venerdì 10 ottobre 2014

“Il Califfo distrugge anche la storia. Noi archeologi finiti in prima linea”


Giorgio Buccellati, professore all’Università di California

Lo scopritore di Urkesh, in Siria: le maestranze difendono un patrimonio unico

Intervista di Domenico Quirico

"La Stampa", 10 ottobre 2014

Nella terra tra i due fiumi dove la Storia umana e le città sono nate, avanzano fanatismi che impugnano il kalashnikov e il piccone, uccidono uomini e azzerano la storia a una data simbolo. Urkesh, in Siria, è uno di questi luoghi, dal mistero di millenni da cui sono state staccati e cavati alla luce, questi ruderi traggono, come un figlio dal grembo materno, l’indole la grana la forza il colore. Vedi coloro che li hanno tagliati, trasportati, eretti, accostati, i colpi e i solchi dello scalpello, le tacche per pareggiarli, il segreto e la vita di chi vi ha camminato sopra, vi ha trovato rifugio, si è appoggiato, seduto, genuflesso per secoli fino a lisciarli, scavarli, arrotondarli. Da trenta anni Giorgio Buccellati, uno dei grandi archeologi del nostro tempo, professore all’Università di California, scava in quel mistero millenario oggi in pericolo. 



Professore, Urkesh è minacciata dall’avanzata del califfato in Siria? 
«È a circa 60 chilometri dalla zona contestata, ci sono state delle battaglie non con l’Isis ma con Al Qaeda, Jabat al Nusra ma non nel sito, in zone vicine. Urkesh è ancora immune dalla guerra in sé per sé». 
Ma per la guerra civile gli scavi sono diventati impossibili…. 
«L’abbiamo visitato l’ultima volta nel dicembre 2011, solo io e mia moglie, ma non per scavare, per organizzare le nostre maestranze locali. Ci sono attività che stiamo portando avanti tuttora, e siamo l’unico progetto archeologico straniero attivo in Siria; non come scavi, evidentemente, ma come attività collaterali, la conservazione dei muri, uno studio della ceramica… Abbiamo lanciato l’idea di un parco archeologico grazie a cui la popolazione avrebbe potuto sviluppare le sue attività, che avrebbero garantito una certa sostenibilità. Le donne hanno preso questo progetto in mano e una trentina producono vestiti, bambole… in numero limitato certo, ma riusciamo ancora a farle venire in Italia. Quando abbiamo visitato il sito nel 2011 abbiamo messo in piedi le procedure per continuare a dialogare con loro. Lo facciamo regolarmente, riceviamo una grande quantità di foto che ci mandano via Internet quasi settimanalmente e rapporti molto dettagliati. Uno dei problemi che nascono dalla guerra è l’abbandono dei siti, non essendo stata prevista la possibilità di un’assenza lunga, sono abbandonati alle intemperie e questo provoca altrettanti danni della guerra». 
E poi ci sono i saccheggi. Ho assistito in un’altra area della Siria alla depredazione di un luogo di scavo abbandonato …. 
«È vero. Quello che è importante è l’educazione come prevenzione: spiegare alla gente il perché quelle cose sono importanti non solo da un punto di vista commerciale certo, ma anche per la loro identità storica. E questo è difficile con civiltà che risalgono a 5000 anni fa, soprattutto dove, come a Urkesh, la maggioranza locale che è curda voleva identificarsi con questa città che non è curda, ma non è neppure armena, araba, assira, è pre tutto quanto… quindi dobbiamo spiegare: dovete identificarvi ma non per i motivi che pensate ma perché siete i guardiani del territorio. E ci siamo riusciti perché hanno un grande senso di orgoglio nel passato». 
Non ha l’impressione che il mio mestiere che è di raccontare la storia quotidiana e il suo, che è raccontare la storia di quattromila anni fa, stiano diventando in alcuni luoghi del mondo impraticabili, vietati ? 
«È vero. A parte i problemi di sicurezza c’è anche un problema ermeneutico, capire qual è la rilevanza del passato… È rilevante perché noi crediamo nei valori, e credendo nei valori ho trovato il valore di raccontare la storia del passato anche a chi non ha nessun interesse…». 
L’archeologia in fondo è un prodotto della nostra cultura come la democrazia o il liberalismo, è una invenzione della civiltà occidentale, e ciò in alcuni luoghi del mondo oggi è una colpa… 
