venerdì 21 marzo 2014

Io e Jane. L’ultima seduzione della signorina Eyre


Quali sono gli ingredienti che fanno del romanzo di Charlotte Brontë 
uno dei classici più amati?
Mentre esce una nuova traduzione, la risposta di Tracy Chevalier

Tracy Chevalier

"La Repubblica", 21 marzo 2014


Per quale motivo Jane Eyre è un classico? Perché quest’opera è tanto amata e costituisce uno dei tratti distintivi del panorama letterario britannico, accanto a Grandi speranze di Dickens e Orgoglio e pregiudizio della Austen? Di fatto, il romanzo scritto da Charlotte Brontë nel diciannovesimo secolo si mantiene costantemente ai vertici delle classifiche di vendita. Non è mai andato fuori catalogo e vanta una trentina di adattamenti cinematografici e televisivi, oltre ad aver ispirato pièce teatrali, opere, musical e balletti. Viene studiato a scuola e non vi è chi non sia in grado di citare la sua frase più celebre (l’attacco dell’ultimo capitolo, ma non andate a leggerlo, se non volete scoprire “come va a finire”). Cos’ha di tanto attraente la storia di una povera orfanella che fa innamorare il suo sventurato datore di lavoro?
Che la storia sia avvincente è innegabile. Una fanciulla umile e inerme, un uomo burbero, se non crudele, una passione inaspettata, sullo sfondo di una grande casa che nasconde un segreto scabroso: sono questi gli ingredienti che incitano il lettore a voltare pagina pungolandone la curiosità. La prosa è nitida e denota un buon equilibrio fra lo sviluppo della trama e le parti descrittive che non sommergono il lettore del Ventunesimo secolo, avvezzo a un ritmo più serrato. Anche il modo in cui Charlotte Brontë rappresenta i conflitti psicologici ci sorprende per la sua modernità: comprendiamo fino in fondo i pensieri e i sentimenti della protagonista, i suoi affanni diventano i nostri. Non ci appare una figura antiquata o estranea, bensì familiare. Tuttavia il romanzo non è privo di smagliature. La vicenda stenta ad avviarsi indugiando troppo a lungo, per gli odierni standard narrativi, sull’infanzia di Jane – dapprima a casa della zia e poi all’orfanotrofio dove è sempre affamata. Il protagonista maschile, Edward Rochester, proprietario di Thornfield Hall, la casa dove Jane viene assunta come istitutrice, appare solo a pagina 170. Il colpo di scena che avviene dopo due terzi della trama è anticipato fin troppo scopertamente per lo smaliziato lettore contemporaneo. E l’ultima parte del romanzo prende una piega un po’ bizzarra, con Jane contornata da nuovi personaggi che non abbiamo il tempo di assimilare.
Ma sono difetti veniali che scompaiono dinanzi al sontuoso ritratto della protagonista, Jane Eyre, alla maestria con cui ci viene narrata la sua storia d’amore con il signor Rochester. Ecco due figure che sembrano fatte apposta per dare speranza a chi non si sente perfetto, ovvero a tutti noi. Jane è una ragazza come tante, che ha di fronte una vita grama e faticosa. Rochester è un uomo volubile e scontroso che, in gioventù, ha compiuto un madornale errore di valutazione. Lei è povera, lui agiato. Lei non ha nessuno al mondo, lui è a capo di una famiglia numerosa. In una società rigidamente divisa in classi, non dovrebbero stare insieme, e ne sono entrambi consapevoli. Eppure, s’innamorano e vivono una storia meravigliosa. Sarebbe stato comprensibile se, durante il loro primo incontro, Jane si fosse lasciata intimidire dalla gelida arroganza del signor Rochester; in tal caso non sarebbe nato alcun legame fra loro, al di là di quello fra un padrone distaccato e una dipendente apprensiva. Ma Jane non è in soggezione, non sembra intimorita. Reagisce con calma, rimane padrona di sé. Anzi, lo stuzzica, si fa civettuola. (Per un ipotetico studio del flirt in letteratura, Orgoglio e pregiudizio mostra l’approccio faceto, Jane Eyre quello meditato). Il corteggiamento funziona solo se i partecipanti si pongono sullo stesso piano. È la stessa Jane a spiegare che se il signor Rochester fosse giovane e bello non oserebbe mettersi a conversare con lui. Ma l’uomo dimostra almeno quindici anni più di lei e non è di certo avvenente: ha «tratti austeri e sopracciglia folte», lo sguardo torvo e un parlare aspro. Ha perfino la sfacciataggine di chiederle se lo trova bello e la risposta schietta di lei lo lascia di stucco. Conquistandolo.
