domenica 16 marzo 2014

L’incontro di Enzo Biagi con Eugenio Montale

“Ai falsi letterati preferisco gli analfabeti”

Enzo Biagi

"il Fatto", 16 marzo 2014

L’INCONTRO CON EUGENIO MONTALE, UNO DEI PIÙ GRANDI POETI DELLA STORIA ITALIANA: TRA LA SUA PRESUNTA PIGRIZIA, LA LUNGA ESPERIENZA COME SENATORE (“NON CREDEVO, MA I POLITICI LAVORANO”); LA SUA SCARSA VOGLIA DI MONDANITÀ (“SAREI CONTENTO SE ISTITUISSERO L'UNDICESIMO COMANDAMENTO: NON SECCARE IL PROSSIMO”). E IL SUO RAPPORTO CON LA VECCHIAIA (“HO 77 ANNI, MA SONO GLI ALTRI A RICORDARMELO”)

Come ti vedi? Se dovessi tracciare un rapido ritratto di Montale, che cosa diresti?
Non ho mai saputo quale faccia dovessi avere davanti al mondo. Gli eventi mi hanno modificato. Sono diventato giornalista dopo i cinquanta, quando si va quasi in pensione. Mario Borsa mi invitò a collaborare al Corriere della Sera, poi entrai in redazione. Ho tradotto anche il primo volume delle memorie di Churchill. Guglielmo Emanuel, che aveva sostituito Borsa, non voleva articoli di critica letteraria; i viaggi li ho fatti a mie spese. Non ho mai deciso nulla, cosa fare, dove andare. Nel 1929 diventai direttore, bibliotecario, del Gabinetto Vieusseux, a Firenze. Paolo Emilio Pavolini mi presentò al podestà, il conte Della Gherardesca. Nel 1939 si impose il Circolo di cultura fascista e mi licenziarono perché non avevo preso la tessera del partito; ebbi 18 mila lire di buon'uscita. 
Che cos'è per te il fascismo? È la sopraffazione al posto della convinzione. È nato sul ritardo dei treni, sulla lentezza del governo. Tutti dicevano: ‘Non si può andare avanti’, salta fuori quella specie di scalmanato, e promette ordine, disciplina. Anche gli stranieri ammiravano il Duce e io stavo bene attento, quando venivano in biblioteca, a far chiacchiere. Prova a definirti. Sono poco adatto alla vita, sempre sulla difensiva, ho sempre cercato di non sporcarmi le mani. Mi giudicheranno gli altri. 
Chi ha detto che sei “un opportunista scettico e rinunciatario”? Come si può spiegare un'affermazione così severa? 
Non lo so, non so se è un mio nemico. Non credo di averne molti. Forse perché ho fatto qualcosa a favore del divorzio, che al Senato è passato con pochissimi voti. Il problema è stato impostato in maniera tanto ridicola e la gente pensa che divorziare sia obbligatorio. Obbligatorio era il matrimonio, ai tempi di Mussolini.
Quali sono, per te, i peccati più gravi, e quelli che meritano più indulgenza?
Domanda un po' strana: l'invidia è terribile cosa, e anche l'avarizia. Meritano comprensione quelli che, per tenersi a galla, si arrangiano, si adattano, usano anche armi sleali.
Che cosa ti hanno portato gli anni, e che cosa ti è mancato?
Nulla di sostanziale, anche perché non avevo un programma. Se la vita è un labirinto, sono passato in mezzo a innumerevoli interstizi senza riportare gravi danni, non so se per abilità, forse per caso.
Qual è il tipo di uomo che ami di più?
I buoni, per il loro modo di pensare e di vivere, ma non so poi dove siano, naturalmente.
Qual è il tuo ricordo più drammatico? 
Forse la fucilazione di quel soldato che aveva rubato un orologio, e gridava al plotone di esecuzione: “Non uccidetemi. Sono figlio di un professore di geografia”? Vidi un cervello saltare in aria. Non era uno del mio reparto. Avevo un attendente che non sapeva né leggere né scrivere, e mi portava in spalla per scendere dalle rupi. Il mio torace era così sottile che avrei potuto chiedere l'esonero, ma non ho mai fatto niente per imboscarmi. La Prima guerra mondiale ha suscitato in me una grande ammirazione per l'Austria-Ungheria; ho trovato una civiltà migliore della nostra. Anche adesso, in certe regioni, sembra di non essere in Italia. Capisco però che quell'impero non poteva durare in eterno. Morti ne ho poi visti tanti, anche durante la Seconda guerra, a Firenze, anche sulla strada, perché i tedeschi tiravano da Fiesole. Sono un po' sorpreso dalla grande velocità del tempo, non so se a te succede, passa tanto in fretta, mentre quando ero giovane no.
Questo ti rattrista?
Un po', certo, io non mi accorgo di andare verso i settantasette, ma gli altri sì, e me lo fanno capire, con accenni: “Voi anziani”. Il cuore pare che non invecchi, ma invecchia tutto il resto. Caro Enzo, pensi che avremo presto un governo comunista?
No.
Non lo credo neanch'io. Forse non lo vogliono neppure loro. Pensi che la lira vada a zero?
Proprio a zero, no. Giù, certo.
