martedì 22 settembre 2015

Il grande equivoco dell’amore platonico


Il filosofo non teorizzava un sentimento privo di impulsi passionali, ma un desiderio di bellezza che dà un senso alle nostre vite per opporci al potere distruttivo della morte. Ateniesi (e pubblicitari) hanno visto bene

Mauro Bonazzi, "La Lettura - Corriere della Sera", 20.9.15

Amor platonico: è una nozione di cui tutti hanno un’idea, vaga ma sufficiente per capire che si tratta di qualcosa di inverosimile, e dunque di poco interessante. In effetti, è vero che nel Rinascimento ha stimolato capolavori dell’arte come Amor sacro e Amor profano di Tiziano, e c’è sempre qualche anima romantica pronta a sospirare. Ma l’amore è un’altra cosa, lontana dalle idealizzazioni di un «sentimento astratto e scevro da ogni sensualità» (così lo definisce un dizionario) e dai comportamenti sconcertanti di Socrate. Si era messo a girare intorno ad Alcibiade, il giovane più desiderato di Atene. Miracolosamente, Alcibiade aveva iniziato a ricambiare l’interesse per questo bizzarro corteggiatore, brutto come pochi: lo invitava in palestra per allenarsi insieme, aveva organizzato una cena intima, lo aveva convinto a rimanere a dormire con la scusa che si era fatto tardi, si era infilato nel suo letto. «Se dico menzogne, Socrate, interrompimi!»: Socrate aveva dormito come un sasso. La grande poetessa Saffo, che la passione la conosceva bene, aveva un’altra idea dell’amore: «Venisti, bene facesti! Io ti bramavo, un refrigerio desti al mio animo ardente di desiderio». Questa è una descrizione più realistica della potenza di eros.
Ma Platone, un lettore appassionato di Saffo, non era così ingenuo e sapeva che tutto è più contorto, molto più contorto. Nel Fedro si accenna a un piccolo altare in onore di Borea, una figura leggendaria che si diceva avesse «rapito» la giovane ninfa Orizia. Gli ateniesi ridevano di queste storielle, retaggio di un passato superstizioso. Per Socrate quel posto era invece motivo di inquietudine: «rapimento» era un eufemismo, perché la realtà era quella di uno stupro e di un assassinio. Eros è anche questo, e sarebbe incauto chi pensasse di essere al riparo da queste forze negative. Cosa si annida dentro di noi? Seguire il desiderio complesso dell’amore porta in tante direzioni, non tutte piacevoli. Ma bisogna farlo, perché forse può aiutarci a capire chi siamo. «Conosci te stesso», aveva intimato a Socrate l’Oracolo di Delfi: vuol dire anche confrontarsi con queste forze oscure. Noi siamo complicati.
Al giorno d’oggi, i conoscitori più fini dell’anima umana sono i pubblicitari. Hanno capito che a comandare dentro di noi sono desideri e passioni e che dunque a questi bisogna rivolgersi. Cinici e disincantati, gli ateniesi li avrebbero ascoltati con uno sguardo di ironica sufficienza. Dentro di noi alberga un conflitto permanente tra ragione e desiderio. Noi siamo il conflitto tra ragione e passione, e questo conflitto ha sempre un vincitore: crediamo di agire razionalmente, ma andiamo dietro ai nostri desideri, come asini dietro a una carota (l’immagine è di Socrate, sempre nel Fedro ). Insegnavano altro le tragedie di Euripide o i poemi di Omero, le vicende di Medea, di Achille, di Agamennone? Non c’era bisogno di aspettare i pubblicitari, lo aveva già spiegato Eraclito: «Difficile è la lotta contro il desiderio: quello che vuole lo compra a prezzo dell’anima». La filosofia di Platone è un tentativo — ostinato, caparbio, spiazzante — di mostrare che non è così, che niente è più sbagliato. Noi siamo altro.
Socrate, quello storico, aveva provato a contrastare queste idee, ma non era arrivato al cuore del problema. Aveva cercato di mostrare che i desideri non esistono, che sono solo il risultato di giudizi sbagliati. Crediamo che una certa cosa, ad esempio un vestito, sia bella e che ci renderebbe belli possederla: così nasce il desiderio di possederla. Se pensassimo che non è così bella e che comunque non ci renderà più belli, non la desidereremmo più. In parte è vero, certo. Ma è riduttivo, e un poeta, nel Simposio platonico, spiega perché, con una storia comica che svela una verità tragica. Gli uomini, un tempo, erano sferici, uniti e felici, ma la felicità genera arroganza e gli dèi li punirono, dividendoli in due. Sembra un racconto fantastico e invece è una spiegazione del perché siamo sempre in cerca: perché ci manca qualcosa di fondamentale, questa è la nostra condizione. L’uomo è mancanza («… Piove perché se non sei/ è solo la mancanza/ e può affogare», avrebbe scritto Eugenio Montale); e dunque desiderio, visto che il desiderio è sempre rivolto a qualcosa che non si ha (nessuno desidera ciò che ha). È un’inquietudine di cui tutti gli esseri umani hanno fatto esperienza, anche se pochi hanno trovato le parole per descriverla. Per parlarne i greci hanno inventato eros.
