpiadi originarie, noi aspiriamo a una forma di educazione che pone le proprie radici nella paideia greca. [...] Ci premeva mostrare la complessità e la multiformità del modello classico, che continua a influenzarci anche in quei modi che rimanevano esclusi dalla sua versione edulcorata.

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