domenica 25 maggio 2014

Vi spiego perché Ovidio è un gioco da ragazzi


Il volume con la traduzione commentata delle “Metamorfosi”

Vittorio Sermonti

"La Repubblica", 19 maggio 2014


Guardiamoci negli occhi, amico mio: il problema non è perché mai io abbia tradotto le Metamorfosi di Ovidio, e le abbia tradotte proprio così. Ma il problema vero francamente mi sembra un altro: perché mai tu dovresti leggerle, queste Metamorfosi di Ovidio? Potrei dire: leggitele, e poi mi rispondi! Ma se tu mi chiedessi - richiesta più che ragionevole, data anche la stazza del volume - chi te lo fa fare, suggerirti una risposta su due piedi non sarebbe la cosa più semplice del mondo. [...]
Eallora? Allora mi prenderò il lusso di semplificare: le Metamorfosi sono un libro sull’adolescenza, un dizionario mitologico dell’adolescenza che canta il corpo dell’uomo in mutazione incarnandolo in figure letterarie. Vuoi che semplifichi ancora di più esemplificando? Prendi il famoso Narciso. Chi è, che cos’è “Narciso”? È, come saprai anche tu, il nome di un ragazzo bellissimo, figlio di un fiume e di una ninfa, che specchiandosi nell’acqua d’un laghetto si innamora della propria immagine; ma è anche quella categoria clinica, che consiste appunto in un esclusivo, maledetto amore di sé (mai sentito parlare di narcisismo? mai praticato?); ma è anche un fiore color zafferano con i petali bianchi. La metamorfosi si compie all’interno di un nome. Un ragazzo diventa una sindrome che diventa un fiore, restando disperatamente l’io che era. Innamorato, spaventato di sé.
Le Metamorfosi di Ovidio sono proprio il poema dell’adolescenza come esperienza della labilità e vulnerabilità dell’identità, mentre il tuo corpo non fa che cambiare, che cambiare te stesso sotto i tuoi stessi occhi. E tu non sai più chi sei. Vorresti amarti di più, ma non sai chi dovrebbe amare e chi vorrebbe essere amato. E senti il tremore della «inespugnabile solitudine» che punisce ogni bellezza, che ogni bellezza si merita. Ma l’illusione non demorde: il ragazzo Narciso sa bene di essere lui l’oggetto del proprio amore, e ne muore lo stesso; va nell’Ade e continua a specchiarsi nell’acqua del fiume Stige. L’illusione si illude.
Assumere però il bel Narciso a prototipo dell’eroe in mutazione è un arbitrio come un altro. Perché nel nostro libro le mutazioni ininterrottamente si accavallano ricorrendo il più delle volte a qualche inattendibile pretesto: una omonimia, un doppio innamoramento simultaneo, una coincidenza topografica... ed ecco sgranarsi un incredibile assortimento di storie, scandite da scarti di timbro, aritmie, modulazioni, tracciate talora da un’ironia micidiale, sull’orlo talora del gossip, dove dèi bugiardi ed erotomani ed eroi o eroine spesso assai discutibili ragionano le loro pulsioni cieche con cavillosità avvocatesca; dove però ad ogni passo può spalancarsi il crepaccio della tragedia o, comunque, una smorfia del racconto che assecondi il nostro bisogno segreto di mostri...
Ma ripensando l’impressione che mi fa la baraonda di queste favole a ripensarle tutte in una volta, vedo semmai il disordine che instaura un bambino quando, in una stanza dove ne ha fatte di tutti i colori, tenta di ripristinare l’ordine senza ricordarsi bene dove erano gli oggetti, né perché fossero lì: ordine mirato a realizzare puntigliosamente un “effetto ordine”, che rappresenta insieme la perfezione e la parodia di ogni perfezione. Come “effetto” passi, ma non scherziamo!
Alla resa dei conti, sia ben chiaro, tutta la strepitosa messinscena delle Metamorfosi di Ovidio non ha nulla di puerile, e tanto meno di adolescenziale. Anzi, è governata da un geniale uomo di mondo, che naturalmente non crede a quello che racconta (additandoli come responsabili di tutto quello che capita in cielo in terra e in mare, egli non manca di precisare che i suoi dèi è molto probabile non esistano affatto), ma gli piace far finta che tu ci creda (sapendo naturalmente che non ci credi neanche tu), e così con la leggerezza, con l’irresponsabilità di un canto spiegato, facendo onore al delicato nonsenso di essere sempre quelli stessi che siamo diventando continuamente altri, ci fornisce una scheggia di verità sottratta alla opacità del reale, alla pedanteria della verisimiglianza: cioè la famosa, inutile, insostituibile poesia. Finché, d’accordo, non arriva la Vecchia Falciatrice (che in un modo o nell’altro arriva comunque) a renderci definitivamente il ricordo animale, vegetale, minerale di noi stessi. E quella di diventare un ricordo concreto di sé, almeno fin tanto che goccioleremo resina o mirra nella memoria di qualchedun altro, non è detto sia la più lugubre delle metamorfosi.
Coraggio, amico mio, chiunque tu sia, qualunque età ti succeda di avere! Prova! e se cominci, c’è anche caso che il compito obsoleto della lettura si trasformi, annaspando in questo assurdo capolavoro, in un vizio ostinato e sottile per il te sconosciuto che sei. E se è troppo sperare che il poema dell’adolescenza interessi anche qualche adolescente, io spero lo stesso.

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