lunedì 3 marzo 2014

“Biermann, Christa Wolf e gli altri non capivano ma si adeguavano”


L’accusa del poeta Uwe Kolbe, 
che nel suo primo romanzo racconta gli anni della Ddr: 
erano gli intellettuali a legittimare Honecker

Tonia Mastrobuono

“La Stampa“, 2 marzo 2014

Della «dittatura dei piccoloborghesi» Uwe Kolbe non voleva riesumare soltanto la sua storia personale. Quella di un enfant prodige della poesia che con la caduta del Muro scopre, come milioni di tedeschi, di essere spiato da una persona amata. In questo caso addirittura dal padre, un alto ufficiale della Stasi. Come per prendere le distanze da quel passato, dal quartiere di Berlino Est, Prenzlauer Berg, che ha battezzato uno dei circoli letterari più famosi della Ddr e che lo ha cresciuto, Kolbe ci dà appuntamento in un famoso caffè dietro l’«isola dei bevitori furbi», come l’ha chiamata in una poesia recente, dietro Savignyplatz, nella parte occidentale della città. E il tema principale della nostra conversazione è una ferocissima resa dei conti con quegli ambienti, con gli intellettuali della Germania Est, anche con icone intoccabili come Christa Wolf, Heiner Müller e Wolf Biermann, che il poeta ritiene corresponsabili della lunga sopravvivenza del regime.
Kolbe vive ormai a Amburgo ed è nella capitale per presentare il suo primo, bellissimo romanzo, Die Lüge (La bugia, ed. S. Fischer), che effettivamente racconta un rapporto tra padre e figlio fatto di menzogne e tradimenti. Allude al conflitto sin dai nomi, Hildebrand e Hadubrand, presi in prestito dal primo poema della letteratura tedesca, dalla medievale Canzone di Ildebrando, dove i due eserciti di padre e figlio si affrontano in battaglia e il primo uccide il secondo. Ma nonostante le apparenze, le somiglianze anche biografiche – il padre è un comunista convinto, il figlio un artista che diventa famoso quando è ancora molto giovane – il romanzo tratta di altro. 
In alcune opere più vecchie, Kolbe aveva già fatto i conti con il suo passato doloroso. Qui si tratta piuttosto di raccontare il regime e i suoi corresponsabili, che agli occhi di Kolbe sono gli scrittori, i poeti, i musicisti «che ballavano sul Muro, che si giostravano tra roboante opposizione e adeguamento, che facevano i funamboli, sprecando le loro energie e le loro intelligenze critiche per qualcosa che non esisteva. Non hanno mai capito che non c’era un interlocutore, un destinatario dei loro messaggi. Avrebbero dovuto dire “il re è nudo”, come pochissimi hanno fatto. E anche quelli che andavano via, che andavano in Occidente, hanno continuato a fornirci le loro inutili analisi marxiste della realtà».
Il regime di Honecker, un personaggio talmente ridicolo, sottolinea Kolbe, «che Chaplin non avrebbe potuto neanche caricaturarlo in un altro Grande dittatore», aveva certamente degli aspetti raccapriccianti, «di cui abbiamo parlato mille volte, la repressione, la Stasi, eccetera». Ma il tema, sottolinea, «è anche che Honecker era una figura piccola, squallida, un borghesuccio, come si capì pure quando ci fecero vedere quelle ridicole villette dove viveva, a Wantlitz». La verità, «che molti ancora faticano a vedere, è che Honecker e i suoi avevano una paura tremenda. E presidiavano una zona di potere vuota. Il problema è: chi li legittimava? È chiaro: gli intellettuali. Ed è con loro che faccio i conti». Tanto è vero «che il primo impulso era stato di titolare il libro “Indolenza”».
L’indolenza è quella del suo alter ego, Hadubrandt – «perché è ovvio che con il libro non voglio soltanto far male ad alcuni di quella generazione, ma anche, in parte, a me stesso» –, che attraversa decenni di spensierata vita da artista, oscillando tra adattamento al regime – per non perdere il successo garantito in primo luogo dalla benevolenza dell’apparato – e accenni timidi di reazione. Ma che è dedito soprattutto «allo sfrenato edonismo tipico della Ddr, vietato ma diffusissimo», che colleziona donne, figli e colossali bevute. Il protagonista è «un marxista ribelle che si oppone a parole ma poi è attratto dalla sirena del successo. Per me Hudubrandt è una “pars pro toto”, è quel miscuglio di ribellione e adeguamento che disgraziatamente caratterizza ogni regime». Ecco perché il romanzo non è ambientato esplicitamente nella Ddr.
I personaggi, però, sono riconoscibilissimi. C’è il suo mentore, Franz Führmann, che fu un oppositore della dittatura e che nel libro è tra le rare figure positive, così come appaiono altri famosi intellettuali come Heiner Müller «colpevoli di essere ribelli riluttanti» o Wolf Biermann «che andò all’Ovest per diventare che cosa? Il più grande critico comunista dei comunisti». E Christa Wolf, che non è mai citata nel romanzo, ma che fu vittima, in uno dei più famosi romanzi sul Muro, Eroi come noi, di una lunga stroncatura da parte di un altro scrittore di Berlino Est, Thomas Brussig? «È l’esempio lampante dell’intellettuale che non prende posizione, che spreca energie per qualcosa che non esiste». Per Kolbe, «alla fine la riflessione vera è la seguente: come ha potuto durare 40 anni questo presunto “paradiso in terra”, che non era altro che un teatro dell’assurdo, un regime che aveva ereditato uomini e strutture del Terzo Reich? E perché gli intellettuali sono stati lì a difendere l’utopia contro il reale? Un fatto vero è che gli intellettuali tedeschi non erano anticomunisti, non erano liberali, non erano cattolici come Solidarnosc. E hanno cullato questo sogno assurdo della Terza via. Persino quando crollò il Muro, lo avrebbero voluto lì, per un altro po’, per fare esperimenti socialisti. Un popolo intero li ha giustamente mandati a quel paese».

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