È questa la vera novità di Jane Eyre, ovvero che una giovane donna senza famiglia, né patrimonio alcuno, possa, in una società classista, considerarsi allo stesso livello di un possidente. Ed è ancora più straordinario che il signor Rochester condivida la sua valutazione. Forse è per questo che i lettori amano questo romanzo: ci rammenta che non siamo poi così condizionati dall’estrazione sociale. La personalità e la forza di carattere giocano un ruolo importante nei nostri destini. Ed è sorprendente che un’idea del genere provenga da una donna con un background decisamente conservatore. Figlia di un pastore protestante, Charlotte nacque nel 1816 e crebbe con il fratello e quattro sorelle a Haworth, un villaggio nel nord dell’Inghilterra. Aveva cinque anni quando perse la madre e i bambini furono accuditi da una zia. Le due sorelle maggiori morirono di tubercolosi, la malattia che si sarebbe rivelata fatale per tutti i Brontë. I sopravvissuti, Anne, Emily, Charlotte e Branwell (l’unico maschio) giocavano insieme e si divertivano a scrivere novelle, commedie e poesie. In quanto figli di un chierico, erano istruiti ma poveri, appartenevano alla classe media dal punto di vista intellettuale, ma le ragazze non avevano i mezzi per trovare un buon partito e Branwell non poteva affermarsi nel commercio o nella libera professione. Questo sfondo è significativo, perché indica come Charlotte Brontë avesse sperimentato, in prima persona, il disagio sociale che Jane Eyre avverte così acutamente. Lavorò lei stessa come istitutrice [...].
La figura dell’istitutrice, ricca di erudizione ma non di quattrini, viveva a cavallo fra due classi sociali e aveva un che di inquietante agli occhi di molti, perché, ponendosi al di fuori della gerarchia tradizionale, pareva mettere in discussione la struttura stessa su cui si fondava la società. La gente era affezionata a regole ed etichette e non voleva che fossero rimescolate. Di conseguenza, le istitutrici erano spesso oggetto di scherno, perché in ultima analisi non appartenevano né alle famiglie, né alla servitù. In Jane Eyre, Blanche Ingram, la ricca e seducente rivale della protagonista, si beffa apertamente della categoria e arriva a dire che Jane «non sembra abbastanza sveglia» per giocare alle sciarade con il resto della compagnia. Jane Eyre, in realtà, è sveglia, eccome. Non solo: è consapevole di sé. A dieci anni, l’arcigna zia per punire la sua caparbietà, l’aveva fatta segregare nella “camera rossa”, dove qualche tempo prima era morto l’amato zio di Jane. Chiusa nella stanza, la bambina aveva avuto quello che oggi definiremmo un “attacco di panico”, mettendosi a gridare come un’ossessa e perdendo conoscenza, per lo sgomento della zia. Da adulta, Jane torna con la memoria a quel momento e ne coglie a pieno l’importanza, senza l’aiuto dell’analisi freudiana, o delle terapie psicologiche di cui disponiamo oggi: capisce che in tale occasione la sua vera natura si era manifestata in assoluta libertà. L’episodio della “camera rossa” serve così a rammentarle, che a prescindere da come la giudicano gli altri, è una donna di valore e sostanza, una donna che ha qualcosa da dire. La forte personalità della protagonista è da sempre una delle ragioni per cui il romanzo affascina i lettori. [...] Charlotte pubblicò Jane Eyre sotto lo pseudonimo, vagamente androgino, di Currer Bell, forse perché sperava così di incrementare le vendite, in un’epoca in cui le scrittrici godevano di una stima assai minore dei colleghi di sesso maschile. Tuttavia, la perspicacia con cui viene descritta la protagonista indusse più di un lettore a supporre che la mano fosse quella di una donna. Solo il favore incontrato dal romanzo convinse la Brontë a svelare la propria identità: dietro il nome d’arte Currer Bell si nascondeva la timida figlia di un parroco dello Yorkshire.
Prima che la tubercolosi ponesse termine precocemente alla sua vita, nel 1854, Charlotte scrisse altri tre romanzi – Shirley, Villette e The Professor, nessuno dei quali, peraltro, eguagliò il successo di Jane Eyre. Perché è Jane a sedurci: un personaggio potente che, grazie alle tempra morale e all’autostima, riesce a superare le avversità e restare al fianco dell’uomo che ama. I lettori non possono far altro che gioire insieme a lei.
(Traduzione di Massimo Ortelio)

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