domenica 25 ottobre 2015

La falsa scienza


La necessità di un’etica comune contro gli impostori
Il documento del Cnr è un importante riferimento da cui partire per definire un modello di condotta standard

Elena Cattaneo, "La Repubblica",  25 ottobre 2015

Se si svolge un’attività dove le cose che si rendono pubbliche non sono opinioni, ma intendono descrivere fatti e aspirano a cambiare il modo di vedere il mondo, si rischia di sbagliare. Le conquiste scientifiche sono sempre enormi ma l’errore può essere in agguato, soprattutto se si esplora l’ignoto. La frode nelle pubblicazioni scientifiche è invece tutt’altra cosa. È difficile capire cosa spinge uno scienziato a barare sui dati che raccoglie. Forse è presunzione intellettuale o desiderio di notorietà. E la convinzione (errata) che barare su come stanno le cose in natura non sia un modo di delinquere. Senza trascurare l’errata percezione di restare impuniti.
Che fare per correggere la scienza? Esistono almeno due modi. Il primo consiste nell’utilizzare, ancora una volta, il metodo scientifico. Dal 2001 al 2010 sono stati pubblicati circa il 44% in più di articoli scientifici, mentre il numero di quelli ritirati per errori o frodi è aumentato di 10 volte. Preoccupante, certo. Ma in valori reali, nel 2010 sono stati pubblicati circa 1.500.000 di articoli peer reviewed, quelli ritirati sono stati 339, contro i 122 del 2001. Questi numeri rappresentano solo una parte di un fenomeno più vasto anche perché il numero di pubblicazioni è in continuo aumento.
Circa un terzo degli articoli ritirati contengono una frode e quasi i due terzi dei casi indagati per cattiva condotta riguardano la manipolazione di immagini. L’aumento delle ritrattazioni risale alla seconda metà degli anni Novanta e si collega alla diffusione di programmi come Photoshop. Di pari passo la tecnologia aiuta però anche a smascherare gli impostori. Esistono software che in una notte analizzano migliaia di immagini e rivelano “incongruenze” quasi invisibili all’occhio umano. Talvolta però basta solo un po’ di attenzione da parte del ricercatore. Recentemente, io stessa, studiando alcuni articoli di un professore audito in Senato sugli Ogm, ho notato vistose anomalie nelle immagini. Dopo aver atteso invano i chiarimenti dell’autore, non ho potuto non segnalare la circostanza agli editori delle riviste in cui quegli articoli erano stati pubblicati. La scienza funziona così. Ciascuno di noi è sentinella, controllore e controllato del lavoro proprio e altrui. Ecco perché sono bastati due mesi per scoprire la frode presente nell’articolo della giovane ricercatrice giapponese pubblicato lo scorso anno su Nature. Lei perse il posto. Uno degli autori, Yoshiki Sasai, rigoroso scienziato, autore di scoperte che hanno scolpito la storia dell’embriologia, non poté perdonarsi di non essersi accorto che la collega aveva manipolato dati e figure. Si suicidò. Non si scherza con la scienza.
Anche le riviste open access hanno contribuito all’esplosione dei casi di cattiva condotta con la moltiplicazione di editori e riviste anche in paesi per ora meno sviluppati scientificamente. Queste riviste offrono pubblicazioni a pagamento di fatto senza peer review. Nel 2013 questo sistema si è dimostrato altamente permeabile alle frodi. Un giornalista di Science, ad esempio, ha ottenuto l’accettazione di un manoscritto completamente inventato da ben il 60% delle riviste cui era stato inviato.
Il secondo modo per dare forza alla buona scienza, oltre alla vigilanza e all’uso sistematico di software di controllo da parte degli editori, prevede la condivisione di regole e procedure per marginalizzare – osservate le dovute garanzie di difesa – chi, con condotte fraudolente, rompe il patto che lo lega alla comunità scientifica.
La rivista Lancet nel 2013 segnalava come l’Italia fosse tra le poche nazioni europee prive di legislazione in materia o di linee guida. Lo scorso marzo l’Accademia dei Lincei ha dedicato un’intera giornata all’etica della ricerca e, da poco, il CNR ha licenziato delle linee guida dedicate all’”integrità della ricerca”. Diverse Università stanno lavorando in una simile direzione. Oggi il documento del CNR è un importante riferimento da cui partire per definire un modello di standard italiano per la valutazione delle condotte dei ricercatori. La condivisione di metodi, regole e obiettivi, deve essere vincolante. Tutto ruota intorno a semplici passaggi che definiscono la nostra polizza assicurativa più importante: il rapporto con la società. Alla quale non si può mentire. Mai.

L’autrice è docente dell’Università degli Studi di Milano e senatrice a vita


Tra articoli smentiti e studi ritrattati 
il mondo della ricerca finisce sempre più spesso sotto accusa 
anche grazie al controllo sul web
La pubblicazione su “Nature” oppure su “Science” a volte decide il destino di una carriera Questo alimenta la pressione e il rischio di comportamenti scorretti che oggi possono essere scoperti attraverso blog tematici

