giovedì 27 marzo 2014


Lawrence Ferlinghetti, la mia America sta diventando un Terzo mondo
Incontro con il poeta della Beat Generation mentre a San Francisco si celebrano i suoi 95 anni
I viaggi con Ginsberg, un ricordo di Castro, l’infelice Urss di Stalin

Mauro Aprile Zanetti

"La Stampa", 27 marzo 2014

«Ecco un Ferlinghetti molto più politico, una voce per i poeti del dissenso». Robert Weil, direttore della Liveright Publishing, ha presentato così il nuovo progetto editoriale, Writing Across the Landscape: Travel Journals (1950-2013) di Lawrence Ferlinghetti. L’edizione prevista per il 2015, a cura di Giada Diano in collaborazione con Matthew Gleeson, includerà un’estesa diaristica, appunti di viaggio. A parte uno dei suoi primi memoir che risale alla fine degli Anni 40 – dove racconta dello sbarco in Normandia andando su e giù per l’Atlantico su una carretta di mare, guidando un pugno di sbarbatelli verso la liberazione dell’Europa dal nazismo –, l’itinerario dell’avventuriero Ferlinghetti ci porta in Cile, a La Paz in Bolivia, «il più povero e miserabile paese in cui io sia mai stato; persino più povero di Haiti», in Messico e Nord Africa, a Cuba, nella Spagna di Franco, nell’Unione Sovietica e in Nicaragua sotto i sandinisti, senza dimenticare la Francia e la sua adorata Italia. 
Sessant’anni di viaggi in giro per il mondo? «No, a dire il vero sono 95», corregge lui, ridendo. A dimostrazione che «San Francisco era ed è ancora l’ultima frontiera» di resistenza della Beat Generation, agli antipodi dell’attuale Bit Generation, questa settimana la leggendaria libreria City Lights dedica una serie di iniziative al suo fondatore che compie 95 anni. È un Ferlinghetti in ottima forma, illuminato da una luce serafica, agile e spietato d’intelletto, politico più che mai, lirico nei suoi montanti, stracolmo di umorismo con tinte di cupezza «sull’avvenire della terra e la razza umana». Gli fa perfettamente eco l’allarme sollevato in questi giorni da Paul Krugman sul «capitalismo patrimoniale» secondo l’accezione di Thomas Piketty. Alla domanda su cosa può dirci dopo un secolo di vita, risponde lapidario: «Questo sarà l’ultimo secolo degli umani sulla terra». 
Il poeta di North Beach è molto preoccupato di quanto poco stia facendo la politica. Dopo tutto quello che ha visto (Nagasaki inclusa), tra comunismo e capitalismo, è la poesia che lo ha salvato? «A dire il vero è alquanto difficile scrivere poesie in questi giorni, dinanzi alla tragedia che viviamo come pianeta. E il capitalismo ora è veramente fottuto - il comunismo lo è già stato -, specialmente negli Stati Uniti, dove ogni cosa è veramente incasinata: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Se i repubblicani vincono le prossime presidenziali sarà un disastro». 
Che ne è della middle class e all’American dream? «Beh, il Paese sta piuttosto diventando un Terzo mondo. E abbiamo l’invasione dell’innovazione.com: il denaro della Silicon Valley che compra la città. Abbiamo anche un sindaco che è completamente a favore di questo business. Uno dei principali pericoli è che il capitalismo nel suo più completo sviluppo è un nemico della democrazia. I poveri perdono persino la loro rappresentanza secondo la linea repubblicana. Ogni trionfo per il capitalismo è una sconfitta per la democrazia». 
La conversazione tocca anche l’ex premier italiano Berlusconi: Ferlinghetti non si capacita di come possa ancora essere in giro. Scherza sulla sua ossessione per l’altezza, e racconta degli stivali di Castro che per l’appunto lo rendevano anche più alto di lui quando furono faccia a faccia a Cuba agli albori della rivoluzione. Quando sente dei lavori socialmente utili che dovrà fare Berlusconi, ride di cuore tra l’ipotesi di badante per anziani o in convento con le suore. Di papa Francesco, di cui condivide «la rivoluzione con la tenerezza», dice: «È il primo con un cervello, speriamo non lo ammazzino». 
«Il mio primo viaggio come poeta all’estero - continua - fu con Allen Ginsberg a Concepción in Cile. Poi andai a Machu Picchu, su cui scrissi la poesia Hidden Door, ispirato a Las alturas di Pablo Neruda. Lo stesso anno a Cuba, in un bar, io e mia moglie Kirby incontrammo due giovani che dissero di essere poeti e collaboratori di Lunes de Revolución. Avevano pubblicato Ginsberg, Kerouac, Corso, e anche alcune delle mie poesie. Quando realizzarono che ero io, dissero che avevano letto tutto di me, chiedendomi se volevo incontrare Fidel. Perché no, risposi». Ed ecco, verso la fine del pasto, l’epifania: «Questo uomo grande e alto venne fuori dalla cucina in divisa militare, fumando un sigaro. Chiesi ai giovani poeti se mi potevano presentare. E loro risposero che non lo conoscevano. L’unica cosa che potevo dire in spagnolo era: “Soy amigo de Allen Ginsberg”». 
Ferlinghetti ride molto divertito e continua: «Allen l’aveva incontrato a New York al Lenox Hotel, quando cercava finanziamenti. I governi e le banche non gli volevano prestare denaro. Così andò a cercarlo in Unione Sovietica, perché noi gli avevamo girato le spalle. Fu stupido da parte degli americani. Quando incontrai Fidel mi sorprese vedere che quel “feroce dittatore” era zoppicante e tremolante. Era tutto solo, quando venne fuori guidò una jeep aperta senza guardie. Era l’inizio della rivoluzione cubana, il tempo dell’euforia, quando tutto era grandioso. Pablo Neruda era in città, allora questi giovani poeti mi dissero che avrebbe fatto un reading di fronte a tutti i castristi e mi chiesero se volevo andare a sentirlo. Quando entrai nel Senato vidi una ressa: tremava ogni cosa! Entrarono tutti con una divisa militare e il sigaro in bocca. C’era grande eccitazione. Quando salì sul palco ci fu un applauso di massa. Tempo dopo ebbe molte discussioni e un sacco di disaccordi con Cuba. Neruda era comunista. Fidel non era uno di quelli del gruppo originario. Era uno di quegli studenti universitari, intellettuali. Non erano gli operai del partito. Anni dopo, quando ero in Nicaragua, lessi che Fidel aveva dichiarato: “Non sono un seguace del comunismo, ne sono una vittima”. Beh, è ancora vivo!». 
Ultimo flash di Ferlinghetti: un passaggio sul suo viaggio in Russia, prendendo la Transiberiana nel 1967, gli permette di descrivere la vita sotto Stalin. «C’era un enorme striscione che glorificava l’anniversario dei 50 anni della Rivoluzione, e un’orda umana lungo la strada, tutti vestiti di nero. Sembravano completamente infelici. Andai in un cinema: non mostravano che film di propaganda, con musica marziale, truppe che marciavano. Il pubblico sedeva in assoluto silenzio per tre ore, dopo di che si trascinava fuori muto. Era così patetico. Era la gloria del 50° anniversario del comunismo!». 

Bob Donlin, Neal Cassady, Allen Ginsberg, Robert LaVinge, e Lawrence Ferlinghetti (da sinistra a destra) all'esterno della libreria "City Lights" di Ferlinghetti a San Francisco

Il “ribelle” che all’alcol preferisce il cappuccino

Claudio Gorlier

Conosco Lawrence Ferlinghetti da cinquant’anni, quando cominciai a frequentare la sua leggendaria libreria, City Lights Books, sulla Columbus a San Francisco, un punto ribollente di incontri creativi. Nel 1955 fu lui a pubblicare Howl, Urlo, il poema di Allen Ginsberg a causa del quale subì un processo per oscenità, e che in qualche modo segna la nascita della Beat Generation, di cui Ferlinghetti rimane, a mio avviso, uno dei tre supremi protagonisti, con Ginsberg e Jack Kerouac, l’autore dell’altro testo canonico beat, il romanzo Sulla strada. Perché beat? Ironicamente, dicevano loro, come abbreviazione di beaten, sconfitto, ma anche di beatitude, beatitudine. Come ha osservato Thomas Parkinson, lo studioso più qualificato dei beat, il significato più autentico era, più ancora che «rivolta», «ribellione», una ribellione a 360 gradi, contro l’ipocrisia oppressiva delle istituzioni, del costume, della società letteraria, dell’America perbene.
La poesia e la prosa di Ferlinghetti, pur altrettanto sperimentali delle altre opere dei beatnik (termine insieme qualificante e derisorio), possiedono una misurata intensità, direi una spazialità verbale, culminando nel ritmo disteso ma penetrante di A Coney Island of the Mind (Coney Island della mente, 1958) e del programmatico Poetry as Insurgent Art (Poesia come arte che insorge, 2009). Persisto nel ritenere che Ferlinghetti sia, osservato in prospettiva, il direttore di orchestra della beat generation nella sua autenticità e genuinità californiana. Ma attenzione: Ferlinghetti non è stato mai, pur nella sua densa ironia, un ribelle integrale. Niente alcol, niente droga, mi è capitato di osservare, solo cappuccino, a differenza degli altri beat. A San Francisco gli hanno persino intitolato la piccola via accanto alla libreria. Tieni duro, Lawrence.

