martedì 8 settembre 2015

Che tempi



Scorre come un fiume

"Il Sole 24 ore - Domenica", 6 settembre 2015


Mauro Dorato

Il tempo ha un ruolo centrale sia nella descrizione del mondo esterno sia nella nostra esperienza cosciente. Tuttavia, il tempo fisico e quello mentale hanno caratteristiche molto diverse, in particolare per ciò che riguarda il presente, la sua estensione temporale e il suo presunto scorrere. Per il senso comune esiste solo ciò che accade ora e nella nostra vita il presente ha un’importanza essenziale. Ma nella fisica il presente semplicemente non esiste e ciò non solo a causa del fatto che le leggi valgono sempre ma anche perché, grazie alla relatività di Einstein, abbiamo compreso che ogni divisione dell’universo in un passato, presente e futuro cosmici ha un carattere puramente convenzionale. Il presente fisico si riduce letteralmente a un punto, ed è solo relativamente ad esso che tale divisione ha un significato oggettivo. Ne consegue che, in un certo senso, eventi passati e futuri esistono al pari di quelli presenti.
Il conflitto tra tempo fisico e mentale non si ferma qui. Puntiforme o esteso ai confini dell’universo che sia, il presente fisico è privo di durata. Pur nelle loro profonde differenze filosofiche, sia per Newton che per Leibniz il presente – essendo rispettivamente l’insieme di momenti o di eventi tra loro coesistenti – è istantaneo e quindi temporalmente inesteso. Recenti esperimenti mostrano invece che la coscienza del momento presente, come già intuito da William James e da Husserl tra altri, è un processo temporale esteso nel tempo per qualche secondo. Poiché il presente dell’esperienza non si riduce a un flash istantaneo sul mondo interno ed esterno, l’”attimo” della percezione cosciente è temporalmente esteso perché i processi di integrazione cerebrali richiedono tempo. Se la coscienza del momento presente non avesse un’estensione temporale e non fosse quindi accompagnata da una ritenzione di ciò che è appena stato e un’anticipazione di ciò che sta per avvenire, non saremmo in grado di comprendere né un enunciato né una melodia. Percepiremmo parole e note staccate l’una dall’altra e non avremmo nemmeno la consapevolezza di una successione temporale, ma, come era già chiaro in Kant, solo una successione consapevolezze irrelate. Nel presente percepito, passato e futuro immediati sono invece fusi insieme in modo continuo, dato che il carattere anticipatorio della percezione dell’ora è essenziale per intervenire in modo efficace nella catena causale del mondo: si pensi a quando evitiamo un oggetto lanciato contro di noi anticipandone la traiettoria. Allorché la soglia di qualche secondo è ulteriormente estesa nel tempo, la fusione del passato ricordato nel futuro anticipato genera la sensazione di un Io che nel tempo cambia pur mantenendo la sua identità: come ebbe a scrivere Borges: «Il tempo è la sostanza di cui sono fatto.. è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume…». L’immagine del fiume che scorre esprime efficacemente la credenza del senso comune che il tempo passa; ma la fisica contemporanea non riesce a dar conto del fatto che lo scorso Natale diventa sempre più passato mentre quello prossimo si avvicina sempre più. E pur il tempo scorre!
Ne segue che uno dei compiti più importanti della filosofia della scienza è cercare di comprendere il rapporto tra queste due immagini del tempo utilizzando tutto ciò che è a sua disposizione tra cui, ovviamente, le neuroscienze. Magari per scoprire che la descrizione fisica del tempo è, come ebbe a dire Einstein a Carnap, irrimediabilmente incompleta.




Paradossi del tempo
Il punto fuori dalla retta

Remo Bodei

Testo tratto dalla Lezione magistrale che si terrà a Modena, in Piazza Grande, venerdì 18 settembre 2015

