domenica 6 aprile 2014

William e Galileo, padri moderni


Anniversari paralleli


Nel 1564 (450 anni fa) nascevano i due geni. complementari
Proponiamo «Galwill» un grande esperimento didattico europeo

Massimo Bucciantini

"Il Sole 24 ore - Domenica", 6 aprile 2014


Anche noi siamo nati il 15 febbraio e il 23 aprile del 1564. Anche se – a cominciare dai nostri programmi scolastici – facciamo di tutto per non rendercene conto o, distratti come siamo, ce ne dimentichiamo, quei due giorni di tanti secoli fa dovrebbero essere festeggiati insieme, come meritano. E per una ragione molto semplice: perché senza quei due compleanni saremmo tutti molto più poveri e certamente diversi da quello che siamo diventati.

Ma perché festeggiarli insieme? Shakespeare e Galileo, in fondo, non si sono mai conosciuti. Neppure per interposta persona, neppure per lettera. E non risulta neppure che l'uno abbia letto gli scritti dell'altro. Il drammaturgo inglese, scomparso all'età di 52 anni, morì il giorno stesso della sua nascita, il 23 aprile del 1616. Lo scienziato italiano gli sopravvisse per altri 26 anni, fino a quando, ormai cieco e da nove anni agli arresti domiciliari nella sua casa di Arcetri, non esalò l'ultimo respiro l'8 gennaio 1642. Del primo sappiamo così poco che interi periodi della sua vita ci sono completamente ignoti, come gli anni che vanno dal 1585 al 1592. E quindi non conosciamo le ragioni della sua decisione di trasferirsi a Londra o come sia potuto accadere che un figlio di un guantaio in rovina sia potuto diventare in così breve tempo William Shakespeare, uno degli scrittori di teatro più famosi prima in Inghilterra e poi nel mondo intero. Come ha osservato Stephen Greenblatt, «le tracce sopravvissute della vita di Shakespeare sono molte ma sottili», e non esiste «nessun indizio immediatamente ovvio per districare il grande mistero di una forza creativa tanto immensa». 
Dell'altro, invece, sappiamo "quasi" tutto. Conosciamo ogni momento della sua vita, sia quelli tragici sia quelli segnati da successi e da veri e propri trionfi. La sua corrispondenza ammonta a migliaia di lettere. Le sue carte sono gelosamente conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Due dei suoi telescopi, tra le centinaia che lui stesso fabbricò, si possono ancora ammirare nelle splendide sale del Museo Galileo che si trova a un passo dagli Uffizi e dal Ponte Vecchio. 