E il re bruciò i Templari per fare cassa


Una mostra a Genova ripercorre la storia dell’ordine cavalleresco: 
dalla fondazione al rogo del Gran maestro

Teodoro Chiarelli

"La Stampa", 27 marzo 2014

Una storia di tonaca e spada lunga due secoli e soffocata brutalmente nel sangue. Anzi, nei roghi: l’ultimo giusto settecento anni fa. È il 18 marzo 1314, Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio, viene bruciato sulla pubblica piazza a Parigi per ordine del re Filippo IV il Bello, complice una bolla di legittimazione di papa Clemente V. Accusati di eresia e di ogni tipo di nefandezza, i monaci guerrieri dell’ordine nato per proteggere i pellegrini in viaggio verso la Terrasanta vengono perseguitati, inquisiti e brutalmente sterminati. Le loro immense proprietà e le loro enormi ricchezze sono confiscate dal re. E qui vengono fuori le vere ragioni di un’operazione che è ben poco religiosa, ma piuttosto politico-economica. Filippo IV era pesantemente indebitato con l’Ordine del Tempio. Cancellando i Templari prende i classici due piccioni con una fava: estingue il debito e incamera una fortuna.
A nulla servirà l’appassionata autodifesa di de Molay sull’ortodossia dell’Ordine. Al concilio convocato a Poitiers da Clemente V, il portavoce del re di Francia chiede al Papa di attivarsi affinché l’Ordine templare sia ripudiato dalla Chiesa, in caso contrario il Papa sarebbe stato abbandonato dal più cristiano dei sovrani. Clemente V cede al ricatto e i Templari sono condannati al rogo. Proprio le ricchezze, il senso di autonomia, i caratteri esotici della religiosità templare sono gli elementi che risulteranno decisivi per lo scioglimento dell’Ordine.
A 700 anni dal rogo di Parigi, una mostra a Genova, nella Commenda di San Giovanni di Prè (gioiello medievale di singolare bellezza costruito nel 1180 come luogo di assistenza a pellegrini e crociati che si recavano o tornavano dalla Terrasanta), a due passi dall’Acquario, ripercorre la vicenda dei Templari in maniera scientifica. La rassegna, «Templari, storia e leggenda dei cavalieri del Tempio», si inaugura domani e resterà aperta fino al 2 giugno. Curata da Cosimo Damiano Fonseca e Giancarlo Andenna, conta sul contributo di studiosi di livello internazionale e sull’alto patrocinio del Pontificium Consilium de Cultura
Un percorso tra il XII e il XIV secolo attraverso importanti reperti storico-artistici, alcuni esposti per la prima volta al pubblico: il codice pergamenaceo La regola dei Cavalieri del Tempio dalla Biblioteca Nazionale dei Lincei di Roma, i documenti del processo ai Templari dell’archivio segreto Vaticano, il San Pietro di Simone Martini dal Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto, la Madonna del colloquio di Giovanni Pisano dal Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, le lastre tombali di alcuni cavalieri templari dall’Abbazia di Fontevivo di Parma e dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. 
La nascita dell’Ordine del Tempio è considerata uno degli avvenimenti chiave della storia europea: la creazione di una forza, per la prima volta universalmente riconosciuta e riconoscibile, di un’idea di bene e di valori comuni e condivisi, che risulteranno fondanti per i sistemi di governo futuro. La protezione dei deboli, la virtù e l’abnegazione al servizio del compimento del dovere, la subordinazione degli interessi particolari a un concetto di bene universale, rappresentano le nuove parole d’ordine di una comunità del coraggio e della cavalleria. 
Scrivendo De laude novae militiae Bernardo di Chiaravalle si inserisce nello scontro tra il pontefice Innocenzo II e l’antipapa Anacleto II. A essa si ispirano i milites (i sette fondatori guidati da Ugo da Payns) per darsi una propria Regola di vita quotidiana di cavalieri al servizio dei pellegrini diretti in Terrasanta. Nascono così le loro leggendarie fortezze, chiamate Baghras, Safita, Atlit o Castello dei pellegrini. Ma l’Ordine tesse anche una rete di rapporti con il Regno di Gerusalemme, i sovrani cattolici e i loro nemici più fieri come Saladino. Riccardo I parte per la crociata nel 1192, sconfigge più volte Saladino, ma non riconquisterà Gerusalemme. I Templari, intanto, si espandono in Europa. 
I cavalieri si considerano i guerrieri eletti del Cristo. L’etica di base dettata da San Bernardo viene ulteriormente sviluppata associando ai Templari il tema del sacrificio (coloro che davano il sangue per la salvezza del Cristianesimo e della Terrasanta) e della passione di Cristo. Il segno del sangue (esplicitamente richiamato dalla Croce Rossa), che era loro simbolo esclusivo, diventa un elemento fondamentale. 
Divenuti ormai troppo potenti, i Templari e le loro ricchezze finiscono nel mirino di Filippo «il Bello». E iniziano i roghi.


Un mistero nato nell’età dei Lumi

Mario Baudino

Non ci sono paragoni, come diceva una famosa pubblicità. La popolarità dei Templari umilia qualsiasi altro ordine e istituzione del Medioevo. Non da ieri, non certo da Dan Brown, l’ultimo in ordine di tempo ad attingere a questa inesauribile fonte di successo. E dire che in sé non erano poi tanto diversi da altri ordini monastici o cavallereschi, come quelli di Malta o gli antipatici cavalieri Teutonici; e che, persa la Terrasanta, non hanno combinato granché. La loro sfida storica è stata semmai di reggere come multinazionale finanziaria.
Ciò che dei Templari ha affascinato la nostra cultura a partire dal Settecento è la loro caduta, il rogo di Jacques de Molay, l’espropriazione dei beni avvenuta soprattutto in Francia, la fantasia esoterica profusa nei processi, presa a volte sul serio anche da storici accademici, fra mille polemiche. Tutto questo è diventato un archivio straordinario che dal Secolo dei Lumi non ha cessato di produrre narrazioni: soprattutto quella dei Templari sopravvissuti come ordine segreto e padroni dei destini del mondo.
In tutti i presunti «misteri» della storia un cavaliere con la croce sul petto è così divenuto d’obbligo, dagli eretici Catari al Graal alla Sindone a leggende recentissime come quella di Rennes-les-Chateau. Umberto Eco (nella Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani) li ritrova spesso sul cammino. E cita a questo proposito, lui laico senza se e senza ma, un aforisma attribuito a Chesterton: «Quando gli uomini non credono in Dio, non è che non credano a nulla: credono a tutto».

domenica 23 marzo 2014

C’era una volta l’infanzia, Padri Peter Pan e madri alla ricerca del Principe azzurro.


Genitori troppo presi a far crescere “il figlio perfetto”

Bassa natalità che li rende “beni preziosi su cui investire”
Mentre apre la fiera di Bologna dedicata a loro, ecco perché i bambini ormai sembrano adulti

Simonetta Fiori

"La Repubblica", 23 marzo 2014


I bambini? Non ci sono più. Li abbiamo fatti crescere in fretta. Non più figli ma quasi coetanei. Complici nei pasticci sentimentali e negli imprevisti della vita che gli adulti infantili non sanno più reggere da soli. Abbiamo ucciso i bambini perché ci siamo sostituiti a loro, barattando la loro irresponsabilità con la nostra. Ci siamo persi i bambini perché i bambini siamo noi.
Dalla pubblicità alla tv, non è difficile trovarne riscontri nell’immaginario contemporaneo. Erotizzati e ritratti in pose ammiccanti nelle foto di moda. Mostruosi melodici miniaturizzati nei festival canori del sabato sera. Molto più maturi dei genitori immaturi nelle fiction televisive e al cinema, spesso costretti al ruolo di consolatori di madri o padri abbandonati. Ma dov’è finita l’età dell’incoscienza? Se lo domanda Marina D’Amato, titolare all’università di Roma Tre dell’unica cattedra al mondo di Sociologia dell’infanzia, professoressa della Sorbonne e ora autrice di un appassionato saggio dall’efficace titolo Ci siamo persi i bambini (Laterza, pagg. 160). Dove per bambini si intende certo la prima stagione della vita ma anche la condizione di figli costretti presto a diventare adulti. «Perché prima crescono, meno graveranno su genitori che non sono stati capaci di conoscerli e capirli. E più imparano, prima raggiungeranno l’agognato traguardo dell’affermazione sociale».
Un furioso j’accuse è quello scritto dalla studiosa, che non disdegna il registro della provocazione. Un processo ai nuovi genitori che, nella sua inevitabile sommarietà, mette in fila non pochi capi di imputazione. A cominciare da quello più diffuso che consiste nel trasformare le giornate dei bambini in agende degne d’un capo di Stato. «Alla pedagogia dell’attenzione i nuovi papà e le nuove mamme tendono a sostituire quella dell’organizzazione. Con la conseguenza che oggi educare significa soprattutto gestire. Il genitore perfetto è quello che riesce a riempire di impegni il tempo del figlio, con lo scopo inconscio: diventerà più di me. Ma amare è saper cogliere i desideri, non formare il capolavoro da esibire come carta da visita». Spesso si dimentica che il bambino è una creatura in fieri. E la crescita cognitiva non va di pari passo con quella emotiva. «Stimolati dai nuovi media», dice D’Amato, «i ragazzini mostrano un grado avanzato di conoscenze. Ma sapere non significa necessariamente essere attrezzati interiormente. E dunque potersi difendere dai problemi di famiglia».
La primissima infanzia e la vecchiaia: le età della vita sembrano essersi ridotte sostanzialmente a due. Per il resto un magma indistinto, tenuto insieme dal mito dell’eterna giovinezza, dove genitori e figli vestono allo stesso modo, si divertono allo stesso modo e talvolta parlano la stessa raccapricciante lingua. Al tradizionale conflitto generazionale, fecondo di nuove conquiste, rischia di sostituirsi una meno feconda competizione generazionale. Con una pericolosa confusione di ruoli. «Se un tempo Biancaneve doveva guardarsi dalla matrigna, invidiosa della sua beltà, ora deve scappare dalla madre naturale, in cerca del principe azzurro a cinquant’anni ». Ancora peggio se Biancaneve viene issata sui tacchi alti o indotta a pose maliziose. La moda infantile è l’unico business che non conosce crisi, anzi in costante crescita, con un corredo di gadget sideralmente lontani dai corpi acerbi delle bambine. E se gli antichi romani avevano inventato l’infanzia per pudore -allontanandola dalla camera da letto -noi rischiamo di distruggerla impastandola di seduzioni erotiche che non le appartengono. «Oggi ci sono case di moda che fabbricano reggiseni imbottiti per bambine di quattro anni. E mamme che li acquistano. Ma così costringi creature inconsapevoli ad assumere sembianze che non solo loro. Possiamo poi sorprenderci che, divenute adolescenti, ritengano normale vendere il proprio corpo?». Sono casi limite, però sempre più presenti nelle cronache.
Postmodernità e genitorialità appaiono agli antipodi. Se la prima invoca la perdita di certezze, la funzione genitoriale consiste nel trasmetterle. «Il padre postmoderno », sostiene D’Amato, «è un Peter Pan allergico a tutto, che non sa ancora cosa farà da grande anche se l’essere genitore glielo imporrebbe ». Al padre padrone s’è sostituito il padre latitante o il padre che ha rinunciato da un pezzo all’autorità: dunque non vale la pena neppure di ucciderlo. Ma quando è cominciata la catastrofe famigliare? Sicuramente influisce il calo demografico. Si fanno meno figli, e quei pochi diventano preziosi: prolungamento narcisistico di sé e oggetto d’uno smisurato investimento sociale oltre che emotivo. Ma secondo la sociologa interviene anche il nuovo clima culturale in cui sono stati allevati i figli degli anni Settanta, tra il permissivismo del Dottor Spock e le parole d’ordine di Bettelheim. «Molti tra i nuovi papà e le nuove mamme sono stati educati da genitori che avevano fatto del “vietato vietare” un principio irrinunciabile. E questa nuova libertà è stata potenziata da un immaginario televisivo che per la prima volta diventa universale, tra lo scintoismo dei cartoni giapponesi e la cultura narcisistica dei serial americani. Materiali eterogenei in cui vince sempre il più forte, non il più bravo».
Tutti eguali, dentro una stessa generazione? Il dubbio resta. Ma certo oggi s’insegna a vincere, piuttosto che a saper perdere. Accade a scuola dove l’adulto bambinizzato, organizzato in temibili associazioni genitoriali, è pronto ad azzannare il professore che non riconosce il talento del figlio. «Un brutto voto significa la frustrazione del ragazzo, e questa non è ammessa dall’organizzazione famigliare perfetta. Senza capire che la frustrazione è un passaggio fondamentale nella crescita». E s’insegna a vincere in palestra o in un campo sportivo, dove il gioco è stato sostituito dalla competizione agonistica. Dal tradizionale ambito calcistico, squadre di campioncini germogliano nel ciclismo e nel nuoto, nel tennis e nel canottaggio. Dove non è più contemplato il gioco, ma solo l’allenamento quotidiano.
Ci siamo persi i bambini anche tra i blog materni, una miriade esplosa in questi ultimi anni in un tripudio di condivisioni. Si condividono le prime cacche, i rigurgiti, i bagnetti. «Le nuove madri italiane non chiedono più consiglio alle nonne, ma cercano la solidarietà in rete. E lo fanno mettendo in mostra un’intimità famigliare che prima veniva consegnata a diari privati. Ma così viene meno il rispetto per la persona che forse un domani potrebbe non gradire la fotografia spudorata della propria nuda fragilità». I figli possono diventare esercizi di stile, anche nei libri e nelle rubriche sui giornali. I lettori si divertono, forse un po’ meno i giovani biografati. Di solito sono gli adulti a uscirne meglio. E a questo punto è inutile domandarsi il perché.

