mercoledì 22 ottobre 2014

Beppe Fenoglio. Quel ragazzo che parlava di Resistenza


I 23 giorni della città di Alba. Resta solo il ricordo
Il 10 ottobre 1944 i partigiani conquistano la città piemontese, 
ma il governo dura solo fino al 2 novembre quando cedono ai fascisti
A difenderla c’era un ventenne dinoccolato: Beppe Fenoglio. 
Dopo 70 anni del mondo dello scrittore è rimasto poco

Michele Concina

"Il Fatto", 20 ottobre 2014

C’è chi ne ricava un sacco di soldi, dalle Langhe. Da pochi giorni è finita la vendemmia, da qualche settimana la raccolta delle nocciole. Alla fiera di Alba compratori di mezzo mondo si disputano i tartufi bianchi, a prezzi che partono da duecento euro l’etto. Se ti siedi su una panchina con gli occhi chiusi, dopo un po’ ti sembra di vivere un sogno altrui. Un sogno di Nanni Moretti: il profumo dolciastro e inconfondibile della Nutella scende ad avvolgere la città dallo stabilimento della Ferrero, multinazionale a conduzione familiare che rifiuta di separarsi dalla sua cittadina d’origine.
C’è chi delle Langhe s’innamora. Specialmente adesso, in autunno, girando per le colline pettinate dai vigneti, fra i colori attenuati dalla nebbia leggera, i verdi non troppo verdi, i rossi non troppo rossi. Respirando l’odore di terra smossa e di funghi. Sostando nelle cascine, da tempo tirate a lucido, per un bicchiere di vino, servito con cortesia schiva, ritrosa.
E c’è chi nelle Langhe ha fatto la guerra. Combattendo i fascisti, i tedeschi, e questo stesso paesaggio oggi incantevole; ma ostile, funesto nel terribile inverno del 1944. Nei rittani, i dirupi delle alte Langhe, dove si rifugiava inseguito il partigiano Johnny: “Era un inferno di fango, lezzava di foglie marcite, la vegetazione curva su di esso a mascherarlo come un aborto di natura grondava orribilmente”. Nelle notti di guardia, quando “nulla era visibile nella ondulante tenebra, udibile soltanto il sinistro, purgatoriale crocchiare dei rami freddi sotto il vento onnipotente”.
“La presero in duemila e la persero in duecento”
Sono passati giusto settant’anni dall’ottobre in cui le formazioni della Resistenza occuparono Alba, instaurandovi una libera repubblica durata 23 giorni. Non la prima, non la più duratura, né la più importante delle repubbliche partigiane. Ma a difenderla, e poi a darle fama superiore a ogni altra, c’era un ventenne dinoccolato e un po’ goffo, figlio di un macellaio di Alba, affascinato dalla letteratura inglese. Si chiamava Beppe Fenoglio.
Seppe scrivere della Resistenza e di questa terra come nessun altro. Senza retorica, senza indulgenza verso la propria parte, senza paura delle parole: “guerra civile”, la chiamò da subito. Capace di cogliere l’epica collettiva, ma anche le insufficienze, talvolta le meschinità di chi combatteva; o trovava modo d’imboscarsi quando l’aria volgeva al brutto. “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre” è il celebre attacco folgorante, impietoso de I ventitré giorni, il primo libro pubblicato.
Tre paragrafi più in là, racconta la sfilata trionfale dei partigiani: “Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali”. E poi: “Su quel balcone c’erano tanti capi che in proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini”. Frasi e passaggi che scatenarono il tiro al bersaglio da sinistra. “Questo racconto di Beppe, che ha fatto la Resistenza accanto a me sulle Langhe, mi è parso aiutare chi si affanna a denigrarci”, scrisse Davide Lajolo. Carlo Salinari, gappista romano, poi illustre critico letterario di stretta ortodossia marxista, si occupò di scomunicarlo su Rinascita.
Fenoglio non ci badò più di tanto, e si diede a raccontare le Langhe del tempo di pace. Strette d’assedio non dalla Wehrmacht, ma dalla povertà. La terra dei contadini della Malora, ossessionati dallo spreco: “Finì che nelle sere d’autunno e d’inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere il lume, per avanzare lo zolfino”.
Il punto di svolta: lo scandalo del metanolo del 1986