I pubblicitari e gli ateniesi, insomma, avevano visto bene: il desiderio è essenziale. Ma cos’è che desideriamo? Cosa ci manca? Questo non lo hanno capito. Qui è la sfida di Platone, anche se la sua risposta appare a prima vista deludente. Il vero desiderio non si rivolge a individui o oggetti precisi: cerca altro, qualcosa di sfuggente e di impalpabile; i corpi c’entrano fino a un certo punto. Non è così? E allora perché i desideri fisici — i piaceri, le ricchezze, il sesso — non soddisfano mai, ma possono solo innescare una spirale che ci spinge a volerne sempre di più nell’illusione di poter trovare una soddisfazione che non arriverà mai? Anche Aristofane, il poeta del Simposio, lo aveva dovuto riconoscere. Per alleviare le nostre sofferenze, così continuava la sua storia, Zeus aveva spostato gli organi genitali in modo che ci potessimo ricongiungere alle altre metà, uomini e donne come noi disperatamente in cerca delle loro parti mancanti. Eros è la forza salvifica che ci permette di riconquistare l’unità perduta. Non è a questa unione che mira il nostro desiderio d’amore? Ma perché allora questa insoddisfazione che permane anche dopo l’unione dei corpi? Perché quello che cerchiamo va al di là dei corpi: lo ha dovuto ammettere Aristofane e lo ha ripetuto Sigmund Freud, quando ha detto che in un atto sessuale sono sempre implicate (almeno) quattro persone, quelle in carne ed ossa, ma anche le proiezioni idealizzanti o i fantasmi che accompagnano ciascuno di noi. Che poi era quello che diceva Platone: cerchiamo altro. Solo che per Platone noi non cerchiamo ossessioni o fantasmi, come spiega Diotima, la sacerdotessa che aveva iniziato Socrate ai misteri d’amore.
Non sono questioni semplici, e Socrate fatica a starle dietro. Eros è un impulso che ci spinge a cercare le cose belle, ma ogni volta che cerchiamo di possederle ci sfuggono via, come acqua tra le dita. È per questo che stare abbracciati una vita intera, come propone Aristofane, non porta lontano. Il fatto è che non cerchiamo il possesso, ma l’azione e la procreazione: quello che vogliamo è «partorire nel bello». «Ti stupisci, Socrate?» Ma è così: la bellezza non è un oggetto da possedere, è uno stimolo a creare; quello che possiamo fare è agire nella bellezza. E agire nella bellezza vuol dire dare realtà a ciò che è bello, procreare. È qualcosa di molto naturale: generare figli non è forse un’azione che risulta dall’unione nel bello? Ed è un modo per lasciare traccia di noi stessi in un mondo che perennemente si trasforma e si distrugge.
Eros e il desiderio sono sempre legati alla morte. Sono la forza che opponiamo al potere distruttore della morte, esprimono la nostra volontà di mostrare che non siamo stati semplici foglie che si sono staccate da un ramo: «La natura mortale cerca per quanto può di essere immortale». Il desiderio più intenso è quello che spinge a combattere contro lo scandalo della morte per dimostrare che la nostra vita ha avuto un significato e un valore, ed è qualcosa che va al di là della semplice unione di corpi: lasciamo traccia di noi con i figli, ma anche con le nostre azioni e i nostri pensieri.
Riduciamo il desiderio a un fatto fisico perché non abbiamo capito che il vero desiderio, il più intenso, è quello che ci spinge ad agire per dare un senso a ciò che siamo e a ciò che facciamo. Anche questo è eros, è eros nella sua dimensione più pura, è la nostra risposta al tempo che tutto divora (come diceva Ovidio, un altro che di amori se ne intendeva). Grazie all’amore capiamo così chi siamo, che era la domanda che si poneva Socrate davanti all’altare di Borea: desiderio di bellezza e di senso. Ed è solo comprendendo chi siamo che potremo trovare quello che cerchiamo. La filosofia insegna a guardare, non a fuggire: imparare a vedere la bellezza e farla crescere.
Spesso si paragona la teoria di Platone a quella di Freud. Le affinità ci sono, ma la differenza è decisiva. Entrambi riconoscono la potenza del desiderio, ma Freud riteneva che la componente motivazionale più forte fosse quel desiderio oscuro di cui avevano già parlato i greci contemporanei di Platone: «un calderone di impulsi ribollenti», diceva il medico austriaco, una forza caotica che la ragione fatica ad arginare. Ai lettori contemporanei che si sono formati alla sua scuola la sfida di Platone sembrerà destinata allo scacco — risvegliare in noi il ricordo di un’altra possibilità, di un’altra idea di uomo e desiderio, una spinta vitale non una pulsione inquietante. E se avesse ragione Platone? La sua sfida è tutta qui.
Una delle immagini platoniche più famose è quella che paragona l’anima umana a un carro, guidato da un auriga e trascinato da due cavalli alati; tutti sanno che l’auriga rappresenta la ragione e i cavalli le passioni del corpo. Ma pochi hanno notato che anche l’auriga ha le ali, perché anche lui desidera, e tanto, così tanto da superare il desiderio ferino del cavallo nero.
Tutto è possibile. Possiamo precipitarci in un mondo bestiale; spesso purtroppo lo facciamo. Ma la vera vita è altrove. L’amor platonico non è una rinuncia, ma la rivelazione che eros è qualcosa di molto più grande. «L’anima era tutta alata», sintetizza Socrate nel Fedro. «Platone ti mette le ali»: potrebbe ripetere oggi un pubblicitario.

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