Meraviglie della fisica. La felice fatica di capire il mondo


Le tracce di onde gravitazionali captate oggi, intuite da Einstein 98 anni fa, confermano che la scienza è un'attività visionaria. 
Carlo Rovelli lo dimostra in maniera esemplare


Franco Lorenzoni

"Il Sole 24 Ore - Domenica", 23 marzo 2014

Questa settimana la fisica ci ha regalato due grandi emozioni. La prima riguarda la profondità dello spaziotempo, in fondo a cui sono state scoperte tracce di segnali più antichi di qualunque cosa ascoltata fin'ora, la seconda la profondità della mente umana. È nella mente di Albert Einstein, infatti, che quasi un secolo fa sorse la "visione" di quelle onde gravitazionali che ci raccontano qualcosa sull'origine dell'Universo. Ci sono poi voluti 98 anni di calcoli ed esperimenti, condotti da centinaia di scienziati di tutto il mondo, per potere verificare la verdicità di quella visione, che peraltro non è ancora certa.
A chi desiderasse entrare dentro la metafora di quei primi vagiti dell'Universo, captati da un gruppo di scienziati nel cielo del Polo Sud, consiglio di leggere l'ultimo libro di Carlo Rovelli, fisico teorico che i lettori di queste pagine conoscono bene. La realtà non è come ci appare delinea infatti un'ambiziosa sintesi dell'evoluzione della fisica. E ciò che rende appassionante la lettura è la fatica, richiesta al lettore non esperto, di entrare in un mondo che si presenta diverso da come lo pensiamo abitualmente. 
È un libro da regalare subito a un diciottenne che si domandi cosa studiare e da consigliare vivamente a chi insegna, non solo materie scientifiche. Tratta infatti di un tema cruciale: lo sforzo necessario per tentare di capire il mondo e la bellezza di questo sforzo. 
Non è facile, infatti, immaginare il Cosmo come un mollusco che si curva di continuo visto da dentro (la metafora è di Einstein). Non è facile intendere e accettare che l'Universo sia finito pur non avendo confini e scoprire che, se osiamo viaggiare attorno a un buco nero e riusciamo a non caderci dentro, al ritorno ci troveremo in un futuro lontano. Ancora più difficile è arrivare alla conclusione a cui più tiene Rovelli, che sostiene che il tempo non esista, o meglio esista solo nel nostro attraversare il mondo, non nel minimo tessuto granulare che compone l'Universo, né nell'insieme dei cento miliardi di galassie che oggi riusciamo a vedere e a contare. 
L'invito è a «ripensare la grammatica della nostra comprensione del mondo, rivederla a fondo. Come era successo con Anassimandro, che aveva compreso come la Terra voli nello spazio … o con Einstein, che aveva capito come lo spaziotempo si curvi e si schiacci e che il tempo passi diversamente in luoghi diversi». Per introdurci a questo ripensamento radicale Rovelli parte da lontano, dal viaggio che Leucippo fece dalla libera Mileto di Talete e Anassimandro fino a Abdera, dove eresse, con il suo allievo Democrito, «la vasta catterdale dell'atomismo antico». 
Parte da lì perché è su quelle coste che nacque un modo di cercare risposte «nella natura stessa delle cose», accantonando miti, spiriti e dei, che Rovelli aveva già narrato in un altro bel libro dedicato alla rivoluzione di Anassimandro: Che cos'è la Scienza (Mondadori Università, 2012, pagg. 224). Ed è in quell'aurora della scienza che che si scopre «uno stile di pensiero nuovo, dove l'allievo non è più vincolato a rispettare e a condividere le idee del Maestro».
Attraversando i secoli da Archimede a Galileo, da Copernico a Newton, a Faraday a Dirac, Rovelli cerca di avvicinare il lettore all'idea che si è fatto del suo lavoro. «Alcuni filosofi della scienza riducono la scienza alle sue previsioni numeriche. Secondo me non hanno capito nulla perché confondono gli strumenti con l'obbiettivo. … L'obiettivo della ricerca scientifica non è fare previsioni: è comprendere come funziona il mondo. Prima di essere tecnica, la scienza è visionaria. Le predizioni verificabili sono l'arma affilata che ci permette di dire quando abbiamo capito male». «Teorie come la relatività generale e la mecanica quantistica, che inizialmente lasciavano molti perplessi, si sono conquistate credibilità via via che tutte le loro previsioni, anche le più inaspettate, e apparentemente strampalate, venivano confermate da esperimenti e osservazioni».
Presentare la scienza come attività visionaria è cosa a cui Rovelli tiene molto e le pagine più intriganti sono forse quelle in cui affiora il complesso legame tra le visioni della fisica e le architetture cristalline della matematica. Esemplare a questo proposito il racconto dell'incontro tra Faraday e Maxwell. Il primo «la fisica la vede con gli occhi della mente, e con gli occhi della mente crea mondi». Ma il giovane «poveraccio londinese senza educazione formale, che diventa il più grande sperimentatore e il più grande visionario della fisica dell'Ottocento», ha bisogno delle equazioni del ricco aristocratico scozzese Maxwell, uno dei più grandi matematici del secolo. «Pur separati da un'abissale distanza di stile intellettuale, oltre che di origine sociale, riusciranno a intendersi e, insieme, unendo due forme di genio, apriranno la strada alla fisica moderna».
Leggendo queste pagine, che ci portano così vicino al senso più profondo di due discipline che si studiano a scuola, mi domando a quanti ragazzi sia data la possibilità di cogliere la bellezza di questi linguaggi, creati dall'ingegno umano per intendere la natura. Se gli iscritti alle facoltà scientifiche si sono drasticamente ridotti negli ultimi decenni non sarà anche perché troppo raramente la scuola riesce a fare assaporare il gusto dello scoprire, intrecciando l'insegnamento della fisica e della matematica con la loro appassionante evoluzione nella storia? Solo se si sente la scienza come cosa viva, come ricerca aperta che continua, si può trovare il senso che giustifichi lo sforzo a cimentarsi con linguaggi e procedimenti tanto difficili.
Carlo Rovelli ha passato la vita cercando di comprendere i segreti dello spazio quantistico e ci confida quanto segua «con attenzione, inquietudine e speranza l'affinarsi continuo delle nostre capacità di osservazione, misura e calcolo», e aspetti «il momento in cui la Natura ci dirà se avevamo ragione, o no».
Ma mentre attende e continua a ricercare, si interroga sulle tante connessioni di cui hanno bisogno gli scienziati per immaginare altri modi di vedere il mondo. «Non so se il giovane Einstein avesse incontrato il Paradiso durante i suoi bighellonaggi intellettuali italiani, e se la fantasia sfrenata del nostro sommo poeta abbia avuto una influenza diretta sulla sua intuizione che l'universo possa essere finito e senza bordo. Ma che ci sia stata o no influenza diretta credo che questo esempio mostri come la grande Scienza e la grande Poesia siano entrambe similmente visionarie, e talvolta possano arrivare alle stesse intuizioni. La nostra cultura, che tiene Scienza e Poesia separate, è sciocca, perché si rende miope alla complessità e bellezza del mondo, rivelate da entrambe».
«Certo, la tre-sfera di Dante è solo una vaga intuizione dentro a un sogno. La tre-sfera di Einstein prende forma matematica e Einstein la inserisce nelle sue equazioni. L'effetto è molto diverso. Dante arriva a commuoverci profondamente, toccando la sorgente delle nostre emozioni. Einstein apre una strada che ci porta alla sorgente del nostro Universo. Ma sono l'uno e l'altro tra i voli più belli e significativi che sa fare il pensiero».
«Ci vuole un percorso di apprendistato per comprendere la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica con la quale leggere completamente l'equazione di Einstein. Ci vogliono impegno e fatica, ma meno di quelli necessari per arrivare a percepire tutta la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven. In un caso e nell'altro, lo sforzo, una volta fatto, vale la pena: scienza e arte ci insegnano qualcosa di nuovo sul mondo dandoci occhi nuovi per guardarlo, per capirne lo spessore, la profondità, la bellezza. La grande fisica, come la grande musica: parla direttamnente al cuore e apre gli occhi alla bellezza, alla profondità, alla semplicità della natura delle cose». 
In piccole note al margine Rovelli ci informa che i numerosi apporti di scienziati italiani alle scoperte della fisica più avanzata provengono da ricerche svolte in università straniere. È una constatazione triste, che ci dice quanto sia necessario e urgente investire in Italia, per riconnettere e dare respiro alla relazione tra educazione, cultura e ricerca.
Il libro di Carlo Rovelli è tante cose. Si può leggere come romanzo di formazione di uno scienziato, come lettera a un giovane che voglia entrare nel mondo della scienza, come storia della litigiosa ed efficace convivenza di matematica e fisica, come cronaca colta della singolar tenzone tra looppisti e stringhisti, giocata rincorrendo l'ultima particella, o come un inno alla capacità visionaria di alcuni uomini che hanno cambiato alla radice il modo di vedere il mondo, allargando sempre più i nostri orizzonti. 
Nella prima pagina l'autore confessa di amare la fisica perché apre finestre e si allontana dai tanti saperi che girano e rigirano sempre e solo intorno all'uomo. Forse è anche per questo che elude, nella sua narrazione, le interrogazioni che le applicazioni della fisica hanno posto e pongono agli scienziati. Cioè il rapporto tra scienza e potere e, più in particolare, tra ricerca fisica, armamenti e controllo dell'energia e del territorio. Ma per questo ci vorrebbe un altro libro, che aspettiamo. 