Massimiano Bucchi

Publish or perish, “pubblica o muori”, questa la brutale sintesi che spesso si fa del destino di un ricercatore. Lo scienziato giapponese Yoshiki Sasai purtroppo ha fatto entrambe le cose. Esperto di cellule staminali di fama internazionale, Sasai si è impiccato il 5 agosto 2014 nel proprio studio all’istituto Riken, dopo che due articoli di cui era co-autore era stati “ritrattati” dalla prestigiosa rivista scientifica Nature alcuni mesi dopo la loro pubblicazione. Gli articoli annunciavano la sensazionale scoperta di un metodo per trasformare normali cellule in cellule staminali pluripotenti – sarebbe stato “il sacro Graal della medicina rigenerativa”. Peccato che riciclassero immagini della tesi di dottorato della sua collega Haruko Obokata, che risultò anche aver pesantemente manipolato i dati dell’esperimento.
Anche se per fortuna l’epilogo non è sempre così tragico, la ritrattazione (retraction) è una delle cose peggiori che possano accadere ad un ricercatore e ad una pubblicazione scientifica, una sorta di “lettera scarlatta” impressa sul bene più prezioso di chi lavora nel mondo della scienza: la reputazione. Purtroppo simili casi non possono più essere liquidati come vicende eccezionali, né limitati a studiosi e pubblicazioni marginali o di dubbia reputazione. I principali database di pubblicazioni scientifiche, PubMed e Web of Science, indicano infatti come negli ultimi dieci anni il numero di pubblicazioni ritrattate sia cresciuto del 1000%, mentre nello stesso tempo il numero di articoli pubblicati è aumentato del 44%. Da circa 30 casi nel 2002 si è passati a quasi 400 nel 2014. Il fenomeno, come nel citato caso giapponese, investe sempre più frequentemente il gotha delle pubblicazioni scientifiche: si contano oltre trenta ritrattazioni tra il 2001 e il 2010 per la rivista
Science e poco meno per la stessa Nature ; venti casi solo nell’ultimo quinquennio per la non meno influente Proceedings of the National Academy of Sciences .
Una tendenza così evidente non può non portare ad interrogarsi sulle sue cause, anche perché le pubblicazioni ritrattate sono solo la punta dell’iceberg. Non tutti gli errori o le manipolazioni vengono scoperte, né conducono effettivamente a ritirare l’articolo; le riviste sono riluttanti a ritrattare studi pubblicati, e soprattutto a rivelare i motivi della ritrattazione. Secondo un’approfondita analisi svolta con alcuni colleghi da Ferric Fang della University of Washington School of Medicine nell’ambito della biomedicina e delle scienze della vita, solo una ritrattazione su cinque è dovuta alla genuina ammissione di errori. Oltre due casi su tre, invece, sono dovuti a plagio (10%) o vere e proprie frodi (oltre il 40% dei casi). Tre quarti dei comportamenti fraudolenti vengono da ricercatori attivi tra Stati Uniti, Germania, Cina e Giappone, mentre Cina e India messe insieme producono più casi di plagio degli Stati Uniti (e per una volta, ci dà sollievo trovare l’Italia agli ultimi posti di una classifica del settore scientifico).
Dunque nella maggioranza dei casi non si tratta di sviste, ma di comportamenti deliberati che vanno probabilmente inquadrati nel contesto di una pressione sempre maggiore nei confronti dei ricercatori per ottenere risultati rapidi e clamorosi. Pressioni per ottenere finanziamenti e visibilità non solo scientifica, ma anche mediatica per singoli e istituzioni di ricerca, aspettative di ritorno economico o perfino di stampo nazionalistico. L’enfasi con cui era stata accolta in Giappone la scoperta di Sasai e Obokata assomiglia molto a quella che accompagnò il caso Hwang una decina di anni fa in Corea del Sud: acclamato come eroe nazionale con francobolli a lui dedicati già in stampa, Hwang dovette ammettere di aver falsificato i dati del proprio esperimento.
La preoccupazione nella comunità scientifica è tale che il blog Retraction Watch, creato cinque anni fa da due esperti di editoria medico-scientifica, è divenuto rapidamente uno dei più popolari nel mondo scientifico con oltre 15 milioni di visualizzazioni. I più pessimisti lo considerano un deprimente bollettino giornaliero di guerra; i più ottimisti un’espressione della capacità della scienza di riconoscere e affrontare apertamente i propri errori. Il blog offre tra l’altro una singolare “hit parade” degli scienziati più “ritrattatori del mondo”. Al primo posto, l’inarrivabile (si spera) record dell’anestesiologo giapponese Yoshitaka Fujii, autore di ben 183 papers ritrattati. Roba da far impallidire perfino il mitico Diederik Stapel, star della psicologia olandese poi divenuto tristemente celebre per aver inventato, perlopiù di sana pianta, oltre cinquanta ricerche che trovavano regolarmente spazio sulle pubblicazioni scientifiche e nei media generalisti sapendo vellicare sapientemente le aspettative di colleghi e lettori.
Ma secondo Ivan Oransky, uno dei fondatori del blog, l’esplosione delle ritrattazioni segnala anche problemi ormai strutturali nel mondo delle pubblicazioni scientifiche e nelle stesse modalità di verifica dei risultati. È di questi giorni la notizia che uno dei colossi dell’editoria scientifica, Elsevier, ha dovuto ritrattare nove articoli approvati dopo revisioni rivelatesi “fasulle” (probabilmente concordate con gli stessi autori); in precedenza, ben 120 articoli erano stati ritirati da riviste di informatica del gruppo Springer poiché generati automaticamente, si è scoperto, utilizzando un software. È addirittura emerso che lo sciagurato articolo giapponese sulle cellule staminali era stato respinto da tre riviste, tra cui la stessa Nature che poi l’ha pubblicato!
Una simile crisi non riguarda ormai solo gli addetti ai lavori ma investe potenzialmente anche lo stesso statuto delle conoscenze e delle loro applicazioni, delineando scenari inquietanti soprattutto in settori come quelli legati alla salute e alla medicina. L’impatto di articoli e riviste smentiti infatti talvolta non si ferma neppure dopo la ritrattazione: Scott Reuben, definito da Scientific American “il Madoff della medicina”, è finito addirittura in carcere, ma una dozzina dei suoi studi ritrattati continuano ancor oggi imperterriti ad accumulare citazioni da parte dei colleghi.
Come si esce da una situazione che rischia di innescare una perdita di fiducia generalizzata nelle stesse modalità di produzione e validazione dei risultati di ricerca? Molti ritengono che si debba mettere innanzitutto in discussione il potere smisurato di alcune pubblicazioni e gruppi editoria-li, divenuti veri e propri “oligopoli epistemici”. Un articolo su Nature o Science può decidere il destino di una carriera di ricerca, alimentando la pressione e il rischio potenziale di comportamenti scorretti. Con risvolti in certi casi perfino comici. Nel 1987, stanco di vedersi rifiutare un articolo, il fisico americano William Hoover decise di rimandarlo al Journal of Statistical Physics cambiando solo il titolo e aggiungendo un inesistente co-autore: la rivista accettò immediatamente di pubblicarlo.
Sarebbe bastato un revisore italiano per svelare subito la burla dello scienziato: il fantomatico coautore era infatti un certo esponente del fantomatico “Institute of Advanced Studies di Palermo”, tuttora presente nei database scientifici e citato 143 volte.

Pound, eruzione infinita di contraddizioni


Ezra Pound in Piazza San Marco, Venezia, foto di David Lees

La monumentale biografia «Ezra Pound: poet» di David Moody, dalla Oxford University Press. Senza perdere mai di vista i testi, a cui dedica analisi puntuali, Moody conserva flemma e adesione critica davanti a un’enorme massa di materiale biografico, non di rado sconcertante