Proviamo a uscire dal senso comune basato sui principi di Aristotele e Newton secondo cui c’è un presente che scorre tra passato e futuro
L’immagine del tempo prevalente nel nostro senso comune (che dipende dalla Fisica di Aristotele, ma è confermata anche dai Principia di Newton, per cui questo l’unico tempo verum et mathematicum) è costituita da una retta infinita sulla quale scorre, a velocità costante, un punto indivisibile e inesteso, il presente, che avanza separando in maniera irreversibile il passato, che gli resta alle spalle, dal futuro, verso cui inesorabilmente si dirige. Si tratta, senza dubbio, di un’idea esemplarmente semplice ed efficace, che appare evidente, di cui ci serviamo continuamente con successo e da cui è difficile staccarci. Ma è anche vera o l’unica vera?
Appena affrontiamo il problema, vediamo sorgere diversi paradossi (da intendersi non come assurdità, bensì come affermazioni che vanno contro l’opinione, la doxa, dominante), forniti di differenti gradi di plausibilità. “Aprendo” il concetto di tempo nelle sue strutture elementari, come un bambino smonta un giocattolo, vedremo, appunto, scaturire da ogni sua componente (la linea, il punto, lo scorrere, la velocità, la divisibilità in parti uguali, l’unicità, la direzione) paradossi o apparenti mostri concettuali. Abbandoniamoci al dubbio su quello che ci sembra evidente e proviamo – seguendo in questo campo la massima di Sun Tzu secondo cui l’imprevedibile vince e l’ovvio perde – a logorare e a sabotare l’idea di validità assoluta attribuita alla nostra familiare immagine del tempo. Per coglierne alcuni sorprendenti aspetti, prepariamoci dunque, serenamente e senza pregiudizi, a un moderato brainstorming, a uno spiazzante, ma affascinante esercizio mentale.
Prima, però, riflettiamo brevemente su come complessi concetti filosofici o scientifici vengono lentamente ereditati, filtrati e semplificati, sedimentandosi poi sul senso comune e aderendovi a tal punto che, per uscirne, occorre far violenza sulla nostra abituale maniera di pensare. L’idea tradizionale di tempo non prevede che, nel suo scorrere, qualcosa permanga. Le grandi filosofie o le grandi opere d’arte sono, tuttavia, insituabili nell’ordine di successione, del prima e del poi, di un tempo che cancella le sue tracce. Pur apparendo nel tempo, la verità filosofica o il valore artistico di un’opera non sono, dunque, strettamente filiae temporis, ma neppure eterni in senso edificante o rigidamente immodificabili. Ogni grande filosofo o poeta aiuta a capire il suo tempo, ma già questo tempo gli sta stretto. Se realmente grande, egli è, infatti, contemporaneo di tutte le epoche precedenti e successive. Così, malgrado il trascorrere dei secoli, Platone o Spinoza sono più contemporanei dei nostri contemporanei, continuano e continueranno a parlarci. Analogamente, Sofocle o Shakespeare continueranno a mostrarci gli abissi dell’animo umano e delle sue vicende. Questo succede non perché la filosofia o il dramma abbia la virtù di non invecchiare, ma perché i classici rifioriscono a ogni stagione, perché ci permettono di abbandonare il vicolo cieco di una verità che non ha storia e di una storia che non ha verità, perché eludono il dilemma dell’essere inattuali o attuali, dentro o fuori del proprio tempo. Il senso comune congela invece in maniera metastorica la soppressione dell’alternativa tra una verità senza storia e una storia senza verità e trasforma lo scorrere del tempo in una verità ab-soluta, ossia avulsa da qualsiasi nucleo di relativa di permanenza e dalle metamorfosi della memoria.
[…] Riflettendo sul tempo psichico, Freud ha individuato il nesso tra il tempo che passa e quello che non passa suggerendo – in poche righe di Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, del 1915 – un’ardita soluzione. Per comprenderla, bisogna confrontare la sua ipotesi con quella di Leibniz, in cui il tempo costituisce l’ordine della successione, mentre lo spazio quello della coesistenza (diversamente da Newton, non esistono per lui spazio e tempo absoluti, sciolti cioè dalla presenza degli enti del mondo). Lo spazio «è l’ordine che rende i corpi situabili, e mediante i quali essi, esistendo insieme, hanno una posizione relativa fra loro; allo stesso modo anche il tempo è un ordine analogo, in rapporto alla loro posizione successiva». In Freud il tempo assume, invece, la doppia natura del tempo e dello spazio leibniziani, in quanto «la successione comporta anche una coesistenza». Il passato rimosso, immobile e incistato in un ricordo troppo traumatico per essere portato alla coscienza, coesiste così con il presente che continua a scorrere. Viviamo a due velocità, secondo un tempo che fluisce liberamente e un altro vischioso, che non si muove o si muove in ritardo.
[…] Può in alcuni casi il presente apparire come precisamente identico al passato, come una sua copia perfetta? Possono l’ora e l’allora, il qui e l’altrove coincidere esattamente? Questo accade spesso, di fatto, nel fenomeno, apparentemente bizzarro, del déjà vu. Capita a tutti di avere la netta e irrefutabile impressione di aver già visto, in un insituabile passato, lo stesso paesaggio che hanno davanti o di aver conosciuto una determinata persona che hanno appena incontrato, pur essendo, simultaneamente, certi di non essere mai stati in quel posto e di non aver mai conosciuto quella persona. Vi è quindi un paradossale conflitto tra la percezione ed il ricordo, un appiattimento del passato nel presente o un corto circuito tra presente e passato che mette in scena uno scontro tra certezza e verità, tra convinzione e confutazione della realtà. L’irreversibilità del tempo viene affermata e negata, mentre il passato si ripresenta nelle mentite spoglie del presente o, che è lo stesso, il presente assume la forma del passato.
[…] Ho accumulato diversi paradossi per mostrare come una nozione apparentemente così semplice e intuitiva qual è il tempo contenga elementi eterogenei e formi, al massimo, un concetto a grappolo. Non si deve tuttavia trarre la conclusione che essa sia falsa. Fornisce, al contrario, uno schema semplice e utile, che corrisponde perfettamente alle esigenze della vita quotidiana e a quelle della maggior parte delle pratiche e dei sistemi di misurazione. L’errore del senso comune consiste nel considerare l’immagine comune del tempo espressione del tempo per antonomasia e non piuttosto una delle sue molteplici forme entro cui l’esperienza e le conoscenze umane possono essere pensate adattandole ai differenti fenomeni.