sabato 22 marzo 2014

Antica Roma. I tagliatori di teste


I legionari romani? Altro che portatori di civiltà

Secondo un’autorevole rivista nella Britannia romanizzata del II secolo dopo Cristo i capi mozzati venivano ammucchiati in fosse aperte dove si decomponevano

Franco Rollo

"l’Unità", 22 marzo 2014

L’IDEA CHE I LEGIONARI ROMANI CHE ATTORNO AL I SECOLO DOPO CRISTO SI INSEDIARONO NELLA LORO ISOLA FOSSERO DEI BRUTI SANGUINARI, anziché dei portatori di civiltà, come amiamo ritenerli noi, fa, di tanto in tanto, capolino nell’immaginario collettivo inglese. Ricordo, era l’autunno del 1980, il clamore mediatico suscitato dalla rappresentazione di The Romans in Britain al National Theatre di Londra. Si trattava di una pièce che aveva come tema la sottomissione delle popolazioni autoctone celtiche da parte degli invasori. Per fiaccarne il morale i romani applicavano la sottile strategia psicologica di sodomizzare i druidi su cui riuscivano a mettere le mani. Lo stupro del druido, ripetuto sul palcoscenico ogni sera con impressionante realismo teatrale, fece scandalo in un’Inghilterra ancora puritana e contribuì grandemente al successo mediatico del dramma (l’avventurosa storia delle rappresentazioni di The Romans in Britain, è narrata da Mark Lawson in un documentato articolo, Passion Play, su The Guardian, Friday 28 October 2005). Nelle intenzioni dell’ autore, Howard Brenton, The Romans in Britain avrebbe dovuto costituire una metafora della occupazione inglese dell’Irlanda del Nord e, in generale, dell’imperialismo e abuso di potere in ogni epoca storica. Ho però il sospetto che solo alcuni cogliessero la metafora; negli altri prevalse l’interpretazione letterale e superficiale della sceneggiatura, da cui trassero l’opinione, un po’ goliardica, che gli antichi romani erano dei bruti sadici e che i celti, i druidi in particolare, avrebbero dovuto difendere con più determinazione il loro onore. 
Il dibattito sulla brutalità degli antichi romani sembra ora destinato, inaspettatamente, a rinfocolarsi ad opera, non più di un autore teatrale, ma di Journal of Archaeological Science. L’autorevole rivista scientifica ha pubblicato un articolo in cui si afferma senza mezzi termini che nella Britannia romanizzata del II secolo dopo cristo erano all’opera cacciatori di teste. Autori dell’articolo sono due giovani e preparate ricercatrici, Rebecca Redfern del Museum of London e Heather Bonney del London’s Natural History Museum. Esse ritengono di avere raccolto le testimonianze di una incetta di teste umane che venivano poi ammonticchiate in fosse aperte dove si decomponevano e venivano scarnificate dagli animali. Per la loro indagine hanno utilizzato 39 crani ritrovati nel corso di scavi condotti nel 1988 entro il perimetro della Londra romana, Londinium, in un’area archeologica interessata dal corso dello scomparso torrente Walbrook. Una volta recuperati i crani erano stati trasportati al Museum of London dove sono rimasti in deposito per anni; l’uso di metodi avanzati di antropologia forense ha ora permesso di scoprire che la maggior parte di essi appartiene ad individui adulti di sesso maschile che, poco prima di morire, furono feriti con vari tipi di armi. Sono state trovate anche tracce di vecchie ferite, riconoscibili per il fatto che l’osso ha avuto il tempo di rimodellarsi e cicatrizzarsi. 
La vicinanza del sito dove sono stati ritrovati i resti umani a quello dove sorgeva l’anfiteatro di Londinium ha fatto pensare a gladiatori sconfitti che sarebbero stati finiti con la decapitazione o le cui teste sarebbero state spiccate dal corpo dopo la morte per motivi ancora non chiari. Le tracce di ferite, vecchie e recenti, si accordano perfettamente con quello che comunemente si pensa fosse lo stile di vita di un gladiatore. Vi è anche una seconda ipotesi: sembra ragionevole supporre che, almeno in alcuni casi, i crani siano di delinquenti comuni; negli anfiteatri e nei circhi venivano eseguite le sentenze alla pena capitale. Vi è, infine, una terza ipotesi, che le autrici dell’articolo sostengono con convinzione. Questa è che i crani rappresentino trofei di guerra delle truppe che presidiavano il Vallo di Adriano. Lì avevano primariamente il compito di tenere tranquilli e sottomessi i locali. Secondo questa ipotesi le teste mozzate di quelli che, possiamo immaginare, erano dei ribelli catturati, sarebbero state trasportate o spedite a Londinium, la sede del comando supremo romano, come prova di missione compiuta e per riscuotere le taglie spettanti. Dopo essere state esposte in luoghi pubblici per l’edificazione della cittadinanza, le teste sarebbero finite nelle fosse comuni.

La lezione di Simone. Quando la Weil parlava di anima geometrica


Omero e Platone, l’antica Grecia e i Vangeli, l’ascesi e la logica, la filosofia e la fabbrica 

Paolo Zellini e Marco Vannini, un matematico e uno studioso di mistica, 
rievocano la grande eretica

