lunedì 30 marzo 2015

Traduttori, nobil razza dannata


Come in un memoir, Massimo Bocchiola racconta gioie e dolori del suo lavoro: tradurre, come scrivere, significa sconfiggere la morte attraverso la parola

Giuseppe Culicchia

"La Stampa", 30 marzo 2015


Che cosa hanno in comune, a parte naturalmente la professione, Stephen King e Samuel Beckett, Martin Amis e Irvine Welsh, Thomas Pynchon e Paul Auster? Semplice: in molti li abbiamo letti nelle traduzioni di Massimo Bocchiola, che dopo il romanzo Il treno dell’assedio (Il Saggiatore 2014) e le raccolte di poesie pubblicate per Marcos y Marcos e Guanda, ha scritto per Einaudi Stile Libero Mai più come ti ho visto, saggio sotto forma di scorribanda, o volendo di memoir, nel quale ripercorre passo passo le tappe del suo percorso di traduttore, raccontando il dietro le quinte di un mestiere bellissimo, difficilissimo e per certi versi impossibile - trattandosi ogni volta di inseguire per decine, centinaia, migliaia di pagine le parole altrui senza raggiungerle davvero mai -, eppure piacevole. 
Un mestiere sfibrante
«Tradurre testi letterari è molto bello», scrive Bocchiola. «Consente di impossessarsene a proprio uso, e nel contempo - se lo vogliamo, se ne siamo capaci - di farne dono ad altri». Già: in Italia com’è noto si traduce tantissimo, eppure è piuttosto raro che il lavoro del traduttore venga menzionato se non di sfuggita in una recensione; quanto al compenso, che di norma viene stabilito «a cartella», da noi si attesta sui dieci o dodici euro, mentre in Paesi come la Germania - dove i traduttori hanno un loro sindacato in grado di trattare con gli editori - arriva anche a trenta e oltre; per tacere del resto del lavoro editoriale, ovvero delle revisioni e delle eventuali correzioni che almeno in teoria dovrebbero competere alla redazione della casa editrice: non da oggi, ma oggi più che mai, queste mansioni sono spesso appaltate all’esterno per ragione di costi, e sempre per ragione di costi si dà addirittura il caso che una traduzione non venga né rivista né corretta, ma pubblicata in fretta e furia così com’è, di modo che a farne le spese sono naturalmente innanzitutto l’autore e il lettore, ma anche il traduttore, che vede mortificato in questo modo il lavoro di mesi. 
Un lavoro duro, a tratti perfino sfibrante, che richiede una grande concentrazione e che talvolta non conosce orari. «Tradurre è un po’ come spalare carbone», scrive non a caso Paul Auster, citato da Bocchiola e ripreso nella quarta di copertina. «Lo sollevi con il badile e lo rovesci nella fornace. Ogni pezzo è una parola, ogni palata è una nuova frase, e se hai la schiena abbastanza forte, e la resistenza che serve a continuare per otto o dieci ore al giorno, riuscirai a tenere acceso il fuoco». Tutto vero, posso confermare: da parte mia, malgrado i dieci anni trascorsi in libreria ad aprire scatoloni e fare rese, non ho mai faticato tanto come quando ho tradotto i Racconti dell’età del jazz di Francis Scott Fitzgerald.
Dare nuova vita
Ma Bocchiola non si limita a mostrare più che generosamente l’officina del traduttore, con tutta una serie di esempi pratici ed escursioni in territori quali il cinema, il calcio o la guerra, nonché ammissioni di richieste di consulenza a esperti delle varie discipline, tra cui suo padre, medico, per una scena di Stella del mare di Joseph O’Connor in cui viene diagnosticato un caso di sifilide, e un ex compagno di scuola diventato agronomo per venire a capo di una parola usata in una poesia da Blake Morrison. In questo saggio densissimo, assai divertente e sempre interessante, prova anche a ragionare sul legame tra la traduzione e il tempo, a partire dal fatto che la traduzione di un testo letterario contribuisce a dare nuova vita, oltre che alle parole, anche a quella che è a tutti gli effetti un’esperienza passata, trasformandola e perciò stesso dandole una seconda occasione, restituendone l’eco infinita. Per arrivare alla conclusione che tradurre, come scrivere, corrisponde in un certo senso a sconfiggere la morte attraverso la parola. 
I due Moby Dick
Può darsi che le cose stiano davvero così, se non altro quando le parole sono destinate a rimanere: vedi l’Infinito di Leopardi, che a un certo punto Bocchiola decide di ritradurre dalla traduzione in inglese di Tim Parks anche per il gusto di sfidare se stesso. Sta di fatto che almeno su una cosa non posso dirmi d’accordo con lui, quando scrive che «ogni scrittore può ricevere critiche, attacchi, insulti ben peggiori di chi traduce, e su un terreno oggettivamente più personale. Ma al traduttore è statutariamente negato il diritto primario di ogni artista, cioè quello di produrre un’opera che piaccia prima di tutto a lui stesso. Forse è proprio per questa ragione, come per nessun’altra, che non si può definire un artista». Beh: senza tirare in ballo qui il caso del Moby Dick tradotto da Pavese, che bene o male da generazioni fa sì che ci siano due Moby Dick, quello di Melville e quello appunto di Pavese, ci sono al contrario traduttori che meritano senza dubbio tale definizione. E credo di poter dire che l’autore di Mai più come ti ho visto - un testo che certo sarà adottato in ogni corso di traduzione che si rispetti e che comunque andrebbe letto da chiunque ami leggere - possa essere annoverato tra questi.