Massimo Bacigalupo, "Il manifesto", 25 ottobre 2015

Alla vigilia del 130° della nascita di Ezra Pound (Hailey, Idaho, 30 ottobre 1885), il critico inglese A. David Moody pubblica il terzo volume della sua poderosa biografia del vate americano, dedicata al periodo complicatissimo della guerra, detenzione eccetera. Il titolo è infatti Ezra Pound: Poet The Tragic Years 1939–1972 (Oxford University Press, pp. XXII+654). Studioso accreditato, Moody è anche biografo efficace e riesce a restituire tutta la complessità fascinosa e sconcertante dell’argomento, sicché si giustifica la monumentalità dell’impresa, quasi senza confronto per i coetanei innovatori di Pound.
I tre massicci tomi di Moody si intitolano rispettivamente The Young Genius 1885–1920, The Epic Years 1921–1939 e appunto The Tragic Years 1921–1939. Il titolo complessivo Ezra Pound: Poet è significativo perché nonostante tutto il clamore intorno ai fatti e misfatti di Pound, Moody dedica molta attenzione ai testi e non dubita, come annuncia già il titolo The Young Genius, che Pound sia fra i maggiori poeti (non solo personaggi) del Novecento. Volentieri dedica sezioni della biografia ad analisi ravvicinate delle opere più significative e a singoli volumi dei Cantos, che cominciarono a uscire nel 1925 per (non) concludersi solo nel 1968. In questo terzo volume ha il destro di parlare della sezione più memorabile dell’intero poema, i Canti pisani scritti nel 1945 durante la detenzione a Metato presso Pisa in un campo di prigionia dell’esercito Usa per migliaia di reclusi americani che dovevano essere «rieducati» e in taluni casi giustiziati. E le analisi di Moody di questi 11 canti (che portano i numeri 74–84), come anche di quelli successivi, sono convincenti e serrate. Chiaramente l’argomento gli è caro e anche lui ha passato decenni su questi fogli e ha le loro felici battute nell’orecchio e nel cuore.
Una partecipe ricostruzione fra fantasia e realtà dei Canti pisani e della loro genesi si trova anche nel breve romanzo La spia di Justo Navarro (Voland). Qui l’autore-narratore si mette sulle tracce di Pound e delle sue frenetiche attività letterarie e politiche in tempo di guerra, quando registrò le infauste trasmissioni da Roma rivolte a inglesi e americani che gli costarono l’imputazione per tradimento e tutti i guai che ne seguirono, ma che lo costrinsero anche a una decisiva resa dei conti e a scrivere quella confessione-apologia-diario di prigionia che sono appunto i Canti pisani. Navarro si diverte a immaginare che Pound fosse una spia doppiogiochista. Cosa senz’altro non vera, ma ben trovata, visto che fra i discepoli che visitarono Pound a Rapallo era quel James Jesus Angleton che diverrà un dirigente particolarmente delirante della CIA…
Insomma, Moody ha della bella materia di cui occuparsi, e lo fa con pacatezza, senza perdere il filo come si dice facesse Pound. In questi giorni infatti esce anche una ristampa di un volumetto poundiano quantomai sintomatico, Jefferson e Mussolini (a cura di Luca Gallesi, Bietti, pp. 125), scritto nel 1933 in inglese dopo che Pound ebbe il suo unico colloquio col Duce, e dallo stesso Pound assai ben tradotto (magari con qualche revisore amichevole) ed edito nel 1944 a Venezia dalla Casa Editrice delle Edizioni Popolari, ovvia emanazione della R.S.I. Sintomatico libretto per il suo vaneggiare ispirato fra letteratura, storia, economia, vita privata, quello che mi capitò a Excideuil, quanto faceva Gigi a due anni, i misfatti dei «mercanti di cannoni»… Perché talvolta Pound vede giusto. «E la vendita d’armi conduce ad ulteriore vendita d’armi, non c’è saturazione» ripeterà nei Pisani. E i banchieri, il credito sociale del maggiore Douglas… Questo diverrà un’ossessione e condurrà Pound alle sue perniciose dichiarazioni antiebraiche, ma evidentemente nasce da saeva indignatio, qui condita ancora da umorismo e distacco. Il tormentone delle banche e del controllo del credito non è certo meno attuale nel 2015 che nel 1932, quando Pound pensava (con qualche riserva) che Mussolini (e Lenin: li cita quasi sempre insieme) avessero trovato una via d’uscita.
Libro divagante, questo Jefferson e Mussolini è tutto sommato un autoritratto appassionato di Pound alle prese col mondo che vuole e non vuole cambiare. I lettori coscienziosi lo apprezzeranno come un commento ai Cantos XXXI-XLI, scritti nello stesso periodo, e che appunto iniziano con citazioni di Jefferson e finiscono con detti di Mussolini. Si possono trovare nel Meridiano I Cantos, curato dalla figlia Mary de Rachewiltz. La quale nel 2015 ha festeggiato 90 anni, spesi in buona parte ad amministrare l’eredità di un padre straordinario e ingombrante, ma anche a scrivere un suo proprio notevole diario poetico, riunito in tutta una serie di volumetti italiani e inglesi: «Ma la tua casa sarà bella e vuota / se abiterai col sole linda e candida, / l’uomo di ghiaccio ti ha donato il seme…» («Monumenti», in Polittico, Scheiwiller 1996).
Di Mary, nata dalla relazione di Pound con la violinista americana Olga Rudge che poi gli fu vicina negli ultimi anni, e di Dorothy Shakespear Pound, l’algida moglie britannica, e del figlio di lei e altro padre che ebbe nome Omar Pound, e dunque risultò a tutti gli effetti legittimo, Moody si occupa a lungo con la necessaria puntualità, fornendo nuovi importanti documenti. Dai quali si apprende per esempio che Pound, pur nella sua abituale scombinatezza, fece di tutto per riconoscere Mary come unica erede ed esecutrice testamentaria, firmando persino un atto notarile durante la guerra e altri documenti successivi. Che però furono ignorati in seguito alla dichiarazione di infermità mentale del 1945, sicché l’eredità rimase contestata fra la figlia di Ezra e Olga e il figlio di Dorothy e «R».
Si sa che, rimpatriato sotto accusa di tradimento, Pound non fu mai processato in quanto gli psichiatri convocati dal giudice Laws furono d’accordo nel ritenerlo incapace di intendere. Da ciò la lunga reclusione a St. Elizabeths, grande ospedale sulle alture di Washington dove Pound scrisse e brigò finché nel 1958 si decise di sanare la faccenda lasciando cadere l’imputazione e rilasciandolo sotto tutela della moglie. Donde poi nuove avventure, il ritorno in Italia, le passeggiate romane al Colle Oppio, la malattia, il decennio di silenzio fino alla morte.
Secondo Moody fu un grave errore della difesa scegliere la soluzione dell’incapacità mentale, e di Pound accettarla, poiché un processo difficilmente avrebbe portato a una pena detentiva o addirittura capitale come Eliot e altri amici temevano (e i nemici auspicavano). Ma è difficile nel 2015 ricostruire gli stati d’animo del 1945. Era tutta ovviamente una questione politica, e questo Pound lo sapeva: «Mi faranno uscire quando vorranno loro». Del resto Moody parla spesso di paranoia a proposito delle affermazioni farneticanti di Pound all’epoca di St. Elizabeths. Gli psichiatri dunque non mentirono, e il loro parere aveva il vantaggio di andare bene a tutti, compreso l’imputato. Le interviste di Pound con gli psichiatri dell’ospedale riportate da Moody offrono uno spettacolo surreale, dove non si sa chi sia più pazzo, Pound che si presenta a torso nudo e fa come stesse morendo di stanchezza, o lo psichiatra che compìto osserva, giudica e manda.
Moody ha raccolto un’enorme massa di materiale ed è straordinario che abbia saputo conservare tanta flemma e partecipazione critica in mezzo a quella che sembra un’eruzione infinita di contraddizioni.

domenica 18 ottobre 2015

«Einstein, la scoperta più bella»


Non c’è una formula per fare un best-seller

È la prima delle 7 brevi lezioni. 

È la bellezza della fisica, 
che non ha nulla da invidiare a quella dell’arte, della musica e della letteratura