Ho detto che nessuno dei due ha mai letto gli scritti dell'altro. O meglio: se per Galileo, non ci sono dubbi al riguardo, nel caso di Shakespeare non siamo così sicuri, anche se fino a oggi i tentativi di trovare nelle sue opere teatrali riferimenti allo scienziato e al filosofo italiano non hanno portato a risultati significativi. L'unica esile traccia è nel Cimbelino. E si trova in una delle ultime scene di questa tragedia scritta tra il 1609 e il 1610 e messa in scena la prima volta nel 1611, quando a Postumo apparve in sogno Giove circondato dagli spiriti dei genitori e dei due fratelli, un evidente allusione, secondo alcuni interpreti, ai quattro satelliti appena scoperti da Galileo.
Eppure la scoperta del telescopio venne immediatamente divulgata a Londra dall'ambasciatore inglese a Venezia, sir Henry Wotton. E ciò accadeva proprio il giorno della pubblicazione – il 13 marzo 1610 – del Sidereus Nuncius, che conteneva le novità celesti che tutti conosciamo e che avrebbero reso il loro scopritore, come annotava senza mezzi termini l'ambasciatore, «o estremamente famoso o estremamente ridicolo». Del resto sappiamo – grazie anche al bel libro di Gilberto Sacerdoti, Nuovo cielo, nuova terra. La rivelazione copernicana di Antonio e Cleopatra di Shakespeare – quanto Shakespeare fosse attratto dai temi cosmologici e ammirasse i dialoghi italiani di Giordano Bruno, pubblicati a Londra tra il 1584 e il 1585; quanto, cioè, il nuovo cielo senza limiti del Nolano trovasse la sua trasfigurazione scenica nell'infinito amore di Antonio. 
Ma allora se non si sono conosciuti, e forse mai letti, che cosa hanno in comune questi due grandi protagonisti della nostra modernità? La risposta a questa domanda va cercata nel modo in cui Galileo e Shakespeare, ciascuno per proprio conto, si pongono di fronte al loro "oggetto" di indagine. Se volessimo provare a dire in una sola frase ciò che li accomuna forse dovremmo dire che niente per loro è come appare. Niente è come appare è il principio che li unisce e la chiave del loro successo. Sta qui, in questo modo di guardare l'uomo e il mondo, la differenza che più di ogni altra li separa dai loro contemporanei. E ciò fa sì che tra loro si stabilisca un'intima e segreta corrispondenza di intenti. Anzi, si ha quasi l'impressione che si siano suddivisi i compiti in modo perfetto: Galileo applica questo principio al mondo delle cose, all'universalità dei fenomeni della natura; Shakespeare, invece, alla natura contorta e inafferrabile dell'uomo. L'uno scopre che il vero alfabeto della natura è da ricercare dentro le forme invisibili della matematica e, al tempo stesso, con il perfezionamento del telescopio, si accorge che il cielo non è più quello che da duemila anni appariva alla nostra vista; l'altro è un impietoso e scomodo indagatore della natura umana, tanto da reinventare l'intero alfabeto dei nostri sentimenti. Che riesce a penetrare come pochi, spingendosi oltre la loro scorza e le loro scolastiche definizioni e mettendo in scena i tanti volti del tradimento, dell'ingiustizia, della crudeltà, della vendetta, della rivalità, della gelosia, del disonore, dell'incesto, del lutto.
Come ha scritto Colin McGinn in Shakespeare filosofo, la tragedia per Shakespeare nasce dalla consapevolezza che «la mente non è qualcosa che si mette in mostra: la segretezza è parte essenziale della sua natura». Allo stesso modo accade nel mondo fenomenico, che ci appare inconoscibile finché ne affidiamo la comprensione ai nostri sensi. Certo, poi le strade si divaricano perché differenti sono i temi di indagine. Se alle spalle di Galileo si intravedono il "divino" Archimede e il maestro Copernico, ed è in loro che lo scienziato italiano trova la sua guida e gli strumenti per trasformare il mondo-labirinto in un mondo-libro, dietro Shakespeare bisogna guardare in altre direzioni, guardare a Montaigne, ad esempio, alla lezione ricevuta dal filosofo francese, grande anatomista dell'incertezza e dell'illusione del sapere umano.
Nel 1623, sette anni dopo la morte, veniva data alle stampe la prima edizione in folio delle commedie e tragedie di Shakespeare. La metà esatta, ben diciotto su trentasei, erano inediti, e tra questi c'erano capolavori come Giulio Cesare, Macbeth, La tempesta, Antonio e Cleopatra. Nello stesso anno Galileo pubblicava il Saggiatore. Non la sua opera più famosa ma certamente quella che contiene le sue parole più celebri, quelle che tutti dovrebbero imparare a memoria come si fa (o si dovrebbe fare) con L'Infinito di Leopardi. «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima…». Sono parole, ogni volta che le leggiamo, che ci affascinano nella loro assoluta e straordinaria semplicità, così come non ci lasciano in pace e ci inquietano perché sono destinate proprio a noi quelle altrettanto famose pronunciate dal mago Prospero: «Sono finiti i nostri giochi. Questi attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell'aria, in aria sottile».
È un doppio compleanno che dovrebbe essere festeggiato con tutti gli onori, dicevo. Ma forse non basta. Forse bisognerebbe fare qualcosa di più e dire che le loro opere dovrebbero entrare davvero nelle nostre scuole, perché è anche attraverso la scelta dei testi che si leggono in classe che si formano le nuove generazioni e si costruisce l'Europa del futuro. Ecco, forse, una cosa su cui riflettere e su cui lavorare. Altrimenti continueremo solo a lamentarci e a baloccarci nel nostro scontento, ripetendo che l'Europa non deve essere solo Pil, banche, poteri forti e via dicendo. 
Galwill potrebbe essere un buon esperimento didattico, a Londra come a Roma, a Parigi come a Berlino, per provare a dire che l'Europa si costruisce anche a partire dalla riforma dei programmi scolastici. Un segnale forte e concreto a favore di una visione unitaria della cultura. 