Intervista di Antonio Gnoli

"La Repubblica", 22 marzo 2014



Morì a 34 anni nel letto di un ospedale di Londra. Era il 1943. Simone Weil concluse il breve tragitto terreno non immaginando che il suo pensiero sarebbe diventato straordinariamente fecondo tra coloro che ebbero in odio dottrine sicure e ideologie trionfanti. Abbracciò con pari entusiasmo il pensiero religioso e quello scientifico. Ma di entrambi privilegiò l’aspetto meno ortodosso. Oggi ci si interroga se fu una mistica. Non c’è dubbio che su quella strada trovò spesso le ragioni del suo pensare e agire. Nel nome di una purezza assoluta scandagliò le passioni umane e le grandi storie. L’antica Grecia e i suoi protagonisti e l’altra, riferita al Cristianesimo. Ci fu davvero continuità tra i due eventi, come la Weil provò a raccontarci nei saggi raccolti nel libro La rivelazione greca (Adelphi)? Per discuterne abbiamo invitato il matematico Paolo Zellini e lo storico delle religioni e, in particolare, del pensiero mistico Marco Vannini.
In che senso si può parlare di un pensiero mistico della Weil?
Marco Vannini: Farei una premessa. L’attenzione della Weil per il mondo greco nasce dalla lettura dei poemi, delle tragedie e da alcune opere filosofiche. Con questa idea di fondo: qualunque cosa l’uomo faccia nel nome della verità rivela la potenza divina. È un segno di Dio.
Anche se il mondo greco è pagano?
Vannini: Certamente. Del resto, un grande mistico contemporaneo di Dante, Meister Eckhart, disse che i maestri pagani conobbero la verità prima della rivelazione cristiana. Non c’era ai suoi occhi una rottura sul senso della verità. I due mondi si parlavano. La Weil non farà altro che riprendere quella straordinaria intuizione fino ad estenderla alla scienza greca.
Quando si dice “scienza greca” cosa dobbiamo intendere?
Paolo Zellini: Per la Weil è la scienza vera e propria. Tutto quello che successivamente accadrà nel pensiero scientifico fu una continuità o un tradimento di quel nucleo originario.
In cosa consiste questo nucleo?
Zellini: I greci stabilirono dei criteri e crearono delle teorie che permisero la nascita di una episteme, cioè di un modo peculiare di pensare che non aveva precedenti. La grande innovazione greca fu di cogliere nella varietà dei fenomeni - nel mutamento delle cose ma altresì nel mutamento dell’anima - delle invarianti. Scoprire, ad esempio, che la stella del mattino è uguale a quella della sera, perché è sempre Venere, consentì ai greci di darsi, pur nel mutamento, dei punti fermi.
Vannini: La scienza greca in un certo senso stabilizzò il mondo dei fenomeni.
Zellini: Permise che quel mondo potesse essere conosciuto. Non a caso furono i greci a mettere a punto il concetto di dimostrazione, di cui la geometria di Euclide fu la più classica delle realizzazioni. D’altronde, sono stati sempre i greci, attraverso l’analisi e la sintesi, a inventare un nuovo modo di ragionare. E quel ragionamento per analisi e sintesi, via via che si procedeva, si estese ad altri ambiti che non erano solo quelli della scienza o, più in particolare, della matematica. Fu a questa estensione che la Weil guardò con interesse. Quando prese concetti come forza, equilibrio, misura, numero, rapporto e simmetria, lo fece consapevole di trasferirli nell’ambito ristretto della matematica a quello più generale del mondo dello spirito.
La scienza greca, diversamente dalla scienza moderna, era per la Weil un modo originale per accostarsi alla religione?
Vannini: Più che un modo di accostarsi, un modo di essere religione. Fu la sua grande intuizione, discutibile quanto si vuole, ma certamente in grado di aprire a una lettura originalissima del mondo greco. Da questo punto di vista, è chiara la lontananza della Weil dalla scienza moderna che vide soggetta alla categoria dell’utile ed esposta allo scientismo. Ai suoi occhi la scienza doveva avere per oggetto la verità.
Anche le scienze moderne hanno come oggetto la verità.
Vannini: Certo, ma non era a quel tipo di verità che la Weil faceva riferimento. Non era alle verità sperimentali che lei pensava. Piuttosto si riferiva a quella verità che l’uomo razionale cerca e non trova nella semplice correttezza o accordo con i fatti, bensì gli si impone attraverso la rivelazione. È ciò che i greci chiamavano aletheia, un concetto che apre a un modo di pensare religioso.
Zellini: Per Simone Weil, e su questo è molto esplicita, fu la religione a innescare in qualche modo i problemi della scienza e, in particolare della matematica. Le figure della geometria, i numeri, secondo lei, erano immagini divine. E di una intensità tale che richiedevano, per forza di cose, un’esattezza del pensiero. Di qui la necessità della dimostrazione rigorosa.
Non può apparire sconcertante questo accostamento?
Zellini: Non più di tanto. Perché gli storici della matematica hanno recentemente mostrato come effettivamente non solo in Grecia, ma anche in altre civiltà, possa essere stata proprio la religione a introdurre dei problemi matematici. Ad esempio, in India, la costruzione di certi altari per i rituali religiosi richiedeva competenze matematiche notevoli.
Tornerei alla questione religiosa e alla relazione che la Weil stabilì tra mondo greco e cristianesimo. Si può far partire questa relazione dal saggio bellissimo, compreso in questo libro, che lei dedica all’Iliade come poema della forza?
Vannini: Porrei la questione in questi termini: la Weil vide nei Vangeli l’espressione estrema di quello spirito greco che nell’Iliade aveva già una sua compiutezza. Il testo omerico va interpretato a partire dalla forza, cioè dalla sottomissione dell’uomo alla necessità. È la comprensione della forza che apre alla “regina delle virtù”, ovvero all’umiltà.
Insomma la forza non è solo quella che si esercita ma anche quella che si subisce?
Vannini: Meglio: che si accetta. Già nei Sermoni di Meister Eckhart troviamo declinata l’umiltà non come espressione di generica virtù o di devozione, ma come sapere. L’umiltà è allora il sapere che noi siamo quasi in tutto e per tutto soggetti alla necessità - o a ciò che oggi chiamiamo determinismo - cioè al fatto che le circostanze, l’educazione, la disciplina, in una parola l’imperio della forza, ci dominano.
Ma questa assunzione della forza in che modo si traduce nel messaggio evangelico?
Vannini: La Weil ci dice che nessun poema ha saputo, come l’Iliade, mettere sullo stesso piano nemici e amici. La stessa comprensione, lo stesso dolore, la stessa trascendenza si rivolgono tanto alla morte dell’uno quanto alla morte dell’altro. E questo senso di eguaglianza, starei per dire di compassione, lo si ritroverà pienamente nei Vangeli.
Zellini: È giusto il richiamo di Vannini all’idea di equità presente nell’Iliade. Equo ci dice la Weil è Ares, il dio della guerra, che uccide coloro che uccidono. Quindi l’Iliade non è solo il poema della forza ma anche della debolezza e del rapporto che si stabilisce tra il forte e il debole. Perché quando la forza è senza limiti, quando è esercitata in tutta la sua hybris, diviene problematica. Colui che esercita la forza senza limiti perde il pensiero e smarrisce anche il senso di giustizia ed espone se stesso a una condizione psichicamente caotica.
La forza gli si ritorce contro?
Zellini: Egli stesso finisce col diventare vittima della forza degli altri. Il gioco della guerra, nota Simone Weil, è pendolare. È un’oscillazione dove il forte non vince mai in maniera definitiva. Il simbolo di questa oscillazione è la bilancia. E viene in mente la bilancia d’oro di Zeus che pesa le sorti dei contendenti. Ma anche il numero si può definire come una bilancia, ci ricorda la Weil. Per calcolarne le cifre si usava, nel mondo arabo, una “regola dei piatti della bilancia” E quando, in ambito cristiano, incontriamo un Clemente Alessandrino che dice che Dio è bilancia, misura e numero di tutti noi, è alla Grecia che occorre risalire per spiegare l’origine di questa immagine.
Vannini: Nel mondo medievale anche la croce è vista come una bilancia.
Quello che l’Iliade rappresenta sul piano della narrazione epica, Platone lo rappresenterà sul piano filosofico. È convincente la lettura che la Weil fa dei Vangeli come diretta emanazione del pensiero platonico?
Vannini: A mio parere è una lettura persuasiva. La Weil interpreta la Repubblica, in particolare il “Mito della caverna”, e altri testi come il Convito, con la necessità che per accedere al bene e alla verità l’uomo abbia una conversione. Il “prigioniero” della caverna deve girarsi e volgersi indietro e per far questo deve essere liberato dalle catene, non si libera da solo. Per la Weil la natura umana è corrotta, cieca. I prigionieri vedono solo ombre. Solo la conversione, cioè la grazia, può portarli alla luce. Ecco dove l’idea platonica si salda con il messaggio cristiano.
In che misura la mistica, con cui la Weil interpretò Platone e predilesse una certa via del cristianesimo, diventò esperienza personale?
Vannini: Tutta la filosofia della Weil porta con sé un problema di conversione e di testimonianza. Ed è una filosofia segnata profondamente dal misticismo perché il suo pensiero è esercitato con tutta l’anima, con tutta se stessa, mettendo in discussione la sua vita. Fu una donna che provenendo dall’École Normale decise, per scelta, di fare l’operaia alla Renault, di partecipare alla Guerra di Spagna, di entrare nella Resistenza e finì con l’ammalarsi gravemente. È abbastanza raro imbattersi, con quella coerenza, in una vita rivolta alla verità.
Zellini: C’è da dire che la Weil non ebbe mai uno spiccato temperamento pratico e non riuscì poi a fare tutto quello che avrebbe voluto. Non riuscì, più di tanto, a lavorare nelle fabbriche.
Cosa ritrovava nel lavoro di fabbrica?
Zellini: A parte i temi dello sfruttamento credo che la cosa che la interessasse era ancora una volta il rapporto con la scienza. Addirittura arrivò a dire che la geometria nasce dal coraggio dell’operaio, perché è il lavoro manuale che ci mette a contatto con lo spazio e col tempo. Più tardi cambiò idea. E proiettò la scienza nel contesto religioso. Ci si potrebbe a questo punto chiedere se la verità matematica è la stessa verità religiosa o sono due cose diverse. E la risposta non sarebbe facile. Certamente no, in senso assoluto. Perché Dio non è fatto di cerchi o triangoli. D’altro canto certe forme geometriche sono in qualche modo immagini divine.
Vannini: Si potrebbe attribuire alla Weil una specie di galileismo per cui la matematica è il linguaggio privilegiato di Dio.
Zellini: Sì, ma per lei la rivoluzionaria legge di inerzia di Galileo era già un tradimento: se un mondo dove c’è un corpo che conserva indefinitamente la sua velocità e la sua direzione era equivalente a un mondo in stato di quiete, veniva a cadere la stessa nozione di equilibrio.

Avanti popolo. La parola antica e moderna che mette in crisi la democrazia

Da quello delle primarie a quello delle piazze 
da quello sovrano a quello escluso. 
Indagine su un termine politicamente ambiguo

Roberto Esposito

"La Repubblica", 21 marzo 2014

Alla base delle difficoltà a definire il popolo, c’è un’antinomia che lo caratterizza da sempre. Esso contiene al proprio interno due poli non sovrapponibili, e anzi per certi versi contrastanti - da un lato la totalità degli individui di un organismo politico e dall’altro la sua parte esclusa. Questo secondo elemento - espresso soprattutto nell’aggettivo “popolare” - non soltanto non coincide col primo, col popolo titolare della sovranità, ma ne costituisce una potenziale minaccia interna. Come è stato ricordato anche da Agamben (Che cos’è un popolo, in Mezzi senza fine, Bollati), tale dialettica non riguarda solo le nostre democrazie, ma coinvolge fin dall’origine le istituzioni occidentali.
Se in Grecia il demos indica al medesimo tempo l’insieme dei cittadini dotati di diritti politici e i ceti più bassi della scala sociale, a Roma la stessa dialettica è riconoscibile nel rapporto tra populus e plebs - dove questa è contemporaneamente parte e resto escluso del primo. Machiavelli spesso non distingue tra popolo e moltitudine, mentre Hobbes li contrappone: a differenza della moltitudine, un popolo è tale solo quando è unificato da un sovrano. Con la Rivoluzione francese il popolo, identificato con la nazione, diventa esso stesso il titolare della sovranità, così da eliminare ogni differenza tra gli individui. Ma fin da allora il meccanismo della rappresentanza parlamentare, poi diffuso in tutte le democrazie, tende a riprodurre uno scarto tra coloro che esercitano il potere e coloro che lo subiscono. Non solo capita spesso che i rappresentanti rappresentino solo i propri interessi, ma un numero crescente di cittadini ha perso ogni fiducia nelle istituzioni. Benché formalmente rappresentata dagli eletti nelle elezioni, una parte della cittadinanza si sente esclusa dal patto sociale al punto da astenersi regolarmente dal voto. Il problema che abbiamo di fronte, non soltanto in Occidente, come dimostrano le recenti rivolte nei paesi arabi e orientali, è che tutte le parti in conflitto dichiarano di rappresentare, e anzi di costituire, il popolo contro le altre. Cosicché, come è stato sostenuto sia a destra che a sinistra, a definire un popolo non sono tanto coloro che ne fanno parte, quanto quelli che ne vengono tenuti fuori. Durante il nazismo il popolo tedesco si identificava attraverso l’espulsione violenta di una sua parte infetta. Ma ciò è accaduto anche in altri momenti. Durante la guerra d’Algeria, ad esempio, i termini “popolo francese” e “popolo algerino”, pur equivalenti, assumevano un ben diverso significato a seconda di chi li pronunciava. Ancora pochi mesi fa, d’altra parte, le folle di piazza Tahir dichiaravano di essere il popolo egiziano contro quello legittimamente rappresentato dal governo eletto. E che dire delle moltitudini che dovunque, anche contro i propri rappresentanti, reclamano accesso ai beni, al lavoro, alle cure mediche? Dove sta il popolo, in parlamento o nelle piazze, nelle istituzioni o nei cortei? Secondo Badiou quella di popolo è una idea dinamica: la nazione che esso incarna è sempre in qualche modo da costruire, mai del tutto realizzata dallo Stato presente.
Credo si debba prendere atto del fatto che la faglia da sempre aperta nella storia dei popoli non è del tutto eliminabile - se non in un futuro remoto i cui contorni ancora non si profilano. Ma che è possibile, e necessario, ridurla al massimo. A tale compito è ordinata la politica. Essa, come la democrazia, non può coincidere con una pura tecnica di governo. Se così fosse, la sovranità popolare sarebbe del tutto risolta nella rappresentanza degli eletti, così da escludere ogni altra forma di espressione politica - partiti, sindacati, movimenti spontanei. Ma così non è. Il potere costituito non risolve mai interamente in sé quello costituente, come il popolo presente non cancella mai completamente quello futuro.
Anche la celebre espressione “Noi, il popolo”, che inaugura la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, ha una portata performativa. Contiene assai più di una mera descrizione. È insieme il riconoscimento di quanto esiste, ma anche una promessa di quanto può darsi. Come scrive Judith Butler nel saggio più intenso della raccolta, «“Noi il popolo” non presuppone né fabbrica un’unità, ma fonda o istituisce una serie di domande sulla natura del popolo e su ciò che esso vuole essere». Il trasferimento della sovranità popolare ai rappresentanti non è mai pieno e definitivo. Rimane sempre un certo numero di donne e di uomini che preme ai margini di un popolo per prenderne parte in senso effettivo. Si pensi non solo agli immigrati cui non è ancora stata riconosciuta cittadinanza, ma anche agli emarginati, ai derelitti, ai disperati che riempiono sempre più le nostre strade.
Mai come oggi, quando si accresce in maniera insopportabile la forbice tra i più ricchi dei ricchi e più poveri dei poveri, il popolo appare separato da se stesso. L’effetto più profondo della crisi sta proprio nell’allargare la frattura tra i “due” popoli. Eppure, se c’è qualcosa che può ridare sostanza a una politica in drammatico arretramento, è proprio l’esigenza di ricucire questa ferita. Come la parte esclusa potrà farsi popolo anche nell’altro significato del termine? Perché ciò sia possibile occorre una duplice condizione. Da un lato che chi è dentro le istituzioni volga davvero lo sguardo a chi è fuori. Dall’altro che chi è fuori, abbandonando forme di proteste inefficaci, entri nelle istituzioni per cambiarle. Non è contrapponendo i due popoli che si sana la malattia della democrazia. Ma creando le condizioni di un nuovo patto sociale che rompa dovunque sia possibile le barriere che ancora li dividono.
Il popolo delle primarie, il popolo della sinistra, il popolo italiano, il popolo delle piazze in rivolta. Difficilmente un termine politico è suscettibile di connotazioni così diverse. Già Pierre Rosanvallon, del resto, in un saggio sulle forme di rappresentanza democratica, aveva dichiarato il popolo “introvabile”. Né il popolo-opinione né il popolo-nazione né il popolo-emozione riescono a fornire risposte adeguate al malessere che sale dal fondo oscuro delle nostre democrazie. Ma è un punto cieco che ci riguarda tutti. Da qualche tempo immersi in una riflessione critica sui caratteri del populismo, è come se avessimo dimenticato il concetto da cui esso proviene, portandone dentro tutte le contraddizioni. E dunque, Che cos’è un popolo?
È il titolo di un pamphlet appena tradotto da Derive Approdi, firmato da sei rinomati intellettuali come Badiou, Bourdieu, Butler, Didi-Huberman, Khiari e Rancière.