Sono sempre le stesse, quelle colline e quelle zolle. Ma a percorrerle oggi, anche con i libri di Fenoglio sotto gli occhi, sembra che le abbiano trasportate di peso in un altro pianeta.
E ci si chiede che cosa abbia trasformato, in un tempo inferiore a quello di una vita umana, i cupi mezzadri affamati nei gentiluomini di campagna in giacca di tweed che vendono Barolo ai miliardari cinesi e piantano rose alle estremità dei filari.
Il punto di svolta, probabilmente, fu una disgrazia: lo “scandalo del metanolo” del 1986. Ventitré persone morte per aver bevuto del vino da pochi soldi, adulterato con alcol metilico per risparmiare qualche lira sull’imposta di fabbricazione. Epicentro nelle Langhe. Rifiutati dal mercato, minacciati di estinzione, i vignaioli seri si resero conto che la loro unica speranza era puntare sulla qualità alta, altissima. La grande paura li spinse addirittura a superare il secolare individualismo, a scambiarsi esperienze e buone pratiche, a esplorare insieme mercati nuovi.
Da Slow food di Petrini a Eataly di Farinetti
Ebbero fortuna: gli americani stavano scoprendo proprio allora i cibi d’élite. E in zona cominciavano a farsi largo un paio di giovani capaci di costruire intorno alle produzioni alimentari una filosofia di vita, se non addirittura un’ideologia.
Ad Alba c’era Oscar Farinetti, futuro patron di Eataly. A Bra, da qualche anno, studiava e predicava Carlin Petrini: tra i padri fondatori del Gambero Rosso, in quel 1986 trasformò l’Associazione amici del Barolo in Arcigola; tre anni dopo diede vita a Slow Food.
Ma se queste non fossero state le Langhe, la riscoperta della terra madre e delle eccellenze alimentari avrebbe colto i poderi sguarniti, abbandonati da contadini corsi a inurbarsi nelle fabbriche.
La Ferrero e il monopolio delle nocciole
Qui, invece, c’era la Ferrero: un’azienda nata all’indomani della guerra, che ha sempre assorbito l’intera produzione dei settemila ettari di noccioleti della zona. E ha sempre preferito lasciare che i suoi operai continuassero ad abitare nei paesetti sparsi per le colline, anziché attirarli in casermoni di città.
Ancora oggi, in corrispondenza dei turni dello stabilimento, non c’è un villaggio in cui i pullman della Ferrero non si fermino a caricare i dipendenti.
Un’idea formidabile, in quegli anni. “Per il contadino che si era alzato alle quattro a zappare la vigna, il turno alla Ferrero non era neppure fatica. Tornava a casa bello fresco, e ricominciava a rivoltar la terra”, spiega Enzo De Maria, ex sindaco di Alba e oggi presidente dell’Anpi locale.
È la prosperità, alla fin fine, che ha smussato la terra di Fenoglio e le vite di chi l’abita. Senza snaturarle, per ora.
Anzi, contribuendo a ingentilire il paesaggio fino a farlo includere, quattro mesi fa, nella lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità (con implicito sberleffo all’indirizzo del rivale di sempre, il Chianti). Ma consacrare il bello non lo mette al riparo dagli assalti del brutto.
È abbastanza noto, e deprecato, il caso della Cascina Langa, a Trezzo Tinella, l’ “aia gelata, aperta per tre lati al cielo”, in cui il partigiano Johnny e il partigiano Fenoglio trovarono rifugio nei momenti peggiori.
Certo, trasformandola in un resort di lusso l’hanno resa irriconoscibile, a forza di parallelepipedi in cemento nudo e vetrate panoramiche.
Certo, è veramente dura capire che ci fa, fra queste colline, uno hammam, che dovrebbe essere il bagno rituale di arabi e turchi.
Il manufatto che domina il costone di Trezzo
Ma lo stravolgimento di Cascina Langa è un’inezia, rispetto al vasto manufatto incredibile che domina il costone più alto di Trezzo, una specie di ranch messicano reinterpretato due volte, prima da Hollywood e poi da un qualche palazzinaro locale, di un bianco accecante.
O al ripetitore televisivo, alto il doppio della chiesa cinquecentesca, rizzato sullo spiazzo in cima a Mombarcaro. Era l’ “alpestre deserto” di Johnny.
E il luogo in cui Fenoglio andava a meditare, ritto sul ciglio del dirupo, contemplando la sua Langa aspra, poco domestica, cupa verso il tramonto. Ancora ignara del suo destino da cartolina.