Carlo Rovelli, "Il Sole 24 ore -Domenica", 18 ottobre 2015


Da ragazzo, Albert Einstein ha trascorso quasi un anno a bighellonare oziosamente. Era a Pavia, dove aveva raggiunto la famiglia, dopo avere abbandonato gli studi in Germania. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, fatto che spesso dimenticano i genitori degli adolescenti. Era l’inizio della rivoluzione industriale, e il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in Italia. Poi Albert si era iscritto all’Università di Zurigo e si era immerso nella fisica. Pochi anni dopo, nel 1905, aveva spedito tre articoli in un’unica busta alla principale rivista scientifica del tempo, gli «Annalen der Physik». Ciascuno dei tre valeva un Nobel. Il primo mostrava che gli atomi esistono davvero. Il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, di cui spero di dire qualcosa in futuro su questa pagina. Il terzo presentava la Teoria della Relatività (oggi chiamata «relatività ristretta»), che chiarisce che il tempo non passa eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente. Einstein diventa un fisico rinomato e riceve offerte di lavoro da diverse università. Ma qualcosa lo turba: la sua Teoria della Relatività non quadra con quanto sappiamo sulla gravità. Se ne accorge scrivendo un articolo di rassegna sulla nuova teoria, e si chiede se la vetusta e paludata «gravitazione universale» del grande padre Newton non debba essere riveduta anch’essa, per renderla compatibile con la nuova relatività. S’immerge nel problema. Ci vorranno dieci anni per risolverlo. Dieci anni di studi pazzi, tentativi, errori, confusione, idee folgoranti, idee sbagliate. Finalmente, nel novembre del 1915, manda alle stampe un articolo con la soluzione completa: una nuova teoria della gravità, cui dà nome «Teoria della Relatività Generale», il suo capolavoro. La «più bella delle teorie» l’ha chiamata il grande fisico russo Lev Landau.
Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear... Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi.
Ricordo l’emozione quando cominciai a capirne qualcosa. Era estate. Ero su una spiaggia della Calabria, a Condofuri, immerso nel sole della grecità mediterranea, al tempo dell’ultimo anno di università. Studiavo su un libro un po’ rosicchiato dai topi, perché l’avevo usato per chiudere le tane di queste bestiole, di notte, nella casa un po’ malandata sulla collina umbra, dove andavo a rifugiarmi dalla noia delle lezioni universitarie di Bologna. Ogni tanto alzavo gli occhi dal libro per guardare lo scintillio del mare: mi sembrava di vedere l’incurvarsi dello spazio e del tempo immaginati da Einstein. Era come una magia: come se un amico mi sussurrasse all’orecchio una straordinaria verità nascosta, e d’un tratto scostasse un velo dalla realtà, per svelarne un ordine più semplice e profondo. Da quando abbiamo imparato che la Terra è rotonda e gira come una trottola pazza, abbiamo capito che la realtà non è come ci appare: ogni volta che ne intravediamo un pezzo nuovo è un’emozione. Un altro velo che cade. Ma il salto compiuto da Einstein è un salto forse senza eguale.
Perché? Per prima cosa, perché una volta capito come funziona, la teoria è di una semplicità mozzafiato. Provo a riassumerne l’idea. Newton aveva cercato di spiegare perché le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una «forza» che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro: l’aveva chiamata «forza di gravità». Come facesse questa forza a tirare le cose da lontano, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone rigido per l’Universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto questo «spazio» contenitore del mondo, neppure era dato sapere. Ma pochi anni prima della nascita di Albert, due grandi fisici britannici, Faraday e Maxwell, avevano aggiunto un ingrediente nuovo al freddo mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica. Einstein, affascinato fin da ragazzo dal campo elettromagnetico, che faceva girare i rotori delle centrali elettriche che costruiva papà, capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve essere portata da un campo: ci deve essere un «campo gravitazionale»; e cerca di capire come possa essere fatto e quali equazioni lo possano descrivere.
E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio: il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio, il campo gravitazionale è lo spazio. Lo «spazio» di Newton, nel quale si muovono le cose, e il «campo gravitazionale», che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa. È una folgorazione. Una semplificazione impressionante del mondo: lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia; è una delle componenti «materiali» del mondo. Un’entità che ondula, si flette, si incurva, si storce. Non siamo contenuti in una invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché è tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono forze misteriose generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a fare ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva.
Come descrivere questo incurvarsi dello spazio? Il più grande matematico dell’Ottocento, Carl Friedrich Gauss, «principe dei matematici», aveva scritto la matematica per descrivere le superfici curve bidimensionali, come la superficie delle colline. Poi aveva chiesto a un suo bravo studente di generalizzare il tutto a spazi curvi di dimensione tre o più. Lo studente, Bernhard Riemann, aveva prodotto una ponderosa tesi di dottorato, di quelle che sembrano completamente inutili. Il risultato era che le proprietà di uno spazio curvo sono catturate da un certo oggetto matematico, che oggi chiamiamo la curvatura di Riemann e indichiamo con R. Einstein scrive un’equazione che dice che R è proporzionale all’energia della materia. Cioè: lo spazio si incurva là dove ci sia materia. È tutto. L’equazione sta in una mezza riga, non c’è altro. Una visione e un’equazione.
Ma dentro quest’equazione, c’è un universo rutilante. E qui si apre la ricchezza magica di questa teoria. Una successione fantasmagorica di predizioni che sembrano i deliri di un pazzo, e invece sono state tutte verificate dall’esperienza. L’equazione descrive come si curva lo spazio intorno a una stella. A causa di questa curvatura, la luce devia. Einstein predice che il Sole devii la luce. Nel 1919 viene compiuta la misura, e risulta essere vero. Non è solo lo spazio a incurvarsi, ma anche il tempo; ed Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Si misura, e risulta essere vero. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui. È solo l’inizio. Quando una grande stella ha bruciato tutto l’idrogeno, si spegne e quanto resta viene schiacciato sotto il proprio stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Sono i famosi buchi neri. Quando studiavo all’università, erano poco credibili predizioni di una teoria esoterica. Oggi sono osservati nel cielo a centinaia. Ma non basta. Lo spazio intero può distendersi e dilatarsi; anzi, l’equazione indica che non può stare fermo, deve essere in espansione. Nel 1930, l’espansione dell’Universo viene effettivamente osservata. E la stessa equazione predice che l’espansione debba essere nata dall’esplosione di un giovane universo piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang. Ancora una volta, nessuno ci crede, ma le prove si accumulano, fino a che nel cielo viene osservata la radiazione cosmica di fondo: il bagliore diffuso che rimane dal calore dell’esplosione iniziale. E ancora, la teoria predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare, e gli effetti di queste «onde gravitazionali» sono osservati nel cielo sulle stelle binarie, e combaciano con le previsioni della teoria con la sbalorditiva precisione di una parte su cento miliardi. E così via.
Insomma, la teoria descrive un mondo colorato e stupefacente, dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta abbassandosi su un pianeta, e le sconfinate distese di spazio interstellare si increspano come la superficie del mare... e tutto questo, che emergeva pian piano dal mio libro rosicchiato dai topi, non era una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore, o l’effetto del sole della Calabria, un’allucinazione sul baluginare del mare. Era realtà. O meglio, uno sguardo verso la realtà, un po’ meno velato di quello della nostra offuscata banalità quotidiana. Una realtà che sembra anch’essa fatta della materia di cui son fatti i sogni, ma pur tuttavia più reale del nostro annebbiato sogno quotidiano. E tutto questo, il risultato di un’intuizione elementare: lo spazio e il campo sono la stessa cosa. E di un’equazione semplice, che non resisto a ricopiare qui, anche se il lettore non potrà certo decifrarla, ma vorrei che almeno ne vedesse la semplicità: Rab - ½ R gab = Tab . Tutto qui.
Certo, ci vuole un percorso di apprendistato per digerire la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica per leggere quest’equazione. Ci vuole un po’ d’impegno e fatica. Ma meno di quelli necessari per arrivare a sentire la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven.