domenica 22 marzo 2015

In ostaggio dei misteri



Nella voce curata per lo Zingarelli, Vito Mancuso definisce il termine come «una condizione che riguarda la vita , e lì la vita deve tacere».
Ecco dove sbaglia la nostra cultura: ci compiacciamo dell’esistenza di questioni irrisolte, quasi ci rattristiamo quando la scienza trova le soluzioni
La tendenza a vedere sciarade dappertutto è il contrario di una cultura democratica
Perché sospinge l’uomo verso una condizione di soggezione verso una classe di «iniziati»

Edoardo Boncinelli

"Corriere della Sera - La Lettura", 22 marzo 2015

L’osservazione del mondo che ci circonda ci propone innumerevoli interrogativi, per diversi dei quali abbiamo già trovato una risposta, mentre per altri speriamo prima o poi di trovarla. Qualcuno però ama definire misteri alcuni di questi interrogativi, soprattutto i più palpitanti. Zanichelli ha proposto una nuova edizione del dizionario Zingarelli della lingua italiana, dove ha deciso di includere la definizione di alcune parole chiave dettata da personaggi di spicco del mondo attuale e denominata «definizione d’autore». Al teologo e scrittore Vito Mancuso è toccata la parola «mistero», ed ecco la sua definizione: «Mistero è diverso da enigma. L’enigma è un rompicapo che riguarda l’intelligenza; il mistero è una condizione che riguarda la vita. L’enigma è là fuori, il mistero è qui dentro. Di fronte a un enigma l’intelligenza si lancia a risolverlo; di fronte al mistero la vita sente che deve tacere: non a caso il termine greco mystérion, da cui il latino mysterium, viene dal verbo mýo, che significa “mi chiudo, sono chiuso”, detto di occhi e di labbra. La percezione del mistero si dà come inquietudine e al contempo come meraviglia. Per quanto mi riguarda, l’esperienza più intensa del mistero la provo di fronte al bene e alla gratuità che, in un mondo dove tutto è forza, calcolo e interesse, mi rimanda a una dimensione diversa».
Quindi il mistero alberga «qui dentro», che penso significhi in interiore homine, quella bellissima espressione che dobbiamo a sant’Agostino, ma di cui non ho mai capito bene il significato. A mio modo di vedere questa espressione non rimanda a niente, se non al corpo e alle sue connessioni nervose o, addirittura, al nostro Dna, come dire alla nostra biologia più primitiva. Per confronto vediamo quest’altra specificazione dovuta al più grande linguista vivente, Noam Chomsky: «Ciò che ignoriamo può essere suddiviso in problemi e misteri. Quando affrontiamo un problema, possiamo non conoscerne la soluzione, ma abbiamo qualche idea, una speranza di aumentare le conoscenze e qualche indicazione di che cosa stiamo cercando. Quando affrontiamo un mistero, invece, possiamo solo abbandonarci allo stupore e alla meraviglia. Non conoscendo per il momento neppure i contorni di una spiegazione».
Si può notare che le due definizioni sono molto simili, ma anche profondamente diverse. È il retroterra culturale che è diverso, e riflette la differenza fra la nostra visione del mondo e quella della cultura anglosassone. Noi italiani tendiamo a vivere due realtà, una alla nostra portata e l’altra no, mentre loro ne vivono una sola, anche se dannatamente complessa. Io posso capire che per chi ci crede, quello della Trinità sia un mistero — altrimenti, direbbe Dante, « mestier non era parturir Maria » — come pure la teodicea e più in generale l’esistenza del Male. Quello che non condivido è la smania di trasporre tutto questo nella conoscenza del mondo in cui viviamo e fare quasi il tifo per la persistenza del maggior numero possibile di misteri irrisolti.
Di misteri ne esistono e probabilmente ne esisteranno sempre. Quello che non capisco è perché qualcuno se ne compiaccia, e si rattristi per ogni nuovo mistero svelato, invece di compiacersene. D’altra parte, l’uomo primitivo viveva in un mondo di misteri. Il ruolo della civiltà è stato quello di trasformare questi misteri in problemi concreti, possibilmente articolati su domande specifiche alle quali si tenta di rispondere. Sembra quasi che qualcuno rimpianga quello stato, lo stato dell’essere primitivo, quello dei «bestioni insensati» di Vico. Nel nostro Paese in particolare, tutto è un mistero: la nascita (ed entro certi termini questo ci può stare), la morte (ma è mai non morto qualcuno o qualche animale?), la vita, l’amore, i sentimenti, l’inclinazione, il talento, l’ispirazione artistica, la creatività. In una trasmissione televisiva ho anche sentito dire che «la povertà è un mistero». Un mistero per chi, se c’è sempre stata, in ogni tempo e in ogni luogo, e oggi sembra addirittura aumentare invece di diminuire?