Il Tempo: la lezione di Agostino
Uscire da sé e in sé rientrare

Remo Bodei

Il libro undicesimo delle «Confessioni» parla di un tempo ancorato al soggetto che porta in sé il passato, e si tende verso il futuro, conoscibile attraverso lo stesso passato
Un movimento di andata e ritorno, dispersione e raccoglimento. Come il respiro, come la risacca del mare. Come l’allontanamento dal primo principio, nel pensiero neoplatonico. Come la fuga dal sé interiore, negli scritti di Agostino di Ippona. La critica, soprattutto nella prima metà dello scorso secolo, ha vanamente dato battaglia sul rapporto tra le opere di Agostino e le dottrine neoplatoniche di Plotino e del suo biografo e allievo Porfirio di Tiro. Così, come spesso capita a chi si concentra sul particolare con accanimento degno di cause migliori, così si sono investiti anni di lavoro di studiosi eccellenti per dire: ha letto Plotino, le tali pagine della tale Enneade. No, identifica Dio con l’essere pieno, ha letto solo Porfirio, che ritiene l’intera triade di Intelletto, Essere, Vita, presente in ciascuno dei tre principi, con un gioco di triadi utile anche per addentrarsi nel mistero della Trinità. O forse ha letto entrambi, o forse nessuno. L’ultima, se ben intesa, è forse la più plausibile, tra le ipotesi: nella Milano di Ambrogio, infatti, si riunivano circoli di intellettuali neoplatonici, che spesso leggevano e si scambiavano traduzioni latine di passi scelti di Plotino, Porfirio, forse il Timeo di Platone nella traduzione di Marco Tullio Cicerone. La filologia, non ancora assurta al ruolo di disciplina, non aveva le pretese che saranno poi di Lorenzo Valla e in fondo sono nostre, si lavorava su centoni e testi non di prima mano.
Bene, esaurita la questione tecnica, torniamo al contenuto, a quell’uscire da sé e in sé rientrare così importante per Agostino da arrivare a leggerlo nella pericope evangelica del figliol prodigo. Quel giovane disperdendo i beni suoi e di famiglia, giunse in una terra arida, dove a stento sopravviveva rubando carrube ai maiali che doveva accudire per avere un tetto sulla testa. Il giovane «ritornò in sé», si legge nella pagina del Vangelo di Luca, quando decise di tornare a casa e di chiedere perdono al padre. Eis eauton, verso se stesso, smise di disperdere fuori di sé e la via verso sé divenne la via verso la casa del padre. «Io ti cercavo fuori, mentre tu eri dentro di me»: è un noto passo delle Confessioni, del quale si sbaglierebbe a cogliere solo l’aspetto devozionale, perché Agostino si riferisce sì agli errori della vita passata, ma ricorda la via intellettuale al primo principio, quel ritorno tutto neoplatonico. Solo tenendo ben fermo questo orizzonte filosofico ci si può avvicinare alla comprensione di alcune pagine agostiniane tanto studiate e tanto riproposte. L’idea di tempo, per esempio, che non può essere gettata nel mucchio delle diverse proposte per una definizione del tempo, da Platone a Newton alla relatività. Il libro undicesimo delle Confessioni presenta la soluzione di un tempo ancorato al soggetto che porta in sé il passato, compreso l’essere appena passato di ogni istante presente, e si tende verso il futuro, conoscibile attraverso lo stesso passato. Come potrei vivere l’attesa di un bagno al mare se non ne avessi già contezza, per esperienza mia diretta o riportata (da un racconto, un’immagine, una suggestione o una loro mescolanza)? La mia interiorità così si tende dal passato al futuro, grazie al bagaglio della memoria, contenitore dall’infinita capacità perché luogo della dimora di Dio, del primo principio, vita e logos insieme. Porfirio? Plotino?