Margherita Fenoglio
“Una vita breve, ma che segno enorme ci ha lasciato papà!”
intervista di Mic. Con.

Mio padre mi dà grandi soddisfazioni, ma anche un daffare pazzesco. Dall’anno scorso, quando sono iniziate le celebrazioni per i 70 anni della Resistenza e insieme quelle per il cinquantenario della sua morte, in pratica non faccio altro che occuparmi di lui”. Un mestiere ce l’avrebbe, Margherita Fenoglio: è avvocato, specializzata in diritto di famiglia; ha a che fare tutti i giorni con figli contesi e separazioni difficili. Ma nella sua vita straripa quel padre amatissimo benché mai conosciuto, ucciso da un cancro ai bronchi a 41 anni, quando Margherita ne aveva appena compiuti due. Lo scrittore e partigiano inflessibile con se stesso e con gli altri. Il Beppe Fenoglio secco e impietoso nei suoi capolavori, Il partigiano Johnny, La malora, La paga del sabato, Una questione privata. Eppure così dolce con quella bimba destinata a somigliargli che il giorno prima di morire radunò le ultime forze per scriverle un biglietto: “Ciao, per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata…”.
Un padre ingombrante è spesso scomodo.
Per me è prima di tutto un padre di cui andare orgogliosa, ma senza arroganza. Mia madre mi ha insegnato che il talento era suo, che non c’è alcun merito nell’essere la figlia di Fenoglio, che la stima degli altri si guadagna, non si eredita. E so che il suo ricordo lo divido con moltissimi altri, con migliaia di persone che lo amano e lo ammirano. La sua è stata una vita breve, brevissima, che però ha lasciato un segno enorme.
Ancora oggi?
Oggi più che mai, anche grazie a Internet che facilità la comunicazione, l’espressione dei sentimenti. Ogni giorno qui al Centro studi Beppe Fenoglio, e perfino al mio indirizzo privato, arrivano decine di mail. C’è qualcuno – immagino sia un uomo, ma non so neppure quello – che una volta all’anno visita la sua tomba a fumare con lui, per così dire: poggia una sigaretta intera sulla lapide, un’altra ne fuma lui, lascia il mozzicone in bella vista come fosse un fiore, e se ne va.
A proposito di sigarette, non le capita di arrabbiarsi con suo padre per aver fumato così tanto? Ha privato lei della gioia di conoscerlo, noi probabilmente di altri grandi libri.
Non sono arrabbiata con lui, e neppure con il destino. Del resto, non credo che lo abbia ucciso soltanto il tabacco. Due anni a combattere in montagna, in quelle condizioni, lasciano il segno. Le Langhe di Beppe Fenoglio non sono il paesaggio da cartolina che oggi tutti contemplano con occhi sognanti, le colline dove le rose si mescolano ai vigneti. La sua era la Langa alta, inospitale, scoscesa, gelida d’inverno. Da anni qui al Centro studi organizziamo passeggiate in quei luoghi. Andiamo nella bella stagione, con le nostre scarpe buone, cibo e acqua, un maglione nello zaino nel caso a sera rinfrescasse. E quando partecipo, mi viene l’angoscia pensando ai ragazzi che si sono arrampicati su e giù per quei dirupi in pieno inverno, malvestiti, malnutriti, inseguiti dai tedeschi.
Nei suoi romanzi, specie “Il partigiano Johnny”, Beppe Fenoglio ha rigettato la retorica che ha ingessato per decenni l’immagine della Resistenza. Non ha mai esitato a parlare di guerra civile.
C’è stato un tempo in cui per descrivere la Resistenza si usavano dosi di enfasi fortissime, quasi letali. La Resistenza era sempre alta, bionda, con gli occhi azzurri. Quel tempo è passato, e non solo grazie a mio padre. Il libro del 1991 di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza è un punto fermo.
In quelle pagine l’adesione alla lotta partigiana appare esistenziale. Molti salivano in montagna per puro e semplice ribrezzo verso i fascisti.
Mio zio Walter, fratello e compagno d’armi di Beppe Fenoglio, diceva sempre che il fascismo era brutto. Tirannico, guerrafondaio, ampolloso; ma in primo luogo brutto. Per mio padre contarono molto il pensiero e l’esempio di due dei suoi professori al Govone, il liceo di Alba: Leonardo Cocito, comunista ma partigiano in Giustizia e libertà, impiccato dai tedeschi, e Pietro Chiodi, anche lui combattente di Gl, deportato in un lager ma sopravvissuto. Aiutarono quel giovanissimo studente a dar forma a un suo disagio nebuloso, ma cocente; a trasformarlo in un messaggio di libertà. Chiodi racconta, in una lettera, di un anniversario della marcia su Roma. Quel giorno gli studenti, in tutta Italia, erano obbligati a vergare un tema sul regime fascista come erede dell’impero dei Cesari. Fenoglio lasciò il foglio in bianco, non ci fu verso di convincerlo a scrivere una riga.
Suo padre non è stato solo uno scrittore partigiano. Ha raccontato il disagio della pace e del dopoguerra. E il mondo contadino, la povertà come carcere senza sbarre, la fatica senza fine.
Aveva il senso dello sforzo, la percezione della stanchezza. Un paio d’anni prima di morire, in un’intervista, disse: “Scrivo per un'infinità di ragioni, non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti”. Scriveva sempre, tardi, di notte. Viveva circondato di foglietti.
L’ultimo lo ha scritto a Margherita.