La tendenza a vedere misteri dappertutto è antitetica a una mentalità scientifica e razionale, e in fondo anche a una cultura democratica; è un rifugio nell’ignoranza e nell’ancora peggiore presunzione di sapere, come quella che ammorba le nostre convinzioni in materia di psicologia. Credere di conoscere bene la spiegazione di una situazione che invece non conosciamo impedisce di cercare quella vera e ci lascia «con il cerino in mano». Per dirla con il grande fisico Erwin Schrödinger: «In un’onesta impresa di ricerca della conoscenza a volte è necessario arrestarsi per un periodo indefinito a causa di una nostra ignoranza. Invece di tentare di colmare una lacuna conoscitiva con una costruzione speculativa, la vera scienza preferisce rinunciare momentaneamente a fornire una spiegazione; e questo non tanto per uno scrupolo di coscienza che impedisce di dire bugie, ma piuttosto partendo dalla considerazione che una risposta inventata sopprime l’esigenza della ricerca di una risposta accettabile».
L’uomo comunque si interroga e indaga, stimolato spesso anche da un genuino senso del mistero che non può non coglierlo. E indaga per quella «sete natural che mai non sazia» . Nella maggior parte dei casi quella sete conduce molto lontano. Dante ci propone l’esempio del matematico (il geometra) che mira alla quadratura del cerchio: «Qual è ’l geomètra che tutto s’affige/ per misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando, quel principio ond’elli indige,/ tal era io a quella vista nova:/ veder voleva come si convenne/ l’imago al cerchio e come vi s’indova». Ebbene, tutto questo conduce il poeta, simbolo in questo caso dell’intera umanità, a interrogarsi su questioni molto più astratte e a credere di intravederne la soluzione: «La forma universal di questo nodo/ credo ch’i’ vidi». È abbastanza evidente da questo esempio che porsi problemi chiari e concreti non preclude l’accesso alle domande più alte, come quella che si pone il sommo poeta sulla natura più intima del segreto figurativo del cielo e del mondo intero. Perché astenertene quindi e gioire degli insuccessi, magari momentanei?
Ma è chiaro che non si tratta di una questione «accademica», bensì di un atteggiamento programmatico. Immanuel Kant affermò a suo tempo che l’Illuminismo e la sua fiducia nella ragione e nell’uomo aveva rappresentato «l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità». Sostenere, al contrario, che il mondo è pieno di misteri tende a risospingere l’umanità a uno stadio di profonda ignoranza, ma soprattutto di soggezione, almeno verso una classe di «iniziati» a cui rimanda la radice del verbo greco mýo da cui derivano la parola «misteri» e la parola «mistica». Non c’è bisogno di risalire ai misteri eleusini per chiarire che si tratta in ogni caso di conoscenza preziosa, superiore e segreta perché degna di pochi intimi «che sanno veramente». Come dire che c’è chi può e chi non può, e chi non può si deve accontentare. Una conoscenza chiusa non è una conoscenza, è un sopruso, e un affronto alla nostra capacità di capire, magari lentamente e con un procedere ondivago. Tipica a questo proposito è l’esaltazione che da più parti si fa dell’insegnamento di Karl Popper, che per costoro avrebbe sostenuto che la scienza è necessariamente fallace, o di Kurt Gödel, che avrebbe «dimostrato» che esistono affermazioni vere che non possono essere né dimostrate né confutate.
Costoro, spero, non prevalebunt, come le porte dell’inferno. Personalmente, io direi: là dove c’è un mistero ci deve essere un interrogativo; poi si vedrà. In fondo, nati non fummo «a viver come bruti ».

