domenica 16 marzo 2014

Il vecchio Leopardi si vergogna del giovane autore dell’Infinito


Walter Siti

"La Repubblica", 16 marzo 2014

Studiandola a scuola spesso ci si dimentica che è la poesia di un ragazzo appena ventunenne; precoce sì, ma fino a quel momento aveva scritto (da tenere per il futuro) solo due enfatiche canzoni patriottiche e delle terzine d’amore inventate su una parente venuta in visita. Qui di colpo cambia tutto, nasce una musica. Lo chiama “Idillio primo”, pensando agli idilli di Mosco (un poeta alessandrino della Magna Grecia) che aveva tradotto; per esempio l’idillio quinto («in selva oscura/ seder m’è grato, mentre canta un pino/ al soffiar di gran vento»). Vuole scrivere una cosa breve, intima, di contatto con la natura; ha il mito degli antichi greci e della loro “ingenuità”, come aveva letto in Schiller. In un suo scartafaccio di appunti aveva notato, per lodare i classici rispetto ai romantici, che gli antichi descrivono la natura con spontaneità, semplicemente indicandone gli elementi («quell’albero, quell’edifizio, quella selva, quel monte») e grazie a una specie di stupore infantile «ci rapiscono, ci sublimano e ci immergono in un mare di dolcezza». Anche lui vuol fare come i greci, ma da inesperto esagera: a forza di indicare ci mette otto aggettivi e pronomi dimostrativi («questo», «quello») in quindici versi. Quasi senza volere crea qualcosa di inedito nella poesia italiana: invece di raccontarci un’esperienza già fatta, o abituale, ci racconta un’emozione intellettuale e psichica che lui stesso sta scoprendo in quel momento; qui, adesso, mentre sto seduto e guardo, e immagino, tanto che, e poi succede un’altra cosa, e allora io, e così… Ci porta dentro, nella lirica come istante.
La cornice è chiara, il primo e l’ultimo verso sono endecasillabi cristallini, tant’è vero che tutti li abbiamo nella memoria; ma all’interno del testo il ritmo procede per onde successive, la sintassi segue l’emozione della scoperta e travolge la metrica. Gli endecasillabi sciolti non permettono alla voce di fermarsi, si inarcano gli uni sugli altri; le inarcature più forti (interminati/ spazi; sovrumani/ silenzi; quello/infinito; questa/immensità) si trovano negli snodi-chiave del senso, dove si parla dell’infinito.
Il ventunenne è sul Monte Tabor, una collina “erma”, cioè solitaria, non lontano dal suo palazzo di Recanati; forse ciò che gli toglie la visuale non è nemmeno una siepe ma un fittume di sterpi (in una prima versione aveva scritto “questo roveto”, poi corretto nobilitandolo in “questo lauro”; “siepe” è un compromesso ragionevole). Scopre che gli ostacoli favoriscono l’immaginazione e che il troppo immaginato fa paura; in un altro appunto dell’epoca racconta che una voce lo chiama a cena mentre fantastica sull’infinito e che di colpo «mi parve un niente la vita nostra… e tutta la storia». Il ragazzo è di nervi fragili, facile agli estremismi; basta uno stormire di foglie e gli salta addosso tutta la sproporzione tra il velleitarismo dei sogni e la pochezza del quotidiano, tra il presente meschino e l’eternità. Ma invece di lottare si abbandona, forse ricorda il quaresimale di Paolo Segneri, un predicatore seicentesco che ha studiato («assorbito nel vasto oceano di una grandezza infinita, il mio spirito amerà di andare eternamente annegandosi in un giocondo naufragio di contentezza»). Solo che il mare in cui il ragazzo si perde non può essere Dio, in cui non crede più – può essere soltanto il mare filosofico dell’assenza di limiti; che è anche, segretamente, il mare dolce della bellezza ottenuta col canto. (Ma “colle” e “mare”, che inquadrano il testo, sono anche i principali elementi del paesaggio marchigiano).
L’anno dopo su queste emozioni ingenue comincerà a riflettere; non accontentandosi di annegare nell’infinito, vorrà possederlo. «Sempre adorata mia solinga sponda»: tenta di riciclare l’incipit nell’abbozzo di una poesia su Saffo, ma già la poetessa (fisicamente brutta) si lamenta che la siepe la deruba del panorama che concede ai belli. Il desiderio è il demone che porta all’infelicità. Tra i 22 e i 26 anni Leopardi, in un violento processo di razionalizzazione, mette a punto un sistema di logica spietata: gli uomini desiderano l’infinito ma nell’universo l’infinito non esiste, dunque gli uomini sono destinati a non soddisfare mai il proprio desiderio. Se non auto-imbrogliandosi, contrabbandando l’indefinito per infinito. “Dolci” e “cari” saranno ormai, nella sua poesia adulta, solo gli “inganni”. Quando, nel 1835, proverà a ordinare il suo libro di poesie come se fosse un romanzo, dovrebbe mettere cronologicamente L’infinito al primo posto tra gli idilli, subito dopo le canzoni; invece si inventa un falso d’autore – finge che il Passero solitario, un testo del 1832 o 1833, sia invece stato scritto a vent’anni. La situazione è più o meno la stessa, anche lì il ragazzo si apparta «romito e strano» verso la campagna; ma non ignora gli altri ragazzi che intanto si guardano a vicenda. L’infinito non regge alla prova, lo sguardo solitario perso all’orizzonte sarà solo fonte di rimpianto nella vecchiaia. Decidendo di farlo precedere dal Passero nella raccolta, è come se Leopardi si vergognasse un po’ della sua poesia più famosa, dello “spaurarsi” e del naufragare. È come se ci dicesse “così ingenuo lo sono rimasto per poco, il canto già funzionava ma il pensiero no”.

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