domenica 3 maggio 2015

Che baruffe tra scienziati

Da sinistra a destra: Robert Boyle, Isaac Newton, Christopher Wren e Robert Hooke

Newton contro Hooke, l’aspra rivalità che accelerò il progresso del sapere

Andrea Frova e Mariapiera Marenzana, in un saggio pubblicato da Carocci, ricostruiscono le vicende della Royal Society inglese nel corso del Seicento

Un’autentica rivoluzione avanzò fra gelosie, ripicche ed esperimenti crudeli


Paolo Mieli

"Corriere della Sera", 27 aprile 2015

Un’epidemia di peste (1665), un incendio che devastò Londra (1666) e una serie pressoché infinita di imprevedibili dissapori, di assai meschine calunnie, di rivalità tra geni condotte all’esasperazione, furono il contesto in cui nacque la modernità scientifica. Bubboni e fiamme, assieme ai benefici effetti della rivoluzione cromwelliana, conclusasi all’inizio degli anni Sessanta del Seicento, diedero una formidabile spinta alla ricostruzione del Paese. Il clima di selvaggia competizione all’interno della Royal Society fece il resto.
La Royal Society fu fondata nel 1660 e l’anno successivo fu riconosciuta dal sovrano d’Inghilterra Carlo II, che era tornato dall’Olanda per prendere il posto di Carlo I Stuart, il «re martire» giustiziato da Cromwell nel 1649. Grazie a questa Società e alla nascita delle prime riviste scientifiche, gli scienziati dell’epoca iniziarono a interagire tra loro in modo strutturato. Ed è a questo particolarissimo frangente storico che è dedicato lo straordinario libro di Andrea Frova e Mariapiera Marenzana Newton & Co. geni bastardi (con una brillante prefazione di Piergiorgio Odifreddi), in uscita domani per Carocci. Galileo Galilei, ricordano gli autori, era morto nel 1642, lo stesso anno in cui era nato Newton: «Una sorta di epocale passaggio di testimone nel campo della scienza». Il «magnifico circolo dei devoti discepoli di Galileo» — i vari Cavalieri, Torricelli, Castelli, Viviani e altri — aveva dato un apporto fondamentale alla diffusione in Europa del metodo scientifico «fertile di sviluppi e conquiste». Ma poi la scienza in Italia andò declinando. Perché? Le condizioni della penisola, «percorsa e devastata da eserciti stranieri, politicamente divisa» assieme all’«abiura di Galileo e alla presenza minacciosa dell’Inquisizione», la «mancanza di interesse per la scienza da parte dei vari sovrani più disposti a finanziare artisti e poeti di corte, la progressiva perdita di influenza delle potenze marinare Genova e Venezia (che avrebbero potuto costituire stimoli all’avanzamento scientifico e tecnologico)» furono, secondo i due storici, i principali fattori «che contribuirono a un ripiegamento provinciale su se stesso del Paese, incapace di tenere il passo con quanto accadeva nel resto d’Europa, in Francia, in Olanda e più ancora in Inghilterra».
Qui viene naturale un’obiezione: anche in Inghilterra la situazione politica nel XVII secolo era tesissima, le contese religiose erano più che infuocate, drammatici furono gli eventi bellici e politici, più che precaria la situazione economica… Perché allora questo boom della scienza ai tempi di Carlo II? Il fatto è, mettono in rilievo Frova e Marenzana, che «il regno, pur con molte difficoltà, riuscì a superare le crisi e ad acquistare stabilità». E senso di sé. L’espansione coloniale, inoltre, portò ricchezze e conoscenze, stimoli per la scienza e per le sue applicazioni pratiche, che favorirono l’interesse e l’appoggio dei governanti. Isaac Newton, Robert Hooke e gli altri membri della Royal Society si trovarono a vivere questo particolare e stimolante momento storico e, in concorrenza con la Francia, «assicurarono all’Inghilterra il primato di grandi invenzioni e scoperte». Tutto ciò «malgrado la frequente mancanza di rispetto delle regole fondamentali della ricerca scientifica, ossia cooperazione e correttezza». Si svilupparono così tra quegli scienziati «scontri violenti nati da invidie e rivalità, da questioni di priorità e prestigio, ma anche da ambizioni di carriera e di guadagno». Nonché «dal sopravvivere, persino in geni della statura di Newton e Robert Boyle, di atteggiamenti di pensiero e di pratiche prescientifiche, alchemiche, causa ulteriore di fratture, reticenze e sospetti». Al punto che i due autori si domandano se «non fu piuttosto proprio questa competitività esasperata che valse a stimolare le menti e ad acuire l’inventiva e l’impegno».