sabato 21 marzo 2015

La peste, il mugnaio, i mercanti. E la storia creò la lingua italiana


Dal Cinquecento abbiamo un lessico comune. Che l’inglese non distruggerà

Paolo Di Stefano

"Corriere della Sera", 20 marzo 2015

La Storia della lingua italiana nasce, come disciplina universitaria, nel 1938, quando viene istituita a Firenze l’omonima cattedra, affidata a Bruno Migliorini. L’anno successivo Roma attiva un insegnamento per Alfredo Schiaffini: poi, fino agli anni Cinquanta, le sole nomine sarebbero state quelle di Gianfranco Folena a Padova nel 1956 e di Maurizio Vitale a Milano nel 1957. Eppure gli studi di storia della lingua in Italia hanno avuto, fino a oggi, esponenti di sommo rilievo, capaci di spaziare tra la dialettologia e la stilistica letteraria, tra la filologia e la critica tout court . Ora, con la Prima lezione di storia della lingua italiana (Laterza, pp. 176), Luca Serianni, erede a Roma del grande Schiaffini e autore di saggi e manuali tra i più importanti degli ultimi decenni, si propone di tracciare le grandi linee della disciplina a beneficio di un ampio pubblico, con ammirevole chiarezza argomentativa e per quanto possibile senza troppi tecnicismi (quelli indispensabili vengono spiegati in un utile indice conclusivo).
«Come è ovvio — dice Serianni — la storia della lingua, non avendo riferimenti scolastici, è poco nota, dunque può capitare che anche le persone colte la confondano con altre discipline, come la glottologia oppure la storia della letteratura, mentre il suo campo di interesse non riguarda soltanto i testi letterari». I vari passaggi di continuità e discontinuità, a cominciare dal rapporto genetico tra latino (nella varietà parlata del «latino volgare») e italiano, sono illustrati con una molto essenziale serie di esempi. Senza dimenticare la presenza, nell’italiano come nelle altre lingue romanze, di un lessico dotto direttamente attinto dal latino, che ha lasciato un ricco deposito lessicale non solo nella lingua ma anche nei dialetti.
C’è una storia interna e una storia esterna. La prima riguarda gli sviluppi, strutturali, della fonetica, della morfologia, della sintassi, dovuti al succedersi delle generazioni di parlanti e alle interferenze di altre lingue. Quelli esterni provengono da fattori fisici, storici, antropologici o culturali. Si sa che le catastrofi naturali, le migrazioni, gli eventi bellici determinano più di altri il cambiamento delle lingue. Un esempio? La peste del 1348, con il conseguente spopolamento di Firenze e il successivo inurbarsi di persone provenienti dal contado, ha finito per provocare sensibili innovazioni linguistiche. E basti pensare alle conseguenze del sacco di Roma del 1527 ad opera dei lanzichenecchi, che con l’ondata migratoria giunta dal Centro-Nord portò numerosi tratti settentrionali in un dialetto che fino ad allora registrava elementi tipicamente meridionali. E non si allude solo alle evidenze del lessico, ma anche alla fonetica.
«Si può sostenere — scrive Serianni — che la storia di una lingua altro non sia che una particolare declinazione della storia generale, alla stregua della storia dell’arte o delle istituzioni sociali». Un filo rosso che Serianni insegue con particolare attenzione e che non dovrebbe sfuggire agli storici tout court riguarda il rapporto tra cultura alta e «gente comune»: secondo studi ormai consolidati, l’acquisizione della lingua scritta è avvenuta, in passato, attraverso canali non istituzionali. Il caso del mugnaio friulano del Cinquecento Domenico Scandella, detto Menocchio, ricostruito da Carlo Ginzburg in un libro divenuto un piccolo classico della storiografia, è particolarmente significativo: nonostante la sua distanza geografica e culturale dagli ambienti intellettuali, Menocchio, processato dall’Inquisizione e poi condannato al rogo nel 1599, era arrivato a conoscere l’italiano da autodidatta attraverso la lettura di libri d’avventura e di testi religiosi ottenuti in prestito. Si deve ai lavori di Francesco Bruni e di Enrico Testa su documenti privati come gli epistolari l’idea di un «italiano pidocchiale» diffuso ben prima dell’unità nazionale, della scolarizzazione estesa e dell’azione determinante della televisione. Un «italiano nascosto» che conviveva con i dialetti.