Le tre regole della buona divulgazione
Entusiasmare, chiarire, portare lontano

Luciano Maiani

Sette brevi lezioni di fisica, di Carlo Rovelli è il libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere. Entrare in una libreria a caso e vedere il libro esposto in prima linea, tra le novità della settimana, ha suscitato in me un misto di entusiasmo e di invidia.
Comunicare le idee e le scoperte che animano il nostro lavoro è il desiderio reale di noi che dedichiamo alla scienza la nostra vita, per vedere riflesso negli altri lo stupore e l’entusiasmo che avevano suscitato in noi quando le abbiamo apprese per la prima volta. Ahimè, il più delle volte lo scopo fallisce, i nostri argomenti si fanno complicati (anche per la preoccupazione del: che diranno i colleghi?) e l’attenzione del lettore si volge ad altro.
Una trappola che Rovelli evita accuratamente, è voler trasformare il lettore in un novello matematico (o fisico o chimico), suggerendo tracce di ragionamenti che dovrebbero fargli ricostruire, partendo da zero, i nostri bellissimi risultati. Che so, la formula di Bohr per l’atomo di idrogeno o la legge di Keplero. Qui già Hawking ci aveva messo in guardia, dicendoci che l’unica formula da usare è E=mc², incomprensibile ai più ma tanto famosa da non suscitare la caduta immediata dell’attenzione del lettore. Innovando su questo, Rovelli lancia un’altra formula di Einstein: Rab -1/2 R gab =Tab , meno famosa e altrettanto incomprensibile, ma è alla fine del capitolo e non fa danno.
Però, proprio qui forse sta il segreto. I libri (o articoli, o lezioni) che molti di noi fanno (o, almeno, che io faccio) sono volti a creare dei proseliti. A suscitare nel giovinetto o nella giovinetta il desiderio di intraprendere la strada che, da giovane, mi fu indicata dai libri di divulgazione del passato (primo fra tutti il libro di Einstein e Infeld, edito da Einaudi, Dio lo benedica, che sta ancora nella mia libreria). È qui che serve (forse) far vedere la forza del pensiero che trasforma le idee in formule concrete da applicare poi al mondo intorno a noi.
Rovelli non cade neanche in questa trappola. Il suo libro è rivolto al lettore colto che vuole farsi un’idea di quello che succede nella scienza. Proprio come noi, scienziati, vogliamo ogni tanto curiosare nella storia o nella filosofia, senza perderci nei dettagli della ragion pratica o del De Bello Gallico.
Regola aurea di ogni seminario (ma vale anche per i libri) è di essere entusiasmanti all’inizio, chiari nel seguito, e di sentirci autorizzati, alla fine, a parlare di cose che neanche noi forse capiamo a fondo. Rovelli segue questa regola e coglie pienamente nel segno. Complimenti.


domenica 11 ottobre 2015

Social solitudine


Siamo tutti schiavi di un Io idealizzato e virtuale, che oscura il nostro Io reale e ci allontana da ogni legame autentico pur di non rinunciare alla pigra “comodità” di Google o Facebook 
È la condizione umana dell’era digitale


