domenica 9 marzo 2014

Quello che le parole non dicono ce lo dice il loro odore


Non si può ridurre la lingua a un sistema “per capirsi”
Quali competenze servono per utilizzarla pienamente?

Alessandro Perissinotto

“La stampa“, 6 marzo 2014

Che le parole abbiano un senso è fuori di dubbio, ma le parole hanno anche un gusto o, se si preferisce, un profumo. Sì, un profumo, un odore, come quello delle case. La casa dei nonni, con l’odore del cavolo e della minestra che impregnava le pareti; l’appartamento di quella zia, rimasta zitella, che profuma di lavanda; il sentore di umido di certe vecchie scale, la fragranza di cera del salotto buono. Nella nostra mente, quelle sensazioni olfattive caricano di sfumature i ricordi e ci rinviano a stati d’animo come malinconia, o gioia, o disagio. Con le parole è lo stesso. Le parole hanno un nucleo centrale di significato, ma, nel contempo, hanno la capacità di rimandare a sfere di senso più nascoste, come quelle che riguardano lo scorrere del tempo.
Facciamo tre esempi, tra i meno romantici e letterari che si possano immaginare, tre esempi automobilistici. «Adelmo mise in moto la sua giardinetta», «Mario salì sulla sua familiare», «Kevin chiuse la portiera della sua station wagon». Da un punto di vista puramente dizionariale, i termini «giardinetta», «familiare» e «station wagon», se applicati alle autovetture, sono perfettamente sinonimi e identificano un certo tipo di carrozzeria. È però evidente che, nell’immaginario collettivo, essi rimandano a vetture di foggia ed epoca diverse. Lo stesso dicasi per «Adelmo», «Mario» e «Kevin»; tutti e tre nomi propri di persona, maschili, che identificano però, almeno potenzialmente, uomini vissuti in periodi diversi.
Le parole dunque si rivestono della patina del tempo e hanno la capacità di farci andare con la mente non solo agli oggetti che esse designano, ma anche all’epoca che le ha generate. In linguistica si sostiene che i segni hanno un potere «denotativo» (quello di designare il loro significato) e un potere «connotativo» (quello di farci pensare al loro contesto di produzione), ma, più semplicemente, possiamo stabilire che le parole dicono una cosa e, contemporaneamente, fanno immaginare un «di più» che non è la cosa stessa.
Quando leggiamo «Adelmo mise in moto la sua giardinetta», noi immaginiamo, ad esempio, un uomo vestito secondo l’usanza campagnola degli anni 40 che avvia una Fiat Topolino e si mette in marcia lungo una strada sterrata. A guidarci verso questa interpretazione non è il significato delle parole, ma il loro gusto, o il loro odore, la loro capacità di farci immaginare ciò che, a rigore, esse non dicono. Stando ai puri significati, Adelmo potrebbe essere un neopatentato di oggi (ci sarà almeno un diciottenne in Italia che si chiama Adelmo) e la sua «giardinetta» potrebbe essere tale solo perché fino alle soglie degli anni Duemila la Motorizzazione Civile ha utilizzato quella dicitura sui libretti di circolazione, ma, a meno di non essere smentiti dall’evidenza, noi tenderemo a scartare queste ipotesi, perché la comunicazione non richiede quasi mai una pura decodifica, ma implica una partecipazione interpretativa.
L’esempio, assai banale, riportato qui sopra apre una questione fondamentale per chiunque debba occuparsi di educazione linguistica e di formazione dei giovani: quali competenze occorrono per poter utilizzare pienamente la lingua? Per rispondere dobbiamo prima soffermarci sul concetto di «competenza». Negli ultimi decenni, la didattica si è innamorata di questa nozione. Oggi, a scuola, non si parla più di programmi da svolgere, ma di competenze da raggiungere. La competenza sposta l’attenzione dal «sapere» al «saper fare», dalla conoscenza all’operatività. Nel campo linguistico, ad esempio, la conoscenza delle regole grammaticali passa in secondo piano rispetto alla capacità di utilizzare la lingua per operazioni quotidiane come compilare un modulo o leggere un manuale di istruzioni; scompare definitivamente l’idea del sapere come ricchezza personale e si afferma quella del sapere come strumento asservito a un qualche scopo più o meno pratico.
Il rischio è però quello di ridurre la lingua a un sistema «per capirsi» o per ottenere un risultato accettabile. Negli ultimi anni, i professori che hanno fatto notare ai loro allievi l’uso improprio di un certo termine (ad esempio «reticente» al posto di «riluttante») si sono spesso sentiti rispondere: «Ma tanto ci siamo capiti lo stesso». Se la lingua fosse solo un sistema per capirsi, per mettersi d’accordo, forse avrebbero ragione gli studenti svogliati, ma la lingua è un modo per trasferire emozioni e per creare immagini e sfumature. Per questo, se vogliamo continuare a seguire la strategia educativa che la comunità internazionale, non senza qualche leggerezza, considera vincente, vale a dire quella delle competenze, dobbiamo fare in modo che, anche a scuola, il sapere non venga subordinato solo alle finalità operative, ma venga reso funzionale anche alla sublime inutilità dell’atto creativo.


Quei refusi di 2500 anni fa sui palazzi imperiali di Persepoli

Anche nelle antiche iscrizioni di 2500 anni fa, sulle pareti dei palazzi imperiali di Persepoli, in Iran, c’erano errori di ortografia. Queste antiche iscrizioni della dinastia achemenide - pannelli in caratteri cuneiformi incisi su pietra grigia - erano manifesti propagandistici di grande importanza, redatti dagli scribi di corte, ma incisi da artigiani che a volte incorrevano in qualche refuso. Li ha scoperti il filologo Adriano Rossi, dell’Università Orientale di Napoli, che ha lavorato a lungo in Iran, dove ha illustrato ai colleghi locali il metodo di studio che gli italiani applicheranno alle iscrizioni dei palazzi imperiali di Persepoli-Pasargade (Ciro il Grande, Dario, Serse e successori, 560-330 a.C.). «Possiamo avere diversi tipi di errori nelle iscrizioni trilingui (antico-persiano, elamico, babilonese) achemenidi. A volte si tratta dell’omissione di un segno cuneiforme, in altri casi si tratta di segni scritti in modo che noi riteniamo “sbagliato” dal punto di vista dell’ortografia», dice Rossi. In quest’ultimo caso, per esempio, in un testo antico-persiano, il nome del grande dio della dinastia achemenide, Auramazda, è scritto come se Aura e Mazda fossero due parole separate, anziché una sola.

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