«La tradizione — osserva Serianni — sottolinea l’inesistenza dell’italiano nei secoli passati: nella percezione comune l’identità italiana è poco più che un’invenzione romantica o risorgimentale, ma un filo linguistico comune, sovradialettale, si può cogliere a partire dal Cinquecento anche fuori dal recinto della letteratura alta». Gli illetterati dialettofoni potevano imparare l’italiano «per pratica», arrivando ad averne una competenza passiva grazie all’azione, certo «preterintenzionale», svolta con il catechismo dalla Chiesa cattolica dopo il Concilio di Trento. Insomma, l’idea che i dialetti abbiamo dominato incontrastati la comunicazione orale non sarebbe altro che «un solido pregiudizio», come ha scritto lo stesso Bruni.
È dimostrato, tra l’altro, che tra la lingua umile quotidiana e la codificazione letteraria è esistita un’area di mezzo rappresentata da un italiano scritto commerciale e diplomatico, utilizzato in ampie zone del Mediterraneo e dell’Europa orientale per almeno tre secoli, tra il XVI e il XVIII: l’italiano è stato, per esempio, la lingua super partes adottata nel testo ufficiale di un importante trattato bulgaro del 1774, quello di Kuüçüc Kaynarca, che pose fine a uno dei conflitti tra russi e turchi. Anche le cancellerie dei consolati francese e britannico a Tunisi, nel corso del Seicento, adottavano la nostra lingua. Una lingua veicolare simile all’inglese attuale? «Certo — risponde Serianni — ma in una proporzione più ridotta: l’inglese è oggi una lingua planetaria adottata sistematicamente in ambito scientifico, ma il meccanismo è simile». Fatto sta che oggi gli apocalittici parlano di decadenza dell’italiano. Solo luoghi comuni e errori di prospettiva, come fa notare ironicamente Giuseppe Antonelli in un recente libro? «Gli ultimi dati Istat dimostrano che l’uso dell’italiano rispetto al dialetto sta crescendo, mentre fino a qualche anno fa sembrava immobile. Gli aspetti di criticità si verificano semmai nella pratica scritta, soprattutto a scuola: i test mettono in evidenza la povertà del lessico e la scarsa capacità di comprensione di un testo complesso come un editoriale giornalistico. Questo è il dato più preoccupante, che ha anche ricadute sul piano civile, non certo la morte del congiuntivo, che tra l’altro non sta affatto morendo. Quel che sta morendo è la capacità di argomentare». Proprio all’argomentazione, Serianni ha dedicato un libro, uscito l’anno scorso da Laterza, che proponeva «prove ragionate di scrittura».
Se l’invasione dell’inglese è ormai un dato di fatto, Serianni non concorda con l’auspicio di Tullio De Mauro che l’inglese diventi la lingua veicolare della polis europea: «Se così fosse, l’inglese dovrebbe diventare la lingua della comunicazione politica, ma il discorso politico non trasmette solo informazioni tecniche, perché fa leva sui simboli, sulle emozioni, sui sentimenti. Pensare che la conoscenza dell’inglese sia così avanzata da cancellare le lingue nazionali sarebbe sbagliato. Sarebbe come decretare la perdita dell’identità plurilingue europea». Del resto, in Germania, per fare un esempio, la questione linguistica non si pone nemmeno: in ogni sede istituzionale il tedesco è inamovibile e un corrispondente di un giornale italiano che pensasse di stabilirsi a Berlino conoscendo solo l’inglese resterebbe rapidamente fuori gioco. Per non parlare della Francia, ancora saldamente ancorata alla propria identità linguistica a ogni livello.
Altra faccenda è la letteratura. Manzoni era convinto che l’italiano doveva scrollarsi di dosso la sua cultura letteraria e guardare piuttosto a quella parlata «viva e vera» capace di diventare lingua nazionale, e cioè il fiorentino. Graziadio Isaia Ascoli contestò il dirigismo manzoniano, rivendicando la portata della tradizione scritta e della cultura alta come motori del processo di costruzione di una lingua unitaria. Una vexata quaestio che rimane ancora attuale. Provando infine ad abbozzare una sorta di «certificato storico per l’italiano», sul modello dei documenti di residenza o di stato di famiglia rilasciati dai Comuni, Serianni si schiera con Ascoli: lo strumento che ha permesso di dare voce agli emarginati è la scrittura, quel modello super-regionale filtrato dalla Chiesa e diventato con la grande letteratura trecentesca e con la codificazione del Cinquecento «un esempio precoce di lingua sufficientemente stabile».