Jonathan Franzen, "La Repubblica", 11 ottobre 2015

Sherry Turkle è una voce a sé nel dibattito sulla tecnologia. È una scettica con un passato da credente, una psicologa clinica in mezzo a imbonitori aziendali e cassandre letterarie, un’empirica in mezzo ad aneddotisti selettivi, una moderata in mezzo a estremisti, una realista in mezzo a sognatori, un’umanista ma non luddista: un’adulta. Ha una cattedra sovvenzionata al Mit e lavora a stretto contatto con gli esperti di robotica e affective computing che lavorano da quelle parti. A differenza di Jaron Lanier, che si porta dietro il pesante fardello di essere un dipendente Microsoft, o di Evgenij Morozov, che ha una prospettiva bielorussa, la Turkle è un’insider fidata e rispettata, e questo ne fa una sorta di coscienza del mondo high-tech.
Il suo precedente libro (Insieme ma soli: perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, pubblicato in Italia da Codice) era uno spietato rapporto sulle relazioni umane nell’epoca digitale. Osservando le interazioni delle persone con i robot, e intervistandole sul loro rapporto con computer e telefonini, raccontava come le nuove tecnologie rendano obsoleti i vecchi valori. Quando sostituiamo i badanti umani con dei robot, o parliamo attraverso i messaggini, cominciamo dicendo che i surrogati sono «meglio di niente», ma arriviamo a considerarli «meglio di qualsiasi altra cosa»: più puliti, meno pericolosi, meno esigenti. Parallela a questo mutamento corre una preferenza crescente per il virtuale rispetto al reale. I robot non provano sentimenti di affetto per le persone, ma i soggetti intervistati dalla Turkle arrivavano ad accontentarsi, con sconvolgente rapidità, della sensazione di essere accuditi, e allo stesso modo arrivavano a preferire il senso di comunità che i social media trasmettono, perché non è accompagnato dai rischi e dagli impegni di una comunità reale. Nelle sue interviste la Turkle osservava ripetutamente una profonda delusione nei confronti degli esseri umani, imperfetti, distratti, bisognosi, imprevedibili come le macchine sono programmate per non essere.
Il suo nuovo libro, Reclaiming Conversation, estende la sua analisi critica, spostando l’attenzione dai robot all’insoddisfazione verso la tecnologia espressa dalle persone che ha intervistato di recente. La Turkle interpreta questa scontentezza come un segnale di speranza, e il suo libro rappresenta una vera e propria chiamata alle armi: la nostra entusiastica sottomissione alle tecnologie digitali ha portato a un’atrofizzazione di capacità umane come l’empatia e l’introspezione, ed è arrivato il momento di riaffermare noi stessi, comportarci da adulti e rimettere la tecnologia al suo posto. Come in Insieme ma soli , la forza della tesi della Turkle deriva dall’ampiezza della ricerca e dall’acume delle sue osservazioni psicologiche. Le persone intervistate hanno adottato nuove tecnologie perché ricercavano un maggior controllo, ma hanno finito per sentirsi controllate dalle tecnologie.
L’io amabile e idealizzato che hanno creato con i social media lascia ancora più isolato il loro io reale. Comunicano incessantemente, ma hanno paura delle conversazioni faccia a faccia; sono preoccupati, spesso in modo nostalgico, di tralasciare qualcosa di fondamentale. La conversazione è il principio organizzativo della Turkle, perché gran parte degli elementi costitutivi dell’umanità è a rischio quando la sostituiamo con la comunicazione elettronica. La conversazione presuppone solitudine, per esempio, perché è nella solitudine che impariamo a pensare per conto nostro e sviluppare un senso stabile dell’io, elemento essenziale per accettare gli altri così come sono. (Se non riusciamo a separarci dai nostri smartphone, dice la Turkle, consumiamo le altre persone «a spizzichi e bocconi: è come se le usassimo alla stregua di pezzi di ricambio per sostenere il nostro fragile io».) Attraverso l’attenzione conversativa dei genitori, i bambini acquisiscono un sentimento duraturo di connessione e l’abitudine di parlare dei loro sentimenti, invece di limitarsi ad agire sulla base di essi. (Turkle è convinta che conversare regolarmente in famiglia contribuisca a «immunizzare» i bambini dal bullismo.) Quando parli a qualcuno di persona, sei costretto a riconoscere la sua piena realtà umana, ed è qui che inizia l’empatia. (Uno studio recente dimostra un drastico calo dell’empatia, misurato con test psicologici standard, fra gli studenti universitari della generazione degli smartphone.) E la conversazione si porta dietro il rischio di noia, la condizione che gli smartphone ci hanno insegnato a temere sopra ogni altra cosa, ma anche la condizione in cui si sviluppano la pazienza e l’immaginazione.
La Turkle esamina ogni aspetto della conversazione – da soli con se stessi, con parenti e amici, con insegnanti e partner, con colleghi e clienti, con la società in generale – e racconta l’erosione elettronica di ciascuno di essi. Facebook, Tinder, i Mooc, i messaggini compulsivi, la tirannia delle mail di lavoro e la vuotezza dell’attivismo sociale online finiscono tutti nel mirino dell’autrice.
Ma la parte più commovente e rappresentativa del libro riguarda la scomparsa delle conversazioni in famiglia. Il circolo vizioso funziona in questo modo, secondo i giovani intervistati dalla Turkle: «I genitori regalano ai figli il telefono. I figli non riescono a distogliere i genitori dal loro telefono e allora si rifugiano nel loro. Poi i genitori interpretano il fatto che i figli siano assorbiti dal loro telefono come un’autorizzazione a usare a loro volta il telefono quanto vogliono». Secondo la Turkle la responsabilità è tutta dei genitori: «Il modo più realistico per spezzare questo circolo è fare in modo che i genitori si assumano la loro responsabilità di mentori». Riconosce che può essere difficile, che i genitori hanno paura di rimanere tecnologicamente indietro rispetto ai figli, che per conversare con dei bambini ci vuole pazienza e pratica, che è più facile dimostrare amore genitoriale scattando tonnellate di foto e pubblicandole su Facebook. Ma a differenza di Insieme ma soli, dove si accontentava di diagnosticare, in Reclaiming Conversation la Turkle usa un tono terapeutico ed esortativo. Invita i genitori a capire cosa c’è in gioco nelle conversazioni familiari – «lo sviluppo della fiducia e dell’autostima», «la capacità di provare empatia, amicizia, intimità» – e a riconoscere la propria vulnerabilità rispetto agli incanti della tecnologia. «Accettate la vostra vulnerabilità», dice. «Rimuovete la tentazione».
Reclaiming Conversation può essere visto come un sofisticato manuale di autoaiuto. Sostiene con argomenti convincenti che i bambini si sviluppano meglio, gli studenti imparano meglio e i dipendenti hanno un rendimento migliore quando i loro mentori danno il buon esempio e ritagliano spazi per interazioni faccia a faccia. Ma suona meno convincente quando esorta all’azione collettiva. È convinta che sia possibile e doveroso progettare una tecnologia «che ci imponga di usarla in modo più consapevole». Invoca un’interfaccia per smartphone che «invece di incoraggiarci a stare connessi il più a lungo possibile ci incoraggi a staccarci». Ma un’interfaccia del genere metterebbe a rischio quasi tutti i modelli di business della Silicon Valley, dove capitalizzazioni di mercato smisurate sono fondare proprio sulla capacità di tenere i consumatori inchiodati ai loro apparecchi. La Turkle spera che la domanda dei consumatori, che ha costretto l’industria alimentare a creare prodotti più sani, possa alla fine costringere l’industria high-tech a fare altrettanto. Ma l’analogia è imperfetta: le aziende del comparto alimentare guadagnano vendendo cose essenziali, non inserendo pubblicità mirate in una braciola di maiale o sfruttando i dati che fornisce una persona mentre la addenta. L’analogia è anche politicamente inquietante: dal momento che una piattaforma che scoraggia il coinvolgimento è meno redditizia, per guadagnare dovrebbe far pagare un sovrapprezzo che solo consumatori benestanti e istruiti, del genere di quelli che fanno la spesa nei negozi di prodotti bio, sarebbero disposti a pagare.
Reclaiming Conversation si sofferma sugli aspetti politici della privacy e sui robot che fanno risparmiare lavoro, ma la Turkle si tiene a distanza dalle implicazioni più radicali delle sue scoperte. Quando fa notare che a casa di Steve Jobs tablet e smartphone erano vietati quando si cenava e la famiglia era incoraggiata parlare di libri e di storia, o quando cita Mozart, Kafka e Picasso sull’importanza di una solitudine senza distrazioni, sta descrivendo le abitudini di individui altamente efficaci.
E sì, la famiglia che se la passa abbastanza bene da comprare e leggere il suo nuovo libro forse riuscirà a limitare l’esposizione alla tecnologia e vivrà ancora meglio. Ma che ne sarà della gran massa delle persone, troppo ansiose o troppo sole per resistere alle attrattive della tecnologia, troppo povere o sovraccariche di impegni per sfuggire ai circoli viziosi? Matthew Crawford, in The World Beyond Your Head, mette a confronto il mondo di una sala aeroportuale per «poveri» (saturata di pubblicità, stracolma di schermi magnetici) con il mondo sereno e senza pubblicità di una sala d’aspetto business: «Per dedicarsi a riflessioni allegre e creative, e magari creare ricchezza per se stessi durante quelle ore inoperose trascorse in aeroporto, c’è bisogno di silenzio. Ma la mente degli altri, giù nella sala d’aspetto dei poveri (o alla fermata dell’autobus), può essere trattata come una risorsa, una riserva deambulante di potere d’acquisto». Le nostre tecnologie digitali non sono politicamente neutre. Il giovane che non riesce a stare o non sta mai da solo, non riesce a conversare con la famiglia, a uscire con gli amici, ad andare a una conferenza o a svolgere un compito senza controllare il suo smartphone è l’emblema di un’economia attaccata come una sanguisuga al nostro corpo. La tecnologia digitale è il capitalismo a velocità iperspaziale, che inietta la sua logica del consumo e della promozione, della monetizzazione e dell’efficienza in ogni minuto che trascorriamo da svegli.
È forte la tentazione di correlare l’ascesa della «democrazia digitale» con il forte incremento della disuguaglianza economica, di vederci qualcosa di più di un semplice paradosso. Ma forse l’erosione dei valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare per la comodità «gratuita» di Google, la confortevolezza di Facebook e la compagnia affidabile degli iPhone. Il fascino di Reclaiming Conversation sta nell’evocazione di un’epoca, non molto lontana, in cui la conversazione, la privacy, le sfumature nelle discussioni non erano beni di lusso. Non è colpa della Turkle se il suo libro può essere letto come un manuale per privilegiati. Si rivolge a una classe media in cui lei stessa è cresciuta, evocando una profondità di potenziale umano che un tempo era diffusa. Ma il medio, come sappiamo, sta scomparendo.
© The New York Times 2015 (Traduzione di Fabio Galimberti)

martedì 6 ottobre 2015

"Povera e nuda vai, Filosofia - dice la turba al vil guadagno intesa..."


Se la scuola volta le spalle alla filosofia

In Spagna l’ultima riforma rende la materia facoltativa,
 tra le proteste del mondo culturale
Ma il dibattito resta aperto. In tutti i paesi europei

Alessandro Oppes

"La Repubblica", 6 ottobre 2015

Le hanno tentate tutte, professori, filosofi, esperti di pedagogia, docenti di discipline umanistiche. Ma niente da fare. Non c’è posto nella scuola modello Rajoy — quella che ha ripristinato la religione obbligatoria e ha abolito l’educazione civica, troppo “ideologica” forse perché voluta dal socialista Zapatero — per la filosofia come pilastro del sapere. L’ultima riforma dell’educazione, la Lomce, imposta dall’ormai ex-ministro José Ignacio Wert (sempre in coda nei sondaggi sul gradimento dei politici) dopo una lunga battaglia a suon di scioperi in cui studenti, presidi e genitori si presentavano uniti, relega la materia a un ruolo da comprimaria. Finora alle superiori si insegnavano tre discipline legate tra loro, filosofia, valori etici e storia della filosofia. Ora solo la prima sarà obbligatoria nel primo anno di “bachillerato”, il biennio che precede l’accesso all’università. Per il resto, saranno gli assessorati all’educazione delle 17 regioni a decidere al principio che la legge definisce “libre configuración”, la libertà degli istituti di impartire corsi sui temi che preferiscono. La conseguenza paradossale è che in questo modo, nonostante una religiosità nettamente in calo, l’iscrizione ai corsi di religione ha subito un aumento 150 per cento perché alternativi alla disciplina dei “valori etici”, impartita da professori di filosofia ma considerata molto più ostica.
Nel corso dell’elaborazione della legge ci sono stati numerosi incontri tra rappresentanti del Ministero e delegazioni di insegnanti, ma senza alcuna concessione alle esigenze dei docenti. Il mondo della cultura non rinuncia però a mobilitarsi. Una lettera dal titolo La belleza de las humanidades, inviata al quotidiano El País, è stata condivisa da 200mila utenti Facebook. Parla di una filosofia «seppellita nell’oscuro baule dove sono già state relegate le sue sorelle musica, pittura, letteratura, storia». Sullo stesso giornale Antonio Campillo, presidente della Red Española de Filosofía, ricorda che «perfino le scuole per manager sanno che economisti e ingegneri hanno bisogno delle materie umanistiche ». Il dibattito continua.