Allora aumenteranno gli stipendi.
Hai detto: “Gli intellettuali italiani intervengono sempre al momento sbagliato”.
Già. E poi chi sono gli intellettuali? I giornalisti sì e no. Non hanno peso nella politica e neppure nella vita. Si lasciano vivere. 
Dimmi: ma che cosa succederà dei giovani di oggi? Sono diversi da quello che eravamo noi, che eravate voi?
Hanno fatto delle esperienze.
Ma perché è stata scoperta la gioventù? 
Mio padre non mi ha mai detto: ‘Sei giovane, hai diritto di godertela, sei libero, sii beato’. Questa è la vera invenzione del nostro secolo, in senso morale, si capisce.
Sono una forza. Contano, votano, acquistano.
Ricordo che sotto Giolitti c'era il collegio uninominale. Mio padre votava a Levanto, duecento persone, niente donne, niente analfabeti, niente poveri, bisognava pagare le tasse. Dall'attuale elettorato, nove decimi sarebbero tagliati fuori. Ma perché i giovani vogliono la laurea, il diploma? Non capisco perché. Dovrebbero ammirare quelli che non sanno niente .
Che cosa resterà della poesia contemporanea?
Chi lo sa? Ogni generazione cercherà di distruggere i poeti di quella precedente. Per ora la civiltà delle immagini ha declassato le altre attività creative.
Che cosa ti infastidisce di più?
L'ignoranza, non quella semplice; quella di chi crede di sapere, la boria, la saccenteria, tutto quello che rende antipatico un individuo e che, d'altra parte, ne favorisce anche l'affermazione.
Qual è stato il momento più lieto della tua storia?
I due o tre anni che seguirono la Prima guerra. Mi sentivo abbastanza giovane, ma non lo ero. Non ho mai praticato nessuno sport; una felicità fisica non l'ho mai conosciuta.
Frequentando Palazzo Madama, che idea ti sei fatto dei nostri politici?
Credevo che non facessero nulla, invece sono enormemente indaffarati, hanno borse cariche di documenti, vanno e vengono. Non so se le cose le fanno bene, anzi, ne dubito, ma ne fanno moltissime.
Di te dicono che sei un pigro.
Non sono molto attivo, questo è vero, ma se pigrizia è anche tendenza alla riflessione, sì, un po’ me la posso riconoscere. Tendo sempre a ritardare le cose, poi quando mi decido, scopro che era meglio non averle fatte. Non credevo di arrivare a questa età: mi devo considerare fuori gioco; fuori tutto, un pensionato della vita?
Hai visto qualche film di Pasolini? Che ne pensi dell’esplosione del sesso?
Non ho visto nulla. Ho parlato con un urologo, mi ha detto che una grandissima percentuale dei giovani è impotente. Non so se è vero. Quando il sesso era misterioso aveva un certo fascino che ora non ha più. I nostri antenati amavano donne che portavano sei paia di mutande, e destavano passioni che oggi non suscitano più.
C’è qualche legge che vorresti proporre?
L’abolizione della caccia, o almeno dell’uccellagione. Ma non si farà: un milione e mezzo di italiani hanno la licenza e rappresentano un bel numero di voti.
Come ricordi gli scrittori, i poeti che hai conosciuto? Svevo, Joyce, Eliot, o chi ancora?
Thomas Eliot l'ho visto nel suo ufficio d'impiegato di banca, a Londra, e poi due volte a Roma, era molto avaro della sua personalità, non si spendeva tanto, dopo un quarto d'ora la segretaria faceva un cenno, e il colloquio finiva. Era molto conservatore. Ezra Pound invece era tanto gentile, e un eccellente giocatore di tennis. Italo Svevo aveva una mentalità da industriale, apprezzò poco i miei articoli, tra me e lui c'era odore di trementina. Anche mio padre commerciava in resine, acquaragia, prodotti chimici. Lui, come romanziere, in famiglia non era molto apprezzato. Con James Joyce ho avuto una lunga corrispondenza.
Come trascorri le tue giornate?
Prendo dei sonniferi e leggo. Qualche volta esco. Ogni tanto vado a Roma al Senato.
Una volta mi hai detto che leggevi spesso libri gialli.
Ora non più. Li leggevo in lingua originale, mi servivano per imparare l’inglese. Ero molto curioso di sapere chi era l’assassino, questo mi aiutava a fissare nella memoria le parole.
Fai una vita molto ritirata, nonostante i tanti inviti mondani.
Sarei contento se istituissero l'undicesimo comandamento: non seccare il prossimo. Le riunioni mondane le detesto, come le signorine che scrivono versi e pretendono giudizi, i falsi intellettuali e gli esibizionisti. Preferisco stare con gli analfabeti. Da loro c'è sempre da imparare. Possiedono alcuni concetti fondamentali, quelli che contano. Purtroppo, pare ne siano rimasti pochi.