domenica 8 marzo 2015

François Villon è diventato un rapper


La Parigi stremata del ’400 e la rabbia del Bronx di oggi 
Il gesto sovversivo del «briccone» unisce mondi lontani

Sandro Modeo

"Corriere della Sera - La Lettura",  8 marzo 2015

François Villon come antefatto remoto dei rapper? Il legame, accennato en passant nella folta introduzione di Aurelio Principato a Il testamento e altre poesie (Einaudi) può suonare spericolato. In effetti, ci si domanda, c’è qualcosa che possa avvicinare paesaggi tra loro alieni come la Parigi di metà Quattrocento — la stessa di Notre-Dame di Hugo — e il South Bronx di metà anni Settanta, fucina dell’hip-hop? Qualcosa che vada oltre il semplice rispecchiarsi depressivo tra una capitale stremata dalla guerra dei Cent’anni, dalle epidemie e dal gelo — le case circondate da lupi che «si nutrono di vento» — e un ghetto nel ghetto, concentrato di degrado e di violenza? Ed è davvero possibile sentire risuonare nelle rime baciate di certi rapper quel «germe di deviazione e provocazione» contenuto in quelle alternate di un poeta molto più sofisticato di quanto vorrebbe la rilettura romantica, tesa a esaurirlo solo nella matrice «maledetta»?
Per provare a rispondere, bisogna risalire alla fonte del fiume-Villon e vederne le sterminate ramificazioni globali, estese a ogni campo: alla letteratura (Stevenson e Osamu Dazai ne fanno personaggio di racconto); alla scultura (la Bella Elmiera di Rodin); al teatro (le ballate nell’Opera da tre soldi di Brecht); al cinema hollywoodiano (che vede Villon interpretato da attori opposti come John Barrymore o Errol Flynn); alla musica «alta» (il libretto operistico di Ezra Pound) e a quella folk-rock (dalle influenze su Bob Dylan agli omaggi di Brassens e De André); fino ai recenti richiami in giochi di ruolo e serial tv, che collocano Villon — un po’ come succede a Dante — lungo le tante location falso-medievali.
Di tutte queste ramificazioni, la più interessante — non solo in ottica italiana — è forse quella di De André, in quanto anche la più efficace per seguire quel «germe di deviazione e provocazione». Autore di un’intensa prefazione all’edizione Feltrinelli delle Poesie (’66), De André fa di Villon la stella polare della propria visione, molto oltre la ripresa esplicita della Ballata degli impiccati in Tutti morimmo a stento, disco del ’68, lo stesso anno in cui porta in musica anche S’i fosse foco di Cecco Angiolieri, il «gemello» toscano di Villon. Certo, non si può negare che quel contesto storico-sociale faciliti e acuisca un’interpretazione anarco-ribellista come quella del Villon di De André; né che questo rientri in parte in quell’uso «ideologico» del Medioevo analizzato da Tommaso di Carpegna Falconieri nel recente Medioevo militante (Einaudi) e pronunciato tanto a sinistra (vedi Dario Fo) quanto a destra (le caricature leghiste), pur con evidenti asimmetrie di livello culturale. Ma è altrettanto indubbio che la componente anarco-ribellista sia carattere oggettivo e «in lunga durata» della poesia di Villon; così come il fatto che De André ne colga — con intuito «filologico» — anche il rigore della sottostante tessitura ritmico-metrica.