venerdì 21 marzo 2014

Il rapporto Nielsen sull’Italia dei libri


Crollano i lettori laureati

Raffaella De Santis

"La Repubblica", 21 marzo 2014

«Siamo di fronte alla più forte crisi del mercato del libro dalla Seconda guerra mondiale». È la fotografia di un’emergenza senza pari quella denunciata ieri da Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il libro e la lettura, durante la presentazione a Roma di L’Italia dei Libri 2011-2013, l’ultimo rapporto Nielsen sull’acquisto e la lettura in Italia. I dati, ricavati su un campione di 9mila famiglie e organizzati per trimestri nell’arco di tre anni, mostrano una curva di discesa costante: dal 2011 al 2013 la percentuale dei lettori è scesa dal 49 al 43% della popolazione (da 25,3 a 22,4 milioni di persone) e quella degli acquirenti dal 44 al 37% (da 22,8 a 19,5 milioni). Molto meno della metà della popolazione italiana legge e compra libri. L’Italia si presenta inoltre come un paese spaccato a metà, dove i lettori sono perlopiù concentrati tra Emilia e Nord-Est. Le donne leggono più degli uomini (il 48% contro il 38%) e i giovani tra i 14 e i 19 anni costituiscono il 60% dei lettori. Ma l’elemento più interessante di questa ricerca disaggregata per fasce d’età, livelli d’istruzione e classi sociali, è che il crollo ha riguardato soprattutto persone tra i 35 e i 44 anni, laureate e di sesso maschile, la fascia più colpita dalla crisi economica. I grafici regalano un’altra sorpresa: sono gli over 65 la vera roccaforte della lettura, gli unici ad aver speso di più in libri negli ultimi anni.
Che fare? Per Lidia Ravera, assessore alla Cultura della Regione Lazio, la crisi è però più profonda: «Il fatto è che la lettura non è più considerata come un fattore di miglioramento. L’impoverimento complessivo della società va oltre la crisi del mercato». A reggere le fondamenta di questo palazzo pericolante sono i lettori “forti”, coloro che leggono almeno un libro al mese: sono il 4% dei lettori, ma da soli comprano il 36% di tutte le copie vendute (112 milioni nel 2013). Unica nota positiva gli ebook, con un incremento degli acquirenti del 14% e dei lettori del 17%. Aspettiamo i dati del primo triennio 2014 per capire se sperare in un’inversione di tendenza.

Lettori, una generazione persa
La speranza viene dagli ebook

"Corriere della Sera", 21 marzo 2014

«Ci siamo persi una generazione». Era questo lo stato d’animo, nell’austera sala della Biblioteca Angelica di Roma, che ha accompagnato la presentazione del rapporto sull’acquisto e la lettura di libri in Italia, commissionato dal Centro per il Libro e la Lettura all’agenzia di rilevamento Nielsen. Si legge sempre meno, in Italia (dal 49% al 43% della popolazione), si compra pochissimo (dal 44% al 37%). Sono dati riferiti agli ultimi tre anni, anzi per la precisione, dall’ultimo trimestre 2010 all’ultimo del 2013. Lo ha sottolineato in apertura proprio Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il Libro e la Lettura: «È la prima volta che una ricerca consente di vedere le immagini in movimento del triennio 2011-2012-2013. E di cogliere così non solo le dimensioni, ma anche la dinamica della più drammatica crisi del libro dalla fine della Seconda guerra mondiale». 
La ricerca Nielsen si basa sulla rilevazione mensile su un campione selezionato di 9 mila famiglie: risultati che hanno fatto parlare Rossana Rummo, direttore Generale per le Biblioteche del Mibact, di una vera e propria «emergenza». Siamo un Paese in cui solo il 37% della popolazione (19,5 milioni) ha acquistato almeno un libro nel 2013 (112 milioni le copie vendute). Dove le donne leggono molto più degli uomini (48% contro il 38%), la fascia di età più forte è quella dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni (60%), ma sono gli over 65 a fare argine alla frana, essendo l’unica fascia in controtendenza. 
«Siamo partiti tre anni fa — ha detto Gian Arturo Ferrari — con i lettori che sfioravano la metà della popolazione, adesso siamo ridotti a poco più di un terzo». Confermata la distanza che separa il Nord dal meridione, dove più forte è la sofferenza, la novità riguarda il Centro Italia dove, Emilia esclusa, si registra una flessione (dal 52% al 42%). Crolla la spesa media (€ 57,4) per un valore di 1,1 miliardi, scesa del 14%. Ma è soprattutto preoccupante la concentrazione di questo dato: il 4% dei lettori acquista il 37% dei libri. «Purtroppo — ha aggiunto Ferrari — la favola del libro come bene anticiclico che si continuava a vendere anche nei momenti di crisi, è finita». Bene il settore degli ebook, in crescita (+14% nell’ultimo anno) ma tuttora con numeri marginali in un mercato che si conferma conservatore, qualche indicazione arriva dai canali di vendita: cedono le librerie di catena, in modo più marcato rispetto alle librerie tradizionali (che mostrano una inaspettata resistenza), cresce meno del previsto la vendita via Internet, reggono le edicole. 
Ma il dato che ha colpito di più è stato il crollo nel triennio dei lettori maschi tra i 35 e i 44 anni: meno 17% (dal 57 al 40), che corrisponde alla flessione dei laureati (dal 75% al 57%). Sembra quasi lo specchio di una generazione «perduta» che non trova lavoro adeguato agli studi. «Vuol dire che la cultura non è più considerata un fattore di miglioramento della propria condizione sociale — ha detto Lidia Ravera, assessore alla Cultura del Lazio — vuol dire che è crollata la fiducia nel futuro». 

Io e Jane. L’ultima seduzione della signorina Eyre


Quali sono gli ingredienti che fanno del romanzo di Charlotte Brontë 
uno dei classici più amati?
Mentre esce una nuova traduzione, la risposta di Tracy Chevalier