Quel dialogo fra due colleghi che si stimavano
Il poeta e il giornalista si erano conosciuti lavorando assieme al "Corriere della Sera"

Loris Mazzetti

Eugenio Montale è stato definito il poeta del “male di vivere” e l’intervista di Enzo Biagi, che il Fatto Quotidiano pubblica oggi, è l’esempio di questa sua inquietudine. Sono rare le sue interviste perché l’indole porta il poeta a stare lontano dagli altri. Montale è colui che “vorrebbe ma non sa”, dotato di una grande incapacità di partecipare alla vita che lo circonda. Per lui è la poesia il ponte tra la sua solitudine e il mondo intero. L’incapacità di comunicare non lo isola “anzi potenzia sia l’intelligenza critica sia la sensibilità emotiva”.
L’infanzia malata e le tre lauree ad honorem
Nacque a Genova in una famiglia borghese, il padre era socio in un’azienda di prodotti chimici. Era un bambino malato, i suoi studi si fermarono alla terza tecnica, le lauree arrivarono successivamente: tre ad Honorem.
La sua cultura non ne risentì, anzi, come autodidatta non subì condizionamenti nei suoi studi su Dante, Petrarca, Boccaccio, D’Annunzio. Disse: “In Italia anche per diventare poliziotto bisogna essere dottore”. L’unico titolo di cui andava orgoglioso e che usava sull’elenco del telefono era quello di “giornalista”. L’intervista fu realizzata per La Stampa, era l’elzeviro di Terza Pagina, pubblicato il 24 febbraio 1973 con il titolo: “Montale”, all’interno della rubrica di Biagi “Dicono di lei”. Nel 1971 Biagi era tornato al Resto del Carlino come direttore. Era convinto dirimanereaBolognapersempre: la direzione durò solo un anno. L’editore, il petroliere Monti, su sollecitazione del ministro del Tesoro Preti, lo licenziò. Come tutte le altre volte che fu licenziato (Epoca, il telegiornale), il quotidiano di Torino gli aprì le porte. Lì, negli anni precedenti, conobbe Giulio De Benedetti che lo riprendeva al giornale con la solita battuta: “Che bella notizia, la prossima settimana parti e fai l’inviato per noi”. Per Biagi, De Benedetti fu un grande direttore e fu l’unico che lo fece piangere. Accadde nel 1963 in occasione dell’assassinio di Kennedy. Biagi era in America per la Rai e stava facendo delle riprese lungo il Mississippi, alla notizia dell’attentato entrò nella prima cabina telefonica e dettò a braccio agli stenografi de La Stampa un pezzo di cronaca, raccontando cosa succedeva negli Stati Uniti contemporaneamente all’omicidio. De Benedetti si aspettava un pezzo carico di emozioni, di lacrime, di sentimenti.
L’articolo non venne pubblicato e Biagi se ne andò dal giornale. Poi vi ritornò l’anno dopo. Tra Montale (classe 1896) e Biagi vi erano ventiquattro anni di differenza. Nell’intervista i due si danno del tu perché erano amici e al Corriere della Sera erano stati colleghi. Montale nel dopoguerra cominciò a scrivere per il Corriere d’informazione, poi divenne un collaboratore del Corriere della Sera.
Subito dopo arriva il Nobel per la Letteratura
L’intervista fu fatta prima del Premio Nobel per la Letteratura (12 dicembre 1975): “Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”. Durante la consegna del Nobel il poeta ringraziò con una domanda: “È ancora possibile la poesia? In un mondo nel quale il benessere è assimilabile alla disperazione e all’arte, ormai diventata bene di consumo, ha perso la sua essenza primaria? Questo delle domande fu una sua caratteristica, infatti lo stesso Biagi scrisse nella presentazione del pezzo: “Montale non si intervista; è lui che, ogni tanto interroga. Vuol sapere che cosa succede, o quello che pensi. Va poco in giro ma sa tutto: è curioso, non pettegolo, e segue anche i fatti della cronaca minuta”. Dalla presentazione si intuisce che Montale era un conversatore molto piacevole e le sue battute nascondono nel paradosso la verità, con sapiente uso dell’ironia anche nei confronti di se stesso. Confidò a Biagi che da ragazzo sognava di diventare un cantante famoso: “Forse non ero abbastanza stupido, per riuscire occorre un misto di genialità e di cretineria”. L’intervista fu fatta nella casa milanese dove viveva in solitudine “affollata di notizie e di pensieri”, nella sua stanza “da cui Montale vede il mondo”. Scrisse Biagi: “Sa tutto: libri che si vendono, quello che accade nei giornali, le manovre del potere. E di tutto parla con ironia e distacco. Siamo soli. Tutto è tranquillo. Di là Gina sta stirando le camicie”. Il suo primo editore fu Piero Gobetti che nel 1925 gli pubblicò Ossi di seppia.
Secondo certi critici, Eugenio Montale, in cinquant’anni, ha scritto soltanto duecento poesie. Nel 1967 il presidente della Repubblica Saragat lo nominò senatore a vita. I riconoscimenti ricevuti non lo esaltavano: “Non attribuisco nessun particolare privilegio all’artista nella società, nessun merito speciale”.

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