Perfino in Germania patria di Kant e Hegel 
non è più nei programmi degli istituti superiori

Oggi piacciono i guru del pensiero, i life coach 
“Ma così diventa un fenomeno pop”

La Spagna cancella la filosofia? «È la testimonianza che hanno vinto i manager, i fautori del pensiero monetizzabile». Roberto Esposito difende la «disciplina che ci allena a pensare e a sviluppare le nostre capacità logiche », e dice: «Non mi stupisco. Tutto questo fa parte di un processo di economicizzazione del sapere avviato da anni». Massimo Cacciari è ancora più duro: «Si vogliono formare persone disarmate dal punto di vista culturale, per le quali conta solo il risultato».
Un destino curioso quello della filosofia. Ha fondato la nostra civiltà ma si deve difendere da chi vorrebbe considerarla inutile. Il rischio anche nel nostro paese è vederla relegata tra le materie facoltative che lo studente può decidere se studiare o meno. Anche se finora “resistono” le tre ore settimanali nei licei classici, scientifici e delle scienze umane, ridotte a due negli altri licei, tra cui il musicale e l’artistico. Il processo di marginalizzazione procede però a grandi balzi in altri paesi europei. In Germania, la patria dei filosofi, è sparita da tempo dalle scuole superiori, in Francia le ore di insegnamento sono state ridotte, mentre nelle nostre università si tende a relegarla ad una disciplina ancellare di altre materie. Emanuele Severino critica le mosse dei governi europei: «Più che una povertà filosofica si tratta di una povertà concettuale. Si sta imponendo la cultura di carattere tecno-scientifico. La scienza è oggi convinta di poter andare al di là di ogni limite, ma è la filosofia a dare valore alla scienza. La potenza della tecnica è dovuta a un teorema filosofico: che di limiti non ce ne siano». Dobbiamo dunque abituarci a un processo irreversibile? «Sì, almeno fin quando non ci si renderà conto che il paradiso della tecnica dà una felicità ipotetica. Che quel paradiso è in realtà un inferno».


L’allarme degli studiosi italiani
“Non è una disciplina da yes-men per questo vogliono cancellarla”

Raffaella De Santis

Un impoverimento che non ci è estraneo: «Negli anni ho notato un progressivo deterioramento — racconta Esposito — Nelle università c’è ormai la tendenza ad inserire i corsi di filosofia dentro quelli di pedagogia. Conta più il pedagogo che lo studioso ». Eppure, come fa notare Remo Bodei «la filosofia serve a creare la nostra personalità, ci aiuta a costruire l’identità, ci dà le coordinate per orientarci nel mondo. Senza essere un fautore della bottega filosofica, credo sia un errore ciò che sta accadendo in Europa. In Germania si studia filosofia solo nelle scuole di élite, mentre sono i valori umanistici a darci uno sguardo non specialistico».
Qualche anno fa abbiamo assistito ad un’improvvisa rinascita di interesse. Il filosofo d’un tratto ha preso il posto dello psicologo, è diventato un life coach, un guru, un maestro di vita. Per Esposito è proprio lì il segno dei tempi: «Il pensiero implica un lavoro, l’incontro con un ostacolo, non può essere usato per risolvere problemi. Ma oggi piace di più la pop filosofia».
Un senso comune piuttosto riduttivo associa la filosofia a ciò che è astratto (la classica immagine del filosofo con la testa fra le nuvole). Come se il sacrificio avvenisse in nome di un sapere più pratico e pragmatico. I filosofi sanno che non è così. Massimo Cacciari è preoccupato e spiega bene le implicazioni pro- fonde dello studio filosofico: «La filosofia è una ricerca sulla nostra storia, sul nostro destino, indaga le ragioni profonde della storia della civiltà. È molto concreta, tutt’altro che astratta». E Maurizio Ferraris, poco incline al postmoderno e sostenitore di un “nuovo realismo” filosofico, ne parla come di un «antidoto contro dogmatismi, integralismi e intolleranze. Una nazione che sappia di filosofia — dice Ferraris — è una nazione che a livello diffuso è più aperta di una che non ne sappia niente. Detto questo, togliere la filosofia dai licei non comporterà la riduzione dei filosofi, come mostra il caso della Germania».
Poi su come la filosofia vada insegnata nelle scuole secondarie, i filosofi non si trovano sempre d’accordo. Per Ferraris l’approccio storico è quello più utile: «Meglio insegnare la storia della filosofia piuttosto che fare come i francesi che procedono per problemi filosofici. Così come è meglio insegnare la letteratura raccontando Dante, Petrarca e Boccaccio (e facendo leggerne i testi) piuttosto che invitando gli studenti a comporre endecasillabi su problemi teologici ».
Ma Cacciari avverte: «Se viene insegnata come una marcetta trionfale, passando da filosofo a filosofo, inanellando una catenina di opinioni, è un disastro. Altra cosa se la filosofia è una riflessione critica sul vocabolario della cultura europea, anche quella tecnico-scientifica ». Perché non è vero che scienza e filosofia sono antitetiche, è un altro luogo comune pensarle nemiche e credere di poter sacrificare la filosofia, ritenendola meno al passo con i tempi. Paolo Zellini, studioso che nei suoi libri ha indagato il rapporto tra matematica e filosofia, lo spiega bene: «Anche le formule filosofiche si capiscono meglio se si collegano alle formule matematiche. Quando Aristotele sostiene che l’ideale etico dell’uomo è nel giusto mezzo tra eccesso e difetto, sta utilizzando due categorie che tornano continuamente nei calcoli matematici». E tanto basta a vanificare anche l’argomento scienza contro discipline umanistiche.
Si può vivere senza filosofia? Giulio Giorello risponde: «Si può, certo, ma sarebbe una vita molto squallida. Da Platone ad Heidegger, la filosofia è un grande esercizio di libertà. E a chi fa notare che ci sono materie più “utili”, rispondo che è vero, ma la filosofia è utile proprio come esercizio superfluo dell’intelletto. Come diceva Re Lear “toglietemi tutto, ma non il superfluo”». La conclusione di Cacciari è però amara: «Sta diventando opzionale tutto ciò che dà una prospettiva critica. La classe politica diventa ogni giorno più ignorante. È una tendenza generale, non solo italiana. Un processo irreversibile, non mi faccio nessuna illusione».