Tracy Chevalier

"La Repubblica", 21 marzo 2014


Per quale motivo Jane Eyre è un classico? Perché quest’opera è tanto amata e costituisce uno dei tratti distintivi del panorama letterario britannico, accanto a Grandi speranze di Dickens e Orgoglio e pregiudizio della Austen? Di fatto, il romanzo scritto da Charlotte Brontë nel diciannovesimo secolo si mantiene costantemente ai vertici delle classifiche di vendita. Non è mai andato fuori catalogo e vanta una trentina di adattamenti cinematografici e televisivi, oltre ad aver ispirato pièce teatrali, opere, musical e balletti. Viene studiato a scuola e non vi è chi non sia in grado di citare la sua frase più celebre (l’attacco dell’ultimo capitolo, ma non andate a leggerlo, se non volete scoprire “come va a finire”). Cos’ha di tanto attraente la storia di una povera orfanella che fa innamorare il suo sventurato datore di lavoro?
Che la storia sia avvincente è innegabile. Una fanciulla umile e inerme, un uomo burbero, se non crudele, una passione inaspettata, sullo sfondo di una grande casa che nasconde un segreto scabroso: sono questi gli ingredienti che incitano il lettore a voltare pagina pungolandone la curiosità. La prosa è nitida e denota un buon equilibrio fra lo sviluppo della trama e le parti descrittive che non sommergono il lettore del Ventunesimo secolo, avvezzo a un ritmo più serrato. Anche il modo in cui Charlotte Brontë rappresenta i conflitti psicologici ci sorprende per la sua modernità: comprendiamo fino in fondo i pensieri e i sentimenti della protagonista, i suoi affanni diventano i nostri. Non ci appare una figura antiquata o estranea, bensì familiare. Tuttavia il romanzo non è privo di smagliature. La vicenda stenta ad avviarsi indugiando troppo a lungo, per gli odierni standard narrativi, sull’infanzia di Jane – dapprima a casa della zia e poi all’orfanotrofio dove è sempre affamata. Il protagonista maschile, Edward Rochester, proprietario di Thornfield Hall, la casa dove Jane viene assunta come istitutrice, appare solo a pagina 170. Il colpo di scena che avviene dopo due terzi della trama è anticipato fin troppo scopertamente per lo smaliziato lettore contemporaneo. E l’ultima parte del romanzo prende una piega un po’ bizzarra, con Jane contornata da nuovi personaggi che non abbiamo il tempo di assimilare.
Ma sono difetti veniali che scompaiono dinanzi al sontuoso ritratto della protagonista, Jane Eyre, alla maestria con cui ci viene narrata la sua storia d’amore con il signor Rochester. Ecco due figure che sembrano fatte apposta per dare speranza a chi non si sente perfetto, ovvero a tutti noi. Jane è una ragazza come tante, che ha di fronte una vita grama e faticosa. Rochester è un uomo volubile e scontroso che, in gioventù, ha compiuto un madornale errore di valutazione. Lei è povera, lui agiato. Lei non ha nessuno al mondo, lui è a capo di una famiglia numerosa. In una società rigidamente divisa in classi, non dovrebbero stare insieme, e ne sono entrambi consapevoli. Eppure, s’innamorano e vivono una storia meravigliosa. Sarebbe stato comprensibile se, durante il loro primo incontro, Jane si fosse lasciata intimidire dalla gelida arroganza del signor Rochester; in tal caso non sarebbe nato alcun legame fra loro, al di là di quello fra un padrone distaccato e una dipendente apprensiva. Ma Jane non è in soggezione, non sembra intimorita. Reagisce con calma, rimane padrona di sé. Anzi, lo stuzzica, si fa civettuola. (Per un ipotetico studio del flirt in letteratura, Orgoglio e pregiudizio mostra l’approccio faceto, Jane Eyre quello meditato). Il corteggiamento funziona solo se i partecipanti si pongono sullo stesso piano. È la stessa Jane a spiegare che se il signor Rochester fosse giovane e bello non oserebbe mettersi a conversare con lui. Ma l’uomo dimostra almeno quindici anni più di lei e non è di certo avvenente: ha «tratti austeri e sopracciglia folte», lo sguardo torvo e un parlare aspro. Ha perfino la sfacciataggine di chiederle se lo trova bello e la risposta schietta di lei lo lascia di stucco. Conquistandolo.
È questa la vera novità di Jane Eyre, ovvero che una giovane donna senza famiglia, né patrimonio alcuno, possa, in una società classista, considerarsi allo stesso livello di un possidente. Ed è ancora più straordinario che il signor Rochester condivida la sua valutazione. Forse è per questo che i lettori amano questo romanzo: ci rammenta che non siamo poi così condizionati dall’estrazione sociale. La personalità e la forza di carattere giocano un ruolo importante nei nostri destini. Ed è sorprendente che un’idea del genere provenga da una donna con un background decisamente conservatore. Figlia di un pastore protestante, Charlotte nacque nel 1816 e crebbe con il fratello e quattro sorelle a Haworth, un villaggio nel nord dell’Inghilterra. Aveva cinque anni quando perse la madre e i bambini furono accuditi da una zia. Le due sorelle maggiori morirono di tubercolosi, la malattia che si sarebbe rivelata fatale per tutti i Brontë. I sopravvissuti, Anne, Emily, Charlotte e Branwell (l’unico maschio) giocavano insieme e si divertivano a scrivere novelle, commedie e poesie. In quanto figli di un chierico, erano istruiti ma poveri, appartenevano alla classe media dal punto di vista intellettuale, ma le ragazze non avevano i mezzi per trovare un buon partito e Branwell non poteva affermarsi nel commercio o nella libera professione. Questo sfondo è significativo, perché indica come Charlotte Brontë avesse sperimentato, in prima persona, il disagio sociale che Jane Eyre avverte così acutamente. Lavorò lei stessa come istitutrice [...].
La figura dell’istitutrice, ricca di erudizione ma non di quattrini, viveva a cavallo fra due classi sociali e aveva un che di inquietante agli occhi di molti, perché, ponendosi al di fuori della gerarchia tradizionale, pareva mettere in discussione la struttura stessa su cui si fondava la società. La gente era affezionata a regole ed etichette e non voleva che fossero rimescolate. Di conseguenza, le istitutrici erano spesso oggetto di scherno, perché in ultima analisi non appartenevano né alle famiglie, né alla servitù. In Jane Eyre, Blanche Ingram, la ricca e seducente rivale della protagonista, si beffa apertamente della categoria e arriva a dire che Jane «non sembra abbastanza sveglia» per giocare alle sciarade con il resto della compagnia. Jane Eyre, in realtà, è sveglia, eccome. Non solo: è consapevole di sé. A dieci anni, l’arcigna zia per punire la sua caparbietà, l’aveva fatta segregare nella “camera rossa”, dove qualche tempo prima era morto l’amato zio di Jane. Chiusa nella stanza, la bambina aveva avuto quello che oggi definiremmo un “attacco di panico”, mettendosi a gridare come un’ossessa e perdendo conoscenza, per lo sgomento della zia. Da adulta, Jane torna con la memoria a quel momento e ne coglie a pieno l’importanza, senza l’aiuto dell’analisi freudiana, o delle terapie psicologiche di cui disponiamo oggi: capisce che in tale occasione la sua vera natura si era manifestata in assoluta libertà. L’episodio della “camera rossa” serve così a rammentarle, che a prescindere da come la giudicano gli altri, è una donna di valore e sostanza, una donna che ha qualcosa da dire. La forte personalità della protagonista è da sempre una delle ragioni per cui il romanzo affascina i lettori. [...] Charlotte pubblicò Jane Eyre sotto lo pseudonimo, vagamente androgino, di Currer Bell, forse perché sperava così di incrementare le vendite, in un’epoca in cui le scrittrici godevano di una stima assai minore dei colleghi di sesso maschile. Tuttavia, la perspicacia con cui viene descritta la protagonista indusse più di un lettore a supporre che la mano fosse quella di una donna. Solo il favore incontrato dal romanzo convinse la Brontë a svelare la propria identità: dietro il nome d’arte Currer Bell si nascondeva la timida figlia di un parroco dello Yorkshire.
Prima che la tubercolosi ponesse termine precocemente alla sua vita, nel 1854, Charlotte scrisse altri tre romanzi – Shirley, Villette e The Professor, nessuno dei quali, peraltro, eguagliò il successo di Jane Eyre. Perché è Jane a sedurci: un personaggio potente che, grazie alle tempra morale e all’autostima, riesce a superare le avversità e restare al fianco dell’uomo che ama. I lettori non possono far altro che gioire insieme a lei.
(Traduzione di Massimo Ortelio)

Il conte sconfitto, decapitato per amore


Storia di Elisabetta I e Robert Devereux, quando la ragion di Stato batte i sentimenti

Pietro Citati

"Corriere della Sera", 21 marzo 2014

Nel 1587 Robert Devereux, conte di Essex, non aveva ancora diciannove anni. Era vivace, intenso, furioso; e poi cadeva preda di profondi eccessi di malinconia, che lo tenevano a letto per giorni interi. Passava da un estremo all’altro: amava ed odiava; era sia un servo devoto sia un feroce ribelle, spinto qua e là dal vento mutevole delle passioni e del caso. Era bello e seducente, schietto, elegante: aveva una vivacità da ragazzo, parole e sguardi di adorazione, il corpo slanciato, capelli di un biondo ramato, un capo che si inchinava dolcemente con un sorriso. Affascinò la regina, Elisabetta d’Inghilterra, che aveva cinquantatré anni e che si innamorò di lui. 
Elisabetta era una vecchia, tremenda sovrana in abiti fantastici, ancora alta ma ormai curva: aveva i capelli tinti di rosso sul pallido viso, denti lunghi che si stavano annerendo, il naso adunco e pronunciato, e occhi infossati e pronunciati nello stesso tempo – occhi feroci, nelle cui profondità di un azzurro cupo si nascondeva qualcosa di maniacale. Era un intricato groviglio di contraddizioni: ingenua e ipocrita, delicata e brutale, religiosa e lussuriosa, coltissima e rozza, lineare e sinuosa, assurda e ostinata, dubbiosa e incerta quando avrebbe dovuto essere decisa. Sapeva giocare con la vita alla pari: lottando, ridendo, ammirandola, osservando il dramma, gustando la stranezza delle circostanze, i rovesci improvvisi della fortuna, le continue sorprese. «Per molto variare la natura è bella», era uno dei suoi aforismi preferiti. 
Negli anni della maturità, pretendeva che i giovani che la circondavano esprimessero i colori di una passione romantica: gli affari di stato venivano condotti in mezzo a un fandango di sospiri, estasi e proteste. Elisabetta assorbiva avidamente l’adorazione raffinata dei suoi amanti e la trasformava in un affare redditizio. Spesso litigava con Essex, che scompariva dalla corte improvvisamente imbronciato, senza una parola di preavviso. Allora, il vuoto scendeva su Elisabetta, incapace di nascondere la propria agitazione. Poi, con altrettanta rapidità, il conte tornava a corte, per essere ricoperto da rimproveri pieni di sdegno e da sonore bestemmie. Nuovi, brevi litigi e deliziose riconciliazioni. Erano ore di felicità e di pace, e fra i gioielli e i tendaggi dorati la sovrana sembrava rifulgere di una gloria quasi giovanile. 
                                                                                