La chiave di quella componente consiste nell’incidenza di due figure-archetipi, sfumanti l’una nell’altra. La prima è il fowl (il fool shakespeariano, il francese sot), cioè il «buffone»: a questa figura, Villon non delega solo una denuncia-irrisione contro la borghesia ascendente (commercianti, usurai, evasori) che ricorda la furia dantesca contro «la nova gente e i subiti guadagni»; ne fa anche il campo di tensione tra piacere e angoscia, tra un vitalismo da Carmina Burana (taverne, dadi, puttane) e la permanente danza macabra che corrode corpi e oggetti: un memento mori che ha impressionanti coincidenze con quello delle Stanze di Jorge Manrique, contemporaneo spagnolo di Villon. Da questo campo di tensione se ne irradiano molti altri, come quello tra la vera fede (vedi la toccante Ballata alla Vergine Maria, dove il poeta si immedesima nella madre che prega) e una Chiesa così ottusa da rinsaldare le tentazioni di una latente miscredenza (se davanti ai nonsense della vita, «Nostro Signore se ne sta ben zitto/ Che a rispondere avrebbe la peggio»).
La seconda figura è il trickster (il «briccone»), archetipo mitico-religioso universale (dio come Loki, titano come Prometeo, animale come la volpe Renart) che si declina anche in «tipi» del folklore (da Pulcinella al Malandro brasiliano) accomunati da astuzia, inganno e strategie amorali, sempre nel segno dell’insubordinazione all’ordine costituito. Spesso, il trickster è anche un ladro, ma in accezione «redistributiva» (vedi Robin Hood): così come ladri sono Villon stesso o Geordie, il giovane bracconiere portato alla forca (nonostante l’intercessione dell’amata) in una ballata inglese del Cinquecento che De André volge in una struggente versione italiana modulata su quella di Joan Baez.
Non solo. Il trickster riesce anche a riportarci al rap. Una delle sue molte incarnazioni è infatti l’Anansi, il dio-ragno dell’Africa occidentale che accompagna gli schiavi in Giamaica; e il big bang dell’hip-hop nel South Bronx si realizza proprio partendo da ritmi e riti giamaicani. Se quindi tra Villon e certo rap (per esempio i Padri Fondatori Public Enemy) risaltano analogie esterne (i nomi propri nelle invettive, il gergo criptico, più di un’ombra di misoginia) il nucleo comune consiste nel gesto amorale e sovversivo del trickster : nella «grande povertà» — dice Villon — che «poco si impegola con l’onestà» e osa «parole sferzanti». In quest’ottica, il «germe di deviazione e provocazione» trova senz’altro una sua continuità.
Dopo di che, la suggestione deve essere filtrata da differenze e distinzioni. Sul piano formale, sia Villon che i rapper lottano con le forme chiuse dei loro codici: ma è incolmabile la distanza tra un contrappunto di ottave che converte anche l’osceno e il blasfemo in geometrie rarefatte da Messa di Josquin e le soluzioni segmentate-sincopate della ritmica hip-hop. Così come, sul piano delle implicazioni sociali, l’insofferenza individuale del «bon follastre» è lontana anni luce dalle rivendicazioni collettive (prima di razza, poi di classe) che innervano il ribellismo rap.
Anche se, resta inteso, leggere Villon non significa ripiegarsi sulla rivolta come semplice testimonianza. Se «il mondo è un’illusione», altrettanto lo è la possibilità di correggerlo («questo mondo, sappiamo, è una prigione/ per chi coltiva pazienza e virtù»); e un’illusione, alla fine, è anche la poesia, come quella di Villon, che pretende a ogni verso di contrastare quell’impossibilità. Ma il modo in cui la contrasta — anche solo con una rima o un’assonanza — ne fa una delle poche illusioni davvero necessarie, una di quelle illusioni di cui — scrive Proust — «vorremmo essere le vittime».

