lunedì 10 febbraio 2014

Storia della lingua. L'italiano andò in America



Fu Lorenzo Da Ponte, autore dei libretti più celebri di Mozart, 
che all'età di 80 anni da innamorato dei nostri classici, 
li lanciò insieme all'insegnamento della lingua

Nicola Gardini

''Il Sole 24 ore - Domenica'', 9 febbraio 2014

Come certi grandi fiumi o imperi dell'antichità, anche le discipline accademiche possono formarsi da stente origini. È il caso dell'italianistica americana. Oggi, pur menomati dalla diffusa crisi antiumanistica, gli «Italian Studies» vengono praticati in decine di dipartimenti, per tutto il paese; alimentano carriere, spesso prestigiose e remunerative, corsi di laurea e dottorati, biblioteche, convegni, associazioni e riviste; e, a differenza dell'italianistica italiana, si danno gli oggetti più svariati: non solo Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Castiglione, Tasso, tolti comunque dalla patriottica bacheca della cosiddetta storia letteraria e riletti alla luce di ben altri paradigmi culturali, ma anche le mistiche medievali, le petrarchiste del Cinquecento, Michelangelo poeta, i teorici post-tridentini; e pure i romanzi di Calvino, di Levi e di Eco, il Gattopardo, Pasolini, e la storia dell'arte, i film (muti e no), la politica, la mafia, la storia (specie quella novecentesca, compresa la recentissima), la televisione, la cucina, l'opera lirica, la moda, eccetera. Sul principiare del diciannovesimo secolo, invece, all'Italia gli americani erano del tutto indifferenti, o quasi. Nessuno nel nuovo continente ne sapeva nulla né desiderava saperne alcunché. Nonostante il successo internazionale del melodramma, non attirava nemmeno la sua lingua, alla quale si preferivano quelle di Francia e di Spagna, considerate più utili per il commercio. 
Se a un certo punto il rigagnolo divenne fiume, gran parte del merito è stato di un uomo, Lorenzo Da Ponte, quello stesso Da Ponte che aveva firmato qualche decennio prima i libretti più celebri di Mozart, e che, non per niente, era convinto che il suo compito avrebbe avuto piena realizzazione solo quando avesse imposto sul suolo americano anche il teatro cantato. Quasi ottantenne, innamorato dei classici italiani e convinto che l'italiano fosse la lingua più bella del mondo e non avesse nulla che invidiare in flessibilità ed eleganze neppure al greco classico, promuoveva la tradizione del suo paese con un vigore e una ardore che avevano della frenesia apostolica. A New York, dove era arrivato fin dal 1805, importò migliaia di volumi, lanciò l'insegnamento dell'italiano e della sua letteratura, a livello privato e no, creò una biblioteca, tentò di aprire una libreria e finì per inaugurare, decrepito nel fisico, ma non nella mente, la prima cattedra di italiano di Columbia University. Questa straordinaria attività fu accompagnata dalla composizione di discorsi apologetici, pieni di proteste contro il disinteresse degli americani, uno dei quali, Storia della lingua e letteratura