Gadda svelato da Caravaggio


L’autore del «Pasticciaccio» era un grande esperto d’arte. E nell’alludere 
a «Giuditta e Oloferne» offre una chiave per risolvere il delitto di via Merulana

PAOLO DI STEFANO, “Corriere della Sera”, 5 ottobre 2015 

Un commento necessariamente enciclopedico per un’opera necessariamente enciclopedica. Quasi 1.200 pagine per spiegare un romanzo di poco più di 300 che è un concentrato di riferimenti criptici, di allusioni, di citazioni sotterranee, di rimescolamenti e garbugli stilistici che solo l’ingegner Carlo Emilio Gadda poteva concepire. Un laboratorio tenuto aperto, all’Università di Basilea, con un’équipe variabile di studenti e ricercatori, per oltre sei anni sulle pagine del romanzo più noto di Gadda, uscito nel 1957 per Garzanti e subito ristampato con successo, diventando un bestseller assurdo se si pensa che si tratta di un giallo talmente complesso da non trovare soluzione (il secondo volume promesso all’editore non sarebbe mai stato consegnato), di un intrigo più mentale che materiale su cui indaga il commissario-filosofo don Ciccio Ingravallo.
È stata Maria Antonietta Terzoli, uscita dalla scuola di Dante Isella, a immaginare e poi a guidare questa opera-mondo al quadrato, dopo tanti studi dedicati al Gran Lombardo. È nell’arte della contaminazione che si gioca l’idea gaddiana di letteratura. Nella consapevolezza che lo scrittore non è mai solo con se stesso, ma «per simpatia o per contrasto, per imitazione o per avversione», lavora sempre in compagnia di altri, quelli che sono venuti prima di lui: dunque, la sua opera è il risultato di una selezione nella gamma infinita delle opere precedenti, letterarie e non solo. Il fatto incontestabile è che Gadda è un autore iperletterario, che in modo più o meno esplicito accoglie, rimescolandole, tessere visive, lessicali, stilistiche provenienti da fonti molteplici e diversissime. Ecco perché un commento applicato al Pasticciaccio era non solo auspicabile ma necessario, come lo è stato quello della Cognizione del dolore, elaborato per anni da Emilio Manzotti. Stessa necessità che riguarda in genere i capolavori letterari, le cui risorse non cessano di sorprendere.
E infatti le sorprese con Gadda sono infinite. Uno degli aspetti più notevoli di questo Commento è la messa in rilievo dei fittissimi rapporti con le arti figurative. Già critici come Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro se n’erano occupati: «Nella biblioteca di Gadda conservata al Burcardo - ricorda Terzoli - abbiamo trovato molti volumi di storia dell’arte e cataloghi postillati, in cui Gadda annota, contesta o concorda, rivelando in materia una competenza straordinaria». Il secondo volume del Commento contiene un inserto significativo di immagini di opere d’arte firmate dai maggiori e dai minori, dagli italiani agli stranieri: dal Botticelli a Scipione, da Tiziano a Boldini, dal Signorelli al Correggio, dal Melozzo a Everett Millais, dal Mantegna al Bellini a Pietro Longhi a Picasso, e si potrebbe continuare con (quasi) l’intero scibile dell’arte figurativa. Tutto materiale presente nel romanzo, in ecfrasis più o meno occulte, cioè in una interminabile serie di traduzioni verbali da opere d’arte visiva. Ecco, per esempio, un quadro del romantico monferrino Eleuterio Pagliano che raffigura il pittore greco Zeusi a Crotone davanti a un quintetto di fanciulle da cui si propone di copiare i pregi migliori per dipingere la bellezza perfetta di Elena: eccolo, quel quadro, comparire, su una parete della bettola promiscua gestita dalla maga Zamira, un quadro erroneamente interpretato dai frequentatori come una sorta di ambulatorio medico. 

Non c’è da meravigliarsi che Gadda giochi di parodia o di deformazione. Ma l’oleografia, che apre la serie delle rappresentazioni pittoriche descritte nel romanzo, ha un valore emblematico. Gadda è Zeusi: «Allude implicitamente - osserva Terzoli - alla costruzione del suo proprio testo, che per rappresentare il reale recupera, selezionandole e contaminandole, le parti migliori di opere precedenti».
In altri casi non c’è parodia ma più che seria allusione occulta. È il caso - autentica scoperta critica di questo Commento - della pala caravaggesca di Palazzo Barberini raffigurante Giuditta che taglia la testa a Oloferne: da lì proviene, scrive Terzoli, «il tratto fisiognomico più significativo che suggella il Pasticciaccio, la ruga verticale tra le sopracciglia del volto adirato» dell’ultima cameriera della vittima Liliana Balducci, e cioè Assunta. Il cui identikit trova rispondenza in Giuditta anche per gli orecchini pendenti di perle. 


Al quadro di Caravaggio, di grande attualità negli anni 50, Roberto Longhi, il critico d’arte prediletto da Gadda, aveva dedicato un saggio su «Paragone» nel 1951: un fascicolo presente nella biblioteca dello scrittore. Ecco un elemento extratestuale che induce a pensare che oltre a Virginia, la nipote già pesantemente indiziata come colpevole dell’omicidio della povera Liliana (vittima di un taglio alla gola), ci fosse anche Assunta. Un altro quadro, ben noto a Gadda, che confermerebbe la doppia colpevolezza è la Giuditta di Artemisia Gentileschi, dove l’assassinio è compiuto da due giovani donne, la stessa Giuditta e la fantesca. Ecco, dunque, spiegato uno dei finali più misteriosi della letteratura italiana? Può essere, in attesa dell’indagine che sta portando avanti su alcuni inediti un altro gaddista doc, Giorgio Pinotti.


«Il Commento - dice Terzoli - illustra come lavorava Gadda: utilizzando cioè strumenti importanti per la costruzione del sapere della nuova Italia, elaborati a inizio Novecento». Tra questi non solo i classici latini (che l’Eneide sia uno dei grandi modelli è dimostrato, tra l’altro, dall’insistito gioco onomastico: Enea, Lavinia, Camilla...). E non solo i classici italiani: don Ciccio ha la stessa età, 35 anni, del Dante che si avvia nella selva oscura, ed è lui (controfigura dell’autore) che costruisce gran parte della narrazione. Non solo l’amato Manzoni, anche in questo caso con allusioni onomastiche (la diabolica Virginia porta lo stesso nome della monaca di Monza). Anche i richiami letterari, come quelli artistici, spaziano, dalle origini ai contemporanei (Moravia e Montale), passando per Dossi, Verga, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Svevo e Pirandello. Per non dire dei dialettali, Porta e Belli in primis, e persino il napoletano Giambattista Basile, il cui Cunto de li cunti fu letto da Gadda nella versione di Croce. Senza dimenticare la presenza della tradizione lirica. È per questo che Terzoli parla di un autentico «romanzo dell’Unità nazionale», diversamente dalla lombarda Cognizione, dove ovviamente mancano i richiami alle tradizioni romane e all’archeologia presenti nel Pasticciaccio. Nulla sfugge al Gadda pasticciante: neanche i grandi stranieri, dall’amatissimo Shakespeare a Goethe, all’adorato Balzac, ai russi (Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij).
Ma sul versante nazionale, ecco un’altra lettura trasversale che non può (e non deve) sfuggire: come può, il lombardissimo Ingegnere in blu, trasferitosi a Roma solo nel 1950, ma alle prese con il romanzo sin dal 1946, conoscere alla perfezione i tracciati della Capitale e in particolare dei Colli Albani (dove si svolge l’indagine degli ultimi capitoli), rispettandone le planimetrie e le topografie? Ricorrendo massicciamente alle guide del Touring, che, con l’Enciclopedia Treccani, sono il vero fondamento del romanzo (e del sapere italico).