mercoledì 23 aprile 2014

Se Pascoli scommette sulla gioia impossibile


Ma il desiderio è bloccato da una spietata censura inconscia

Una zona buia che anticipa Freud

Walter Siti

"La Repubblica", 20 aprile 2014


Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato.
Stanco tornavo, come da un viaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un'angoscia muta.
- Mamma? - È là che ti scalda un po' di cena -
Povera mamma! e lei, non l'ho veduta.


NESSUNO in Italia prima di Pascoli era riuscito a intonare poesia mantenendo così basso il registro linguistico; lo stile si solleva dalla prosa di tutti i giorni grazie a pochissimi artifici ben collaudati. In primo luogo le ripetizioni, ben sei in otto versi (nel… nella; stanco… stanco; al… ai; tornavo… tornato; gran… gran; mamma… mamma); poi ingorghi fonetici e false parentele (nella-nulla; mutato- muta), bipartizioni bilanciate come ai vv. 5 e 6, e una classica dieresi al v. 3. Gli endecasillabi si distendono senza sforzo in uno schema metrico di assoluta semplicità, due quartine a rima alternata. Pascoli sogna di tornare per un attimo nella vecchia casa di San Mauro, dove ha lasciato i suoi morti: il padre, la madre, tre sorelle e due fratelli. È stanco per il viaggio della vita, sa di tornare in una casa di fantasmi; ma l’ultima consolazione, rivedere la madre almeno in sogno (stando in collegio a Urbino non aveva potuto salutarla nella bara), gli è negata dall’amore e dalla sollecitudine materna - è “di là”, intenta ai doveri di accudimento. Un’ellissi che strappa le lacrime per la nudità della constatazione («e lei, non l’ho veduta»); il macchinario onirico è bloccato da un’inesplicabile quanto indiscutibile censura inconscia: non sei ancora pronto, vedere mamma ti è vietato.
Nello stesso 1892 Pascoli scrive Gladiatores, un lungo poema in latino di quelli che mandava ai concorsi di Amsterdam: vi si parla di tre gladiatori, seguaci di Spartaco, alla vigilia della battaglia decisiva - uno di loro, il più vecchio, durante la notte sogna la madre (“miseram matrem”, povera mamma); un altro sogna anch’egli di tornare al proprio villaggio ma le forze gli mancano davanti al cortile di casa sua; grida e nessuno lo sente; la madre, finiti i lavori domestici, sta per uscire in cortile, già la porta gira sui cardini… ma suona la tromba dell’adunata e il gladiatore si sveglia. «Povera mamma!» sta anche in un abbozzo di prefazione alla terza edizione di Myricae, pure del 1892; lì Pascoli ricostruisce la vicenda del padre, freddato da una fucilata mentre tornava a casa col calesse - l’esclamazione si colloca subito prima dello sparo. Che relazione può esserci tra l’identificazione pascoliana con un antico gladiatore e la sua tragica vicenda familiare? Cesare Garboli ci ha spiegato che gli anni decisivi per questo nesso sono stati quelli tra il 1889 e il 1893, che lui definisce di “crisi del nido”.
Nel 1887 Pascoli era stato trasferito dal liceo di Massa a quello di Livorno e lì aveva chiamato a vivere le sorelle Ida e Maria; nel 1889 si era infatuato di una ragazza e per un istante aveva pensato di dichiararsi - forse autorizzata dall’esempio, anche Ida aveva mostrato interesse per un giovanotto. Pascoli, sconvolto perché inconsciamente innamorato di Ida, aveva subito rinunciato al pallido progetto di fidanzamento e brigato perché anche Ida lasciasse il giovanotto. Il “nido” si era così ricostituito ma all’insegna della malinconia e della rimozione. È in quegli anni di auto-imposta castità che Pascoli elabora il mito della propria tragedia familiare: è allora che fissa l’immagine eroica di se stesso come capofamiglia espiatorio, gladiatore deciso a sacrificarsi lavorando, rinunciando all’amore per portare sulle spalle il peso di tutti (compreso un fratello in perenne difficoltà economica). Quando Ida, insofferente della tetra atmosfera domestica, si sposerà e andrà a vivere altrove, Pascoli non presenzierà al matrimonio ma continuerà a versarle un assegno mensile.
Consumata la tragedia, il misterioso interdetto di comunicazione svanirà: nell’Ultimo sogno ritrova la madre ancora silenziosa al capezzale di se stesso malato e sente nel brusio dei cipressi il rumore di un fiume «che cerca il mare inesistente». È un sogno di guarigione, ma la guarigione coincide con la morte. Nelle poesie del Ritorno a San Mauro (del 1897) Pascoli finalmente riuscirà a parlare con la madre morta - non solo a vederla ma a dirle quel che prima rimuoveva: «Io non son potuto crescere». Vedere la madre significherà immolarsi senza possibile ritorno, riempiendola di mille pazze promesse; e lei potrà rispondergli in nome di un desolato principio di realtà: niente è più possibile ormai, nella casa ci abita altra gente, io sto al cancello - e delle bimbe sei tu che devi dirmi qualcosa, io non ne so più niente.
A stretto rigor di termini quando qui, nel nostro testo, dice di esser tornato a suo padre, e ai morti, sembra escludere proprio le due sorelle ancora vive; ma tutto è sospeso e impreciso come accade nei sogni (non “da un viaggio” ma “come da un viaggio”). La descrizione è senza sbavature e nello stesso tempo impregnata di un’emozione arcana, dolcezza e angoscia si mischiano senza trovare sbocco. Non è solo il sentimento contrastato di chi rivede come fantasmi le persone che ha amato, è lo smarrimento di chi si è imprigionato da solo («ci siamo accorti tutti e tre», scrive in una lettera del 1892 a Severino Ferrari, «che abbiamo sbagliato nella somma la vita, e non si rinasce»). Non è un sogno ad occhi aperti tipo il Sogno d’estate di Carducci, è proprio l’immersione in una zona buia di cui non si è padroni, già pronta per Freud.

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