Subito dopo la conclusione della guerra civile, John Wilkins — «un carismatico intellettuale e uomo di Chiesa, che era passato con successo dalla funzione di cappellano nella casa reale a quella di influente accademico durante il periodo repubblicano di Cromwell» — aveva raccolto attorno a sé un gruppo di persone che veniva chiamato Oxford Esperimental Philosophy Group, di cui facevano parte «studiosi di varia provenienza, senza distinzioni politiche o ideologiche». All’epoca della rivoluzione, Wilkins seppe usare la sua influenza per dare una moderna impronta scientifica e matematica alla vita intellettuale dell’Università di Oxford. Fu lui, in seguito, che assieme ad altri undici studiosi del suo circolo, tra cui Christopher Wren e Robert Boyle, diede vita alla Royal Society, il cui motto poteva essere sintetizzato nelle parole di un loro lontano ispiratore, Francis Bacon (1561-1626), padre dell’empirismo scientifico: «Dio ci vieta di proporre una fantasia nata dalla nostra immaginazione come una descrizione del mondo».
Il principio ispiratore della Royal Society era che alle informazioni dovesse essere garantita la massima circolazione. La comunicazione doveva prendere il sopravvento e la segretezza avrebbe dovuto essere bandita. La comunicazione, poi, doveva «liberarsi dalla vuota eloquenza che aveva caratterizzato i filosofi del passato: via ogni artificio verbale, via ogni forma di retorica». Concretezza e semplicità avrebbero dovuto dettare legge e quando fosse stato possibile si doveva ricorrere al linguaggio della matematica. Il motto della Royal Society, Nullius in Verba , ossia «sulla parola di nessuno», stava a sottolineare «la determinazione dei fondatori di stabilire i fatti secondo il metodo sperimentale, ossia alla maniera di Galileo, e di procedere nell’indagine scientifica in modo oggettivo, ignorando l’influenza della tradizione scolastica, della politica e anche della religione, benché diversi tra i membri fossero alti prelati».
La Royal Society non produsse solo grandi scoperte. La sperimentazione ebbe anche un volto che i due autori non esitano a definire «criminale». Hooke, ad esempio, fece esperimenti d’ogni tipo, «talvolta di dubbio valore scientifico — come nel caso di alcune crudeli dimostrazioni su animali, che peraltro eseguiva controvoglia — per soddisfare la curiosità dei soci scientificamente meno competenti e motivati». Una volta «dovette aprire la cassa toracica di un cane per vedere quanto sarebbe sopravvissuto grazie al semplice pompaggio di aria nei polmoni (in certo senso il primo tentativo di respirazione artificiale), ma fu così disturbato dalla vicenda che in seguito si rifiutò di ripetere un tale esperimento». Hooke si rifiutò poi di partecipare all’«esperimento Coga»: uno studente molto povero, Arthur Coga, accettò il 26 novembre 1667, per il compenso di una ghinea, che il medico Richard Lower e altri membri della Società — su suggerimento del vescovo di Salisbury — gli iniettassero sangue di pecora. Il paziente «non parve mostrare alcuna conseguenza negativa, e lo stesso accadde alla ripetizione dell’esperimento, tre settimane più tardi, di fronte a un diverso pubblico non meno eccitato del precedente». La notizia si sparse per tutta l’Europa, e la sperimentazione fu ripetuta più e più volte: «spesso, però, con esiti fatali». Il che, scrivono gli autori, «getta qualche ombra sulla veridicità del resoconto ufficiale in merito al caso Coga, conservato nei registri della Royal Society».
Qualcosa di esemplare ebbe luogo nel dicembre di quello stesso 1667 a Parigi, nel palazzo del «nobile e ricchissimo» Henry-Louis Habert de Montmor, che aveva fondato una libera accademia scientifica che portava il suo nome (tra i membri figuravano Pierre Gassendi, Marin Mersenne, Christiaan Huygens). In quel palazzo, il medico Jean-Baptiste Denis e il barbiere chirurgo Paul Emmerez procedettero alla trasfusione del sangue di un vitello ad un clochard mentalmente instabile, Antoine Mauroy. Denis sosteneva che tale operazione «avrebbe permesso di rendere l’uomo placido quanto un vitello». Una folla di «medici, chirurghi e altri osservatori, per lo più aristocratici», assistette all’evento. Che fu ripetuto, due giorni dopo, visto il «buon esito» della prima esperienza. Quattro mesi più tardi Mauroy morì e Denis fu sottoposto a processo per omicidio. Processo che si concluse con un’assoluzione, perché Denis riuscì a «dimostrare» che Mauroy era stato avvelenato con l’arsenico dalla moglie. Ma lo stesso Denis non dovette essere del tutto convinto dalle sue argomentazioni difensive e abbandonò la pratica medica. E anche gli altri scienziati si persuasero che quel genere di trasfusione non fosse proficua. Tant’è che fu messa al bando dapprima in Francia (1670), poi in Gran Bretagna e successivamente in quasi tutti gli altri Paesi europei. Solo nel 1829, l’ostetrico inglese James Blundell dimostrò l’efficacia della trasfusione tra esseri umani, ma erano trascorsi 160 anni. È interessante notare, poi, come alla base dei divieti alla fine del Seicento non era tanto «la pietà per le vittime, quanto il timore che la mescolanza di sangue di specie diverse potesse minare la purezza del genere umano e condurre alla creazione di esseri abnormi». In un’era in cui, scrivono Frova e Marenzana, «i confini tra scienza, magia e superstizione non erano ancora ben definiti, ci si chiedeva se per caso gli uomini non avrebbero cominciato a muggire, o magari i vitelli a parlare».
