domenica 1 giugno 2014

Vale più la virtù o la fortuna?

Nicoletto da Modena, Fortuna, acquaforte su rame, 1506 ca.

Machiavelli non disse mai che il fine giustifica i mezzi.
 Il «Principe» è un classico da rileggere a partire da un'idea più sofisticata, 
quella di «sorte morale» 

Armando Massarenti

"Il Sole24ore - Domenica", 1 giugno 2014

È quantomeno peculiare che, al cuore di un trattato che si pone l'obiettivo di una costruzione razionale della virtù, o meglio delle virtù della politica, Machiavelli abbia collocato la vicenda di Cesare Borgia, il Valentino, figlio esemplare della fortuna. Come è noto, il rapporto tra virtù e fortuna nel Principe è uno nei nodi teorici più delicati e filosoficamente stimolanti dell'intera opera. Nella convinzione che il dialogo tra pensatori di secoli diversi possa essere enormemente fruttifero, proprio come lo stesso Machiavelli auspicava nella famosa lettera del 10 dicembre 1513 a Vettori, proveremo a far dialogare Machiavelli con un importante filosofo novecentesco, Bernard Williams, autore tra gli altri della raccolta di saggi Sorte morale. La “sorte morale” (Moral Luck) di cui parla Williams è un'idea profonda e originale, che ha a che vedere con un'altra felice espressione filosofica: la “fragilità del bene”, cui Martha Nussbaum ha dedicato un altro famoso libro.
Molte delle ambiguità di Machiavelli nell'affrontare la tensione fondamentale tra virtù e fortuna si stemperano e si chiariscono proprio se prendiamo le mosse dal ragionamento di Williams. Il grande filosofo morale propone un esempio ricco di sfumature, una sorta di «esperimento mentale»: parla di un pittore di nome Gauguin – un Gauguin, certo, più immaginario che reale – che da giovane scommette di essere un grande artista. Ma per verificarlo è costretto a compiere una scelta assai riprovevole: deve abbandonare la famiglia. Ha fatto bene o ha fatto male? Dipende dal successo che avrà come artista. Se non avrà successo, il biasimo del prossimo sarà totale. Se invece avrà successo quella scelta moralmente dubbia apparirà del tutto giustificata. 
Nel Principe, l'impostazione teorica di fondo è molto simile. Anche la virtù di Machiavelli non è facile da separare dalla questione del successo dell'azione, anzi ne è intrisa. Si potrebbe addirittura dire che le virtù del principe, che riguardano la conquista, la creazione e il mantenimento degli Stati, e che ben poco hanno a che vedere con le virtù morali dell'uomo comune, riguardano tutte il fine cui esse tendono: la gestione e il mantenimento del potere e la capacità di far durare la conquista. 
Ma senza che le virtù stesse risultino in ultima analisi depotenziate dall'azione apparentemente ingovernabile della “fortuna”: «Affinché il nostro libero arbitrio non sia completamente annullato, penso possa essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle nostre azioni, ma penso anche che essa ne lasci governare l'altra metà, o quasi, a noi». Cioè alle nostre virtù.
Ma che tipo di virtù sono queste di cui si parla? Non sono né virtù civiche – queste semmai riguardano le repubbliche e non i principati – né virtù morali in senso stretto. Sono piuttosto, in massima parte, virtù epistemiche: hanno a che vedere con la reale capacità di sapere, e di conseguenza prevedere, di che pasta sono fatti gli uomini e come si comportano nelle mutevoli e imprevedibili vicende che li vedono coinvolti. «E quindi bisogna che egli abbia un animo disposto a voltarsi dalla parte che i venti della fortuna e il variare delle cose gli comandano» afferma Machiavelli nel cap. XVIII poco dopo aver proposto ai lettori la notissima similitudine della volpe e del leone, dove per “animo” dobbiamo senz'altro intendere in questo caso la mente, l'intelletto del principe, insieme allo spettro di quelle doti di carattere che rientrano nell'attitudine personale del soggetto. Per dirla con un altro termine chiave, anch'esso presente nel testo, si tratta di contrastare i rovesci della fortuna con l'utilizzo saggio del buon senso, della “prudenza”, dove «la prudenza consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti e pigliare el men tristo per buono».
Per questo la tensione tra virtù e fortuna trova nel personaggio di Cesare Borgia il suo apice. Borgia, «chiamato dal volgo duca Valentino», è “figlio della fortuna” perché «acquisì lo stato con la fortuna del padre e insieme con quella lo perdette» (Cap. VII). Ma dopo aver ripercorso e valutato in lungo e in largo la catena delle azioni compiute dal Valentino nell'esercizio del potere… ecco annidato il sorprendente scacco della ragione (politica) tanto perseguita da Machiavelli e della connessa virtù: «Avendo dunque riassunte tutte le azioni del duca, nulla saprei rimproverargli: anzi mi sembra di poterlo proporre – come io ho fatto – a modello da imitare per tutti coloro che sono ascesi al comando per fortuna e con le armi altrui; giacché egli, avendo l'animo grande e alto l'intento, non avrebbe potuto comportarsi meglio, e ai suoi disegni si opposero solo la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia».
Eppure la stella del virtuoso Borgia declinò, eccome. Di qui tutta l'ambiguità di Machiavelli: in bilico tra fiducia profonda nella virtù politica, la capacità di analizzare e prevedere gli eventi, anche per preservare il libero arbitrio degli uomini e, dall'altra parte, la fortuna che a volte è fortuito aiuto o, più potentemente e forse anche più spesso, vero tranello per le ambizioni umane. Per la ragione ordinatrice (politica) dell'uomo. Insomma per il principe.
Torniamo dunque all'esperimento mentale di Williams. La scelta di Gauguin è amorale? Per Williams non è questo il modo giusto per inquadrarla. E il Principe è amorale? Anche questo è un modo sbagliato di porre una domanda. La "sorte costitutiva" di cui parla Williams, nel quadro concettuale del Principe è più vicina alla fortuna, al carattere o alla virtù? In realtà partecipa di tutti gli elementi, probabilmente perché tocca il nervo teorico scoperto, la zona grigia, di Machiavelli. Virtù e fortuna sono fortemente intrecciate tra loro, così come lo sono i mezzi e i fini. Per questo è sbagliato dire che il fine giustifica i mezzi, espressione che infatti Machiavelli non ha mai usato. È tutto più sofisticato e complesso: il principe ragiona continuamente su mezzi e fini e se è un buon principe lo fa avendo in mente le virtù proprie della politica. 
Anche la contrapposizione etica e politica finisce per diventare assai sfumata. Tutto dipende molto dalle circostanze. In Machiavelli troviamo due elementi potentissimi che convivono: il primo è la consapevolezza dell'importanza della fortuna e dell'occasione propizia o nefasta per rovesciare le sorti in positivo o in negativo; il secondo è la tenacia con cui costruisce gli elementi fondamentali che disegnano le virtù del principe. La prudenza e la saggezza sono legate alla capacità predittiva. Machiavelli in questo disegna una vera scienza della politica, basata su una visione realistica e disincantata della natura umana. Neppure questa è sufficiente. Ma ciò non le toglie un briciolo della sua importanza. Essere realisti, sapere come stanno le cose, è fondamentale sia per quanto riguarda la natura umana sia per quel che riguarda la conoscenza in generale. E, allora come oggi, è solo da questo che può derivare l'efficacia delle nostre azioni e delle nostre decisioni politiche.

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