* * * 
Nel 1599, incaricato di domare la ribellione dell’Irlanda, il conte di Essex svelò la sua incapacità di condottiero. Era disperato, e scrisse a Elisabetta una lettera meravigliosa. «Da una mente che trae piacere dalla sofferenza, da uno spirito devastato da pene, preoccupazioni e dispiaceri, da un cuore fatto a pezzi dalla passione, da un uomo che odia se stesso e tutte le cose che lo mantengono in vita, qual servizio può attendersi ancora Vostra Maestà?». Essex lasciò l’Irlanda. Arrivò nelle stanze di Elisabetta sporco e in disordine, vestito in modo trascurato e con gli stivali da cavallerizzo. Quando spalancò la porta, là, a un passo da lui, c’era Elisabetta tra le sue dame: in vestaglia, senza trucco, con ciocche di capelli grigi che le ricadevano sul viso, e gli occhi più che mai sporgenti. Elisabetta fu sorpresa e felice. Poi ebbe paura. 
Alle undici di sera il conte di Essex ricevette un messaggio da Elisabetta: gli veniva ordinato di non lasciare le sue stanze. Fu condotto prigioniero a Yorkhouse, sotto la custodia di lord Egerton. La sua prigione durò un anno, durante il quale nessun intimo ebbe il permesso di vederlo; e poi venne confinato in casa propria, con la medesima rigidezza. Il 5 luglio 1600 fu processato. Alla fine Essex lesse ad alta voce una umiliante confessione di inadempienza. Scrisse alla regina: «Ora che ho ascoltato la voce della giustizia legale, desidero umilmente udire la vostra vera e naturale voce di grazia». Passava dal dolore e dal pentimento all’ira e alla ribellione: mentre i suoi familiari e seguaci macchinavano progetti folli; assalire la corte, sollevare Londra, fuggire nel Galles, dove alzare la bandiera della rivolta. 
La regina avrebbe potuto perdonare Essex. Ma l’ira, che da tanto e tanto tempo covava dentro di lei, divampò trionfalmente. La decapitazione fu fissata per il 25 febbraio 1601, malgrado qualche impercettibile tentennamento. Il conte, che non aveva ancora compiuto trentatré anni, espresse solo un desiderio: non essere ucciso in pubblico. Alto, magnifico, a capo scoperto, con i capelli biondi sulle spalle, stette in piedi per l’ultima volta davanti al mondo. Poi si inginocchiò. Il boia alzò la scure e la tirò giù di schianto. Il corpo del condannato sussultò, ma il boia dovette alzare e abbassare la scure altre due volte, prima che la testa fosse mozzata e il sangue fuoriuscisse. Allora il boia si chinò, afferrò la testa per i capelli, gridando: «Dio salvi la regina». 
Dopo la morte di Essex il sistema nervoso di Elisabetta cominciò a cedere. Si fece più rude e capricciosa che mai. Passava le giornate in assoluto silenzio, in preda alla malinconia. Non toccava quasi cibo: si nutriva soltanto di brodo di cicoria e di crostini. Teneva sempre accanto a sé una spada, che impugnava e infilzava con impeto negli arazzi, mentre camminava avanti e indietro in preda a una delle sue crisi di nervi. Talvolta si chiudeva in una camera oscura, dove si abbandonava a scoppi di pianto. Il grande regno durò ancora due anni. La mattina del 24 marzo 1603 Elisabetta si addormentò, sfuggendo per l’ultima volta e per sempre all’assedio dei suoi cortigiani. 
* * * 
Ho cercato di riassumere decorosamente il bellissimo libro di Lytton Strachey, Elisabetta e il conte di Essex, pubblicato nel 1928 (Castelvecchi, traduzione di Maria Teresa Calboli). Strachey aveva a disposizione un materiale vastissimo: storici, diaristi, epistolari, documenti segreti, l’alone dei versi di Shakespeare, il soccorso della sua intelligenza modernissima. Ma dissimulò la propria cultura: i personaggi principali, i bellissimi personaggi minori, tra i quali vorrei ricordare almeno Francis Bacon e Filippo II di Spagna, i grandi avvenimenti del tempo, assunsero la leggerezza di un aereo e squisito ricamo, abbandonando il terreno grave della storia per entrare nel terreno senza tempo della letteratura. Tutto ciò che era accaduto nella realtà e nei cuori alla fine del sedicesimo secolo, lo vediamo, come vediamo tutto ciò che quindici secoli prima aveva affascinato Plutarco. Lytton Strachey approfittò persino delle difficoltà del suo compito: quella materia sembrava remota e incomprensibile allo spirito di un uomo del ventesimo secolo; e questo tocco di distanza rese più avventuroso, preciso e ironico il suo racconto. 
Qualsiasi cosa abbia scritto Virginia Woolf sui libri che leggeva, mi sembra straordinaria. Per una volta, devo fare un’eccezione. Virginia Woolf scrisse che Elisabetta e il conte di Essex era un «fiasco»: un libro fiacco e superficiale, dove tutto era inventato. In realtà il libro di Strachey, in ogni pagina, descriva un evento, un sentimento o un vestito, ha il sapore stesso della verità. Tutto ciò che racconta è accaduto nello specchio infallibile della letteratura. Credo che Virginia Woolf provasse un’avversione di principio verso l’arte della biografia. Ma non aveva nessuna importanza che i libri di André Maurois e di Emil Ludwig, che uscirono negli stessi anni, fossero mediocri e volgari. I libri di Lytton Strachey avevano un’origine antichissima e sublime: le vite di Plutarco, che posseggono una profondità, una ricchezza, una fantasia, un colore come le massime pagine di prosa della letteratura greca classica.

domenica 16 marzo 2014

Il vecchio Leopardi si vergogna del giovane autore dell’Infinito


Walter Siti

"La Repubblica", 16 marzo 2014

Studiandola a scuola spesso ci si dimentica che è la poesia di un ragazzo appena ventunenne; precoce sì, ma fino a quel momento aveva scritto (da tenere per il futuro) solo due enfatiche canzoni patriottiche e delle terzine d’amore inventate su una parente venuta in visita. Qui di colpo cambia tutto, nasce una musica. Lo chiama “Idillio primo”, pensando agli idilli di Mosco (un poeta alessandrino della Magna Grecia) che aveva tradotto; per esempio l’idillio quinto («in selva oscura/ seder m’è grato, mentre canta un pino/ al soffiar di gran vento»). Vuole scrivere una cosa breve, intima, di contatto con la natura; ha il mito degli antichi greci e della loro “ingenuità”, come aveva letto in Schiller. In un suo scartafaccio di appunti aveva notato, per lodare i classici rispetto ai romantici, che gli antichi descrivono la natura con spontaneità, semplicemente indicandone gli elementi («quell’albero, quell’edifizio, quella selva, quel monte») e grazie a una specie di stupore infantile «ci rapiscono, ci sublimano e ci immergono in un mare di dolcezza». Anche lui vuol fare come i greci, ma da inesperto esagera: a forza di indicare ci mette otto aggettivi e pronomi dimostrativi («questo», «quello») in quindici versi. Quasi senza volere crea qualcosa di inedito nella poesia italiana: invece di raccontarci un’esperienza già fatta, o abituale, ci racconta un’emozione intellettuale e psichica che lui stesso sta scoprendo in quel momento; qui, adesso, mentre sto seduto e guardo, e immagino, tanto che, e poi succede un’altra cosa, e allora io, e così… Ci porta dentro, nella lirica come istante.
La cornice è chiara, il primo e l’ultimo verso sono endecasillabi cristallini, tant’è vero che tutti li abbiamo nella memoria; ma all’interno del testo il ritmo procede per onde successive, la sintassi segue l’emozione della scoperta e travolge la metrica. Gli endecasillabi sciolti non permettono alla voce di fermarsi, si inarcano gli uni sugli altri; le inarcature più forti (interminati/ spazi; sovrumani/ silenzi; quello/infinito; questa/immensità) si trovano negli snodi-chiave del senso, dove si parla dell’infinito.
Il ventunenne è sul Monte Tabor, una collina “erma”, cioè solitaria, non lontano dal suo palazzo di Recanati; forse ciò che gli toglie la visuale non è nemmeno una siepe ma un fittume di sterpi (in una prima versione aveva scritto “questo roveto”, poi corretto nobilitandolo in “questo lauro”; “siepe” è un compromesso ragionevole). Scopre che gli ostacoli favoriscono l’immaginazione e che il troppo immaginato fa paura; in un altro appunto dell’epoca racconta che una voce lo chiama a cena mentre fantastica sull’infinito e che di colpo «mi parve un niente la vita nostra… e tutta la storia». Il ragazzo è di nervi fragili, facile agli estremismi; basta uno stormire di foglie e gli salta addosso tutta la sproporzione tra il velleitarismo dei sogni e la pochezza del quotidiano, tra il presente meschino e l’eternità. Ma invece di lottare si abbandona, forse ricorda il quaresimale di Paolo Segneri, un predicatore seicentesco che ha studiato («assorbito nel vasto oceano di una grandezza infinita, il mio spirito amerà di andare eternamente annegandosi in un giocondo naufragio di contentezza»). Solo che il mare in cui il ragazzo si perde non può essere Dio, in cui non crede più – può essere soltanto il mare filosofico dell’assenza di limiti; che è anche, segretamente, il mare dolce della bellezza ottenuta col canto. (Ma “colle” e “mare”, che inquadrano il testo, sono anche i principali elementi del paesaggio marchigiano).
L’anno dopo su queste emozioni ingenue comincerà a riflettere; non accontentandosi di annegare nell’infinito, vorrà possederlo. «Sempre adorata mia solinga sponda»: tenta di riciclare l’incipit nell’abbozzo di una poesia su Saffo, ma già la poetessa (fisicamente brutta) si lamenta che la siepe la deruba del panorama che concede ai belli. Il desiderio è il demone che porta all’infelicità. Tra i 22 e i 26 anni Leopardi, in un violento processo di razionalizzazione, mette a punto un sistema di logica spietata: gli uomini desiderano l’infinito ma nell’universo l’infinito non esiste, dunque gli uomini sono destinati a non soddisfare mai il proprio desiderio. Se non auto-imbrogliandosi, contrabbandando l’indefinito per infinito. “Dolci” e “cari” saranno ormai, nella sua poesia adulta, solo gli “inganni”. Quando, nel 1835, proverà a ordinare il suo libro di poesie come se fosse un romanzo, dovrebbe mettere cronologicamente L’infinito al primo posto tra gli idilli, subito dopo le canzoni; invece si inventa un falso d’autore – finge che il Passero solitario, un testo del 1832 o 1833, sia invece stato scritto a vent’anni. La situazione è più o meno la stessa, anche lì il ragazzo si apparta «romito e strano» verso la campagna; ma non ignora gli altri ragazzi che intanto si guardano a vicenda. L’infinito non regge alla prova, lo sguardo solitario perso all’orizzonte sarà solo fonte di rimpianto nella vecchiaia. Decidendo di farlo precedere dal Passero nella raccolta, è come se Leopardi si vergognasse un po’ della sua poesia più famosa, dello “spaurarsi” e del naufragare. È come se ci dicesse “così ingenuo lo sono rimasto per poco, il canto già funzionava ma il pensiero no”.