Ma non fu su questo che si litigò all’interno della Royal Society. Furono semmai differenze di carattere e di comportamento. Newton fu quasi un asceta (Voltaire nel 1773 scrisse che non aveva mai «avvicinato» una donna). Hooke invece, assieme a Christopher Wren e Edmond Halley, era un gran frequentatore di coffee houses, seduceva abitualmente le domestiche, nonché la figlia di suo fratello, la nipote Grace, con la quale convisse fino alla prematura morte di lei nel 1684. Newton e Hooke, secondo i due autori, «non avrebbero mai potuto andare d’accordo, né cercare di comporre le loro controversie in maniera civile e utile alla scienza oltre che a sé stessi».
L’avversione di Newton nei confronti del più anziano collega «crebbe nel tempo a tal punto che, divenuto nel 1703 presidente della Royal Society — carica cui giunse, secondo alcuni, brigando in varie maniere — egli pose il massimo impegno nel far sparire ogni traccia di Hooke, morto quello stesso anno». Compresi i ritratti, tant’è che oggi «nessuno è in grado di dire con sicurezza quali fossero le fattezze di Hooke». E non furono, i loro, dissidi dettati solo da divergenze, per così dire, d’ordine morale. Newton scrisse a Halley per denunciare Hooke: «È accettabile che un uomo che pensa di saperla lunga e ama dimostrarlo correggendo e istruendo il suo prossimo, venga da voi quando siete impegnato, e, nonostante le vostre scuse, vi assilli con discorsi e vi corregga attraverso i suoi stessi errori, e dopo discorsi e ancora discorsi si vanti di avervi insegnato tutto ciò di cui vi ha parlato e vi obblighi a dargliene riconoscimento, gridando all’offesa e all’ingiustizia se non lo fate? Penso che lo giudichereste una persona afflitta da uno strano temperamento asociale». Oggi, scrivono i due autori, è evidente che Newton e Hooke «pur nella loro diversità avevano entrambi caratteri difficili e, per dirla secondo l’uso inglese che si fa di questo vocabolo nel mondo della competizione professionale, anche scientifica, erano entrambi dei bastard di discreto calibro».
Nel caso di Hooke, «la mancanza di riconoscimento del suo contributo alla teoria della gravitazione universale da parte di Newton, in aggiunta al fatto che nessuno dei suoi amici, neppure Wren, parlò mai pubblicamente in sua difesa, danneggiò la sua reputazione, lo fece sentire vittima di ingiustizia e di tradimento e avrebbe concorso a rendere assai amara la parte finale della sua vita». Hooke e Newton non si riappacificarono mai, anzi Newton tenne al minimo la sua frequentazione della Royal Society fino a quando Hooke fu in vita. Solo alla sua morte, nel 1703, accettò di divenirne presidente. Anzi, sottolineano i due autori, «brigò alquanto per insediarsi in tale ragguardevole posizione, dalla quale ebbe modo di controllare e condizionare pesantemente la scienza del suo Paese».
Nel 1693 Newton aveva subìto un crollo psicofisico che lo condusse sulle soglie della follia. Ne scrisse lui stesso all’amico Samuel Pepys: «Sono estremamente turbato dallo stato di confusione in cui mi trovo, non ho né mangiato né dormito bene in questi ultimi dodici mesi, e non ho più la mia solidità mentale… Mi rendo conto di dover interrompere il nostro rapporto e di non dover più vedere né voi né gli altri miei amici, ma, se posso, di doverli lasciar andare tranquillamente per la loro strada». Poi ne inviò un’altra ancor più sorprendente a John Locke: «Essendo stato del parere che voi cercavate di confondermi con donne e con altri mezzi, ero così sconvolto che quando mi fu detto che eravate ammalato e non sareste vissuto, risposi che era meglio se voi foste morto… Desidero che mi perdoniate per questa mia mancanza di carità». Newton si scusava altresì con Locke «per aver detto o pensato» che fosse al centro di una macchinazione per confondergli le idee. Poi nei decenni successivi la comunità scientifica dovette assistere a una sua simile polemica con Leibniz. Certo, «per noi oggi», scrivono Frova e Marenzana, «è fin troppo facile stupirci di fronte a molte pagine di Newton che appaiono deliranti, e tuttavia una conoscenza del contesto in cui egli ha operato aiuta a capire come una mente tanto sublime potesse subire il fascino di saperi antichi e prescientifici». E, conseguentemente, abbandonarsi ai deliri di cui si è detto.

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