Non un rivoluzionario. Forse una maschera


François Villon è una leggenda. Il poeta eretico e vagabondo, il poeta delle taverne, dei bordelli, dell’umanità più bassa, calda, oscura, il poeta degli impiccati e condannato, lui pure, all’impiccagione; il primo dei poeti maledetti, il poeta assassino... Del resto, la più convenzionale delle arti, la poesia, ha sempre avuto fame di realtà e d’innesti irregolari, di annettersi il sangue caldo e non ancora addomesticato della vita. Nel caso di Villon tutto sembra aver favorito la creazione del mito, dalla fortissima caratterizzazione tematica e ambientale all’incertezza di molti riferimenti o allusioni a personaggi e fatti dell’epoca, dalla natura a volte criptica dell’argot (il gergo, nel Medioevo chiamato jargon) alla problematicità della tradizione testuale, con le relative attribuzioni, all’incertezza dei dati biografici e del nome stesso del poeta.
Nato verso il 1430 e laureatosi a Parigi, ha frequentato la corte di Charles d’Orléans. Fu condannato a morte nel 1463, ma la pena venne commutata in una messa al bando. Da quel momento di lui non si sa più nulla. Ammesso che si tratti di dati affidabili, è comunque tutto qui. Leggendo la nuova edizione dei componimenti più significativi di Villon, Il testamento e altre poesie , uscita da Einaudi a cura di Aurelio Principato (la traduzione, che mi sembra notevole, è di Antonio Garibaldi), si viene posti una volta di più di fronte all’immagine del poeta che credo molti portino con sé fin dalle prime letture scolastiche: un’immagine che sembra inscalfibile e che coincide perfettamente con quella che la tradizione poetica ha definito via via attraverso i suoi tanti, spesso autorevoli lettori. Di conseguenza la frase con cui ho aperto queste considerazioni ritorna subito a porsi come un problema. Quella di Villon, poeta in ogni senso eslege, fuori dalla legge, è davvero una leggenda?
Giustamente, allora, il curatore ha sottolineato come in questa poesia sia ancora attivo il tipico procedimento allegorico medioevale «che impedisce di prendere i riferimenti troppo alla lettera», o anche, d’altro canto, come la stessa, inusuale ricchezza degli autoriferimenti faccia nascere il sospetto che si tratti di un Io non autobiografico ma stilizzato, convenzionale, come una specie di maschera poetica. Villon, insomma, sembrerebbe un caso rarissimo, forse unico, in cui filologia e poesia, senso dei fatti e immaginazione, si sconfessano a vicenda.
Eppure, come sempre accade, è vero il contrario. Proprio perché è un poeta, e quale poeta, Villon non fa eccezione alle nozze, sempre feconde, tra poesia e filologia. L’estrema padronanza dei mezzi espressivi, la capacità di governare registri, linguaggi, convenzioni formali e figurative, la piena consapevolezza dell’artificio poetico, l’intelligenza della doppiezza e del gioco che la messa in forma della vita inevitabilmente comporta, costituiscono infatti per Villon un formidabile strumento di comprensione e di rappresentazione della figura umana e del suo destino.
Erich Auerbach definì addirittura Villon come «il primo poeta unicamente tale» (Pasolini rettificherà poi questo giudizio sostenendo che in realtà il primo poeta-poeta, manco a dirlo, è stato Dante). Siamo dunque agli antipodi rispetto a una dimensione d’immediatezza espressiva. Se nei versi di Villon prende vita una sorta di grande commedia umana tardo-medioevale — una commedia che comprende il sarcasmo, la rabbia, l’irrisione, l’esuberanza dei sensi, il dolore, il grottesco, la caricatura, la gioia, la pietà, la malinconia, il compianto —, questo accade perché non vi si trova nulla di diretto, di non filtrato dall’intelligenza e dal cuore, e dal mestiere di poeta.
Quanta complicità, quanto distacco, quanta passione e quanta saggezza si trovano anche solo, ad esempio, nella prima quartina di questa Canzonetta? «Appena uscito di dura prigione/ dove quasi ho lasciato la mia vita,/ se Fortuna si vuole mia nemica,/ ditemi voi se lei non ha ragione». A me pare insomma che se la leggenda di Villon ha ben motivo di esistere, questo non sia affatto per la sua presunta esistenza di fuorilegge o di ribelle alle convenzioni del tempo; quanto invece proprio per la sua eccellenza nell’arte poetica e, di conseguenza, in quella particolare, obliqua relazione tra convenzione e innovazione, tra regolarità e irregolarità che questa comporta. Non a caso proprio Auerbach ha visto a ragione come nel «realismo creaturale» di Villon non vi sia alcuna traccia «di forza rivoluzionaria, anzi nessuna volontà di foggiare il mondo terreno diverso da qual è». Ma è vero altresì che proprio la sua capacità di aderire, penetrare e, detto nel senso più pieno, di sentire la materia sensibile del mondo e della vita, esce e anzi rovescia tutto ciò che poteva apparire prescritto: «Qui ci vedete in cinque o sei appesi:/ la nostra carne anche troppo nutrita/ da un pezzo è divorata e imputridita,/ e cenere noi, le ossa, siamo e polvere».