Guardiamo avanti, piuttosto. Al ruolo di queste pagine nel Novecento, quando – dopo lo scontro con il feroce giudizio di Nietzsche - hanno reso possibili le letture fenomenologiche del tempo come esperienza del tempo. Come le troviamo in Husserl e Heidegger, riproposte e rilette da Friedrich-Wilhelm von Herrmann in un libro appena tradotto in italiano. Certo, di questi tempi il nome dell’allievo e assistente di Martin Heidegger ci ricorda più la polemica sorta dalla pubblicazione dei Quaderni neri che le digressioni sulla domanda fenomenologica sul tempo. Per quanto anche nella polemica von Herrmann si appoggia a una lettura dell’esperienza temporale che relativizzerebbe le prese di posizione naziste prima, antisemite poi, del suo maestro. Ma non è questa la battaglia di cui ci stiamo occupando – per quanto importante da diversi punti di vista. Torniamo quindi alle Confessioni e a un altro lettore di eccezione, il filosofo francese Jean-Luc Marion, anche lui da poco tradotto in italiano con un Sant’Agostino, in luogo di sé, che riporta ancora a un approccio fenomenologico. Marion si è a lungo interrogato sulla metafisica quale è studiata da Descartes in cerca dei suoi limiti. Un ritorno alle Confessioni, alla lettura non metafisica di questa “opera aporetica” si rivela terreno di prova per la validità ermeneutica dei concetti di «donazione, di fenomeno saturo e di adonato» (brutto termine per tradurre adonné, colui che si dona ed è dono). Le letture che la storia ha riservato alle Confessioni hanno scelto alcuni passi e ne hanno censurati altri, di volta in volta in cerca di conferme alle proprie ipotesi ideologiche, come è quasi inevitabile che si dia in ogni interpretazione di un testo. La sfida di Marion, e di molti lettori agostiniani, è quella di «avvicinarsi al luogo in cui pensa sant’Agostino, per ritrovarvi ciò che egli cerca di pensare», avvicinarsi quindi al luogo del sé, lontanissimo da quello che l’io crede di essere.
Personalmente non credo che sia possibile un sovrapporsi del lettore all’autore, ritengo che davvero, nei limiti della nostra comprensione, ogni lettura, anche ogni rilettura da parte del lettore o dell’autore stesso, ogni volta sia qualcosa di nuovo. Non perché ogni testo abbia infiniti e contraddittori sensi, ma perché questi sono comunque una moltitudine, in cui giocano troppi fattori personali e spaziotemporali per credere davvero di poter entrare una volta per tutte nella mente di un autore. Le Confessioni, poi, già oggetto di pareri in ogni secolo che da queste ci separa: non è una autobiografia, è la prima autobiografia, è un romanzo, un collage di testi sacri, pura ermeneutica, un canovaccio di opera teatrale, uno sfogo dell’inconscio, un trattato mistico, un piagnisteo, una difesa della scienza empirica, un trattato di fisica, e si potrebbe continuare. In verità è alle Confessioni che si potrebbe attribuire il gioco di parole che nel libro undicesimo introduce all’esperienza del tempo: se nessuno me lo chiede so cos’è, ma se mi si chiede che cos’è, non lo so più.

Friederich-Wilhelm von Herrmann, Agostino e la domanda fenomenologica sul tempo , trad. it. Donatella Colantuono, a cura di Costantino Esposito, edizioni di pagina, Bari, pagg. 164

Jean-Luc Marion, Sant’Agostino. In luogo di sé, trad. it. Massimo Loris Zannini, Jaca Book, Milano, pagg. 418

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