Shakespeare e le incongruenze
Di età e volto piuttosto incerti

Antonio Audino

È senza dubbio l'autore teatrale più studiato, tradotto e rappresentato in ogni angolo del mondo, ma William Shakespeare è anche l'artista di tutti i tempi maggiormente avvolto dalla fitta nebbia del mistero. Date, elementi biografici, aspetto fisico, perfino la sua scrittura, tutto si presta a uno scandaglio degno di un detective o sembra voluto dagli intrecci e dai depistaggi di un geniale giallista. 
Ma andiamo con ordine. Quando è nato il grande drammaturgo? Chissà. A esserci pervenuta è soltanto l'annotazione sul registro dei battesimi a Stratford-upon-Avon il 26 aprile 1564, ma da quanti giorni il piccolo Willie aveva aperto gli occhi sull'affollato e confuso palcoscenico del mondo? Due, tre, un mese? Soltanto un centinaio di anni dopo i suoi orgogliosi conterranei avrebbero deciso di segnare la sua nascita al 23 di aprile, festa di San Giorgio, patrono nazionale, data coincidente per altro col giorno della morte del drammaturgo nel 1616. Già, ma ammesso che fosse vera questa singolare coincidenza, su quale almanacco stiamo fissando queste date? Bisogna tener conto che l'Inghilterra resterà fedele al calendario giuliano fino al 1752 mentre in quasi tutto il resto d'Europa era entrata in uso nel 1582 la riforma gregoriana. Se quindi la presunta data di nascita potrebbe andar bene a tutti, per la morte bisognerebbe calcolare dieci giorni in più (visto che ne furono aboliti undici con un tratto di penna quando anche oltre Manica ci si uniformò al continente) arrivando quindi al 4 maggio. Si riduce così a una clamorosa svista l'idea che Shakespeare sia morto nello stesso giorno del 1616 in cui a Madrid spirava Cervantes e a Cordova lo scrittore incaico-spagnolo Garcilaso de la Vega, equivoco così ben radicato da far decidere all'Unesco che in quella data venga festeggiata la giornata mondiale del libro.
Altrettanto difficile è capire che faccia avesse Shakespeare. Tutti pensiamo a quel omino minuto, pelato, con i baffetti e un gran colletto rigido che appare in una celebre incisione. Sarà stato veramente così? Già il fantoccio eretto nella chiesa di Stratford sopra la sua tomba, capigliatura a parte, sembra assomigliare poco all'altra fisionomia. Fatto sta che questi due ritratti, ritenuti i più attendibili, sono stati eseguiti diversi anni dopo la scomparsa del drammaturgo, mentre per quello che riguarda il dipinto conservato alla British National Portrait Gallery (nella foto), da qualcuno attribuito al più noto attore della compagnia con cui Shakespeare lavorava, Richard Burbage, i dubbi si estendono ormai sia all'autore che alla figura effigiata. A infittire la congerie di ipotesi si è aggiunto da qualche anno il celebre ritratto ritenuto perduto, l'unico che sia stato realizzato in vita, quando Shakespeare aveva 46 anni, quindi sei anni prima della morte, ritrovato nel momento in cui un aristocratico inglese, discendente del chiacchierato amico del drammaturgo, il Duca di Southampton, scoprì, osservando una copia fiamminga vista in una mostra, che l'originale era su un camino del suo castello da centinaia di anni. Fatto sta che il cosiddetto ritratto Cobbe (lo vedete nella copertina di «Collezione») ci presenta un uomo giovanile dalla folta chioma, dalla barba rossiccia e dai lineamenti affinati e sottili, piuttosto differente dalle altre raffigurazioni. In così poco tempo il volto del drammaturgo sarebbe stato poi «dalla mano oltraggiosa del tempo sgualcito e consunto», per usare un'immagine dei suoi Sonetti? Il pittore aveva voluto compiacere il suo soggetto aggraziandolo? La memoria di chi lo aveva immortalato successivamente era così fallace? Non lo sapremo mai. 
Certamente nulla a che vedere con le fattezze di Joseph Fiennes nel film Shakespeare in Love, dove l'autore viene reso nostro contemporaneo grazie alla triangolazione muscoli-sesso-psicanalisi, componendo il più illegittimo dei profili che si potessero tracciare. Ma facciamo conto che tutto questo rientri in un generico ambito di curiosità, relativamente a un personaggio di cui, in fondo, ci interessano soprattutto le opere. A questo punto al detective o al giallista è bene che si affianchino filologi e storici, o per lo meno tutti coloro che hanno perso la testa nel capire cosa questo autore abbia veramente scritto. Di tutti i suoi testi teatrali Shakespeare non ci ha lasciato neppure una riga autografa, tantomeno un testo a stampa da lui commissionato o seguito. Restano invece una serie di pubblicazioni clandestine realizzate dopo il successo degli spettacoli, dissonanti e contrastanti tra di loro. 
A far giustizia e chiarezza sarebbe dovuta servire l'edizione completa delle sue opere, assemblata dai suoi compagni di teatro, il prezioso In Folio del 1623. Se non fosse che tutto ciò avvenne soltanto sette anni dopo la sua morte con testi tratti da copioni più volte trascritti, sottoposti alle variazioni della pratica scenica e affidati a un gruppo di tipografi spesso un po' distratti. Le versioni che oggi si trovano in volume sono un'attentissima ricostruzione che mette insieme fonti diverse costruendo un'ipotetica verità, ricercata in virtù della coerenza interna, linguistica e narrativa delle varie parti. Si potrebbe quindi inanellare un singolare catalogo di incongruenze nei capolavori di questo autore: come mai ci viene annunciato all'inizio del Sogno di una notte di mezza estate che le nozze tra Teseo e Ippolita verranno celebrate dopo tre giorni mentre poi, finita la notte degli incanti, i due convolano al talamo? Perché Prospero dice ad Ariel nella Tempesta di divenire invisibile a tutti invitandolo contemporaneamente ad assumere l'aspetto di una ninfa del mare? Esigenze di scena? Rimaneggiamenti successivi? Distrazioni di copisti o qualche riga di piombo scomposta? Nessuno ce lo dirà mai, anche in tutti questi casi il resto è silenzio.

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