«Sì, soprattutto se viene impostata in una chiave colonialista… l’archeologia è una cosa occidentale ma ha un livello più profondo in cui ci riconosciamo tutti come esseri umani. La parola che mi piace usare a questo riguardo è la parola maieutica: c’è una volontà di riconoscersi nel passato in tutti e indicare come questo possa venire se crediamo noi nei valori che vanno al di là degli interessi specifici che so, la pubblicazione anche soltanto per uno studioso. Sì se riusciamo a identificarci con i valori lo trasmettiamo, questo è universale». 
Oggi in alcune zone del mondo la memoria viene selezionata, il passato si arresta a una certa data, e ciò che è avvenuto prima e le sue testimonianze è nemico, da distruggere… e penso al califfato, a Timbuctu, ai taleban di ogni latitudine, all’Arabia Saudita. 
«I taleban li inseriamo nella categoria del vandalismo, l’Arabia Saudita lo consideriamo uno Stato normale e invece non lo è. Se c’è qualcuno che ferma la storia al 600 dopo Cristo è proprio l’Arabia Saudita… E la Turchia dove ho scavato per un paio d’anni in parte è così. A un certo punto è anche responsabilità nostra, di intellettuali, siamo venuti meno alla responsabilità di educare: nel senso più profondo del termine, non colonialista o di orgoglio accademico, ma nel senso di riconoscere i valori profondi dell’umanità e che si trovano già nel paleolitico». 
Avanza un fanatismo liquidatorio, spariscono nel Vicino Oriente interi capitoli di storia come quello cristiano che ha preceduto l’invasione araba, diventa necessaria una archeologia del presente… 
«È importante di nuovo, una lezione che ho imparato in America, la responsabilità sociale dell’intellettuale, non nel senso di tirar acqua al proprio mulino ma nel senso di condividere valori. In un momento tremendo come questo in Siria siamo soddisfatti di essere un po’ la prova del rispettare la dignità estrema di tutti. Quando scavavamo organizzavamo ogni settimana una conferenza con tutti gli operai, mezz’ora circa, per spiegare loro perché scavavamo. Avevano 200, 300 operai di sfondo sociale e di istruzione diversa, ed è sempre stata una grande soddisfazione vedere l’interesse che questo generava e come tornassero con le loro famiglie il venerdì per mostrare lo scavo». 
Il califfato di Mosul vende i reperti iracheni per finanziare la guerra santa… 
«Nel momento in cui riescono a vendere il petrolio che non è certo una cosa molto nascosta come è possibile prevenire la vendita di cose piccole come le antichità? Manca la volontà vera da parte dei governi di imporre un controllo: tra Israele e Turchia sono fiumi di antichità che possono passare…». 
La professione dell’archeologo sta cambiando di fronte a un presente così violento e difficile? 
«Sì, ci sono cambiamenti anche se non ancora epocali. In sostanza il mondo accademico trova facile chiudersi in se stesso, possiamo vivere di illusioni e immaginazioni. Ma da un lato emerge un maggiore senso di responsabilizzazione rispetto a quello che si fa, e la necessità di comunicarlo. E poi un altro aspetto non legato di per sé alla guerra ma alla cambio della struttura sociale in genere, ed è quello dei finanziamenti. La maggior parte in Europa per gli scavi vengono dai ministeri degli Esteri, servono a mostrare una buona immagine del proprio Paese e questo è legato, in un modo o nell’altro, a una certa visione politica. È importante allora sul modello americano coinvolgere altri finanziatori. Noi siamo riusciti. Una azienda petrolifera inglese attiva nella nostra zona ci dava fondi per gli scavi da quattro anni. Ora non estraggono e quindi non hanno alcun interesse commerciale o di pubblicità, ma continuano perché hanno condiviso quella che noi chiamiamo importanza di una presenza morale. E poi c’è un armeno che aveva un’attività importante in Siria di supporto logistico alle aziende petrolifere; ci aveva erogato fondi, è venuto a visitare il sito. Non aveva alcun interesse archeologico, passava lì vicino e qualcuno gli ha suggerito di venire a dare una occhiata. È rimasto così colpito che si è appassionato. Mi ha detto: quanti anni ci vogliono per scavare tutto il sito? Urkesh è grande, 50 ettari, abbiamo bisogno di materiali e di gente che sappia scavare, avendo soldi forse in 200 anni riusciremo a scavare tutto… Allora facciamo una cosa, mi ha risposto, io mi preoccupo di trovare altri fondi e lei si preoccupi di trovare chi può lavorare di più al sito… ecco: il senso di responsabilità anche verso chi ci dà soldi, che non sono solo delle tasche da cui tirar via denaro ma delle persone che si possono coinvolgere a livello della sostanza: anche questo sta cambiando».


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