Beppe Fenoglio nasce ad Alba il primo marzo 1922. Terminato il Liceo si iscrive alla facoltà di Lettere di Torino, ma interrompe gli studi nel 1943. Dopo l’8 settembre sceglie la guerriglia partigiana sulle Langhe. Dapprima sale “a Murazzano presso quegli stessi parenti che solevano ospitarlo da ragazzo per le vacanze estive”, poi entra in una brigata d’ispirazione comunista, che opera tra Murazzano e Mombarcaro nell’alta Langa. Questa formazione partigiana, dopo l’assalto ai depositi militari di Carrù (3 marzo 1944), subisce una pesante sconfitta dai nazifascisti. Per sfuggire ai rastrellamenti, Fenoglio ritorna ad Alba. Il 10 ottobre 1944 è con le forze che liberano Alba (I ventitre giorni della città di Alba). Dopo la Liberazione, ritorna alla vita civile, ma l’esperienza partigiana è fondamentale nella sua vita e ispira molti dei suoi lavori. Nel 1949 pubblica il primo racconto, Il trucco, con lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti. Nel 1952 escono presso Einaudi dodici racconti; nel 1954 viene pubblicata La malora. Nel 1961 nasce la figlia Margherita e Fenoglio comincia ad ottenere i primi riconoscimenti dalla critica; nel 1960 vince il premio Prato con Primavera di bellezza. Muore il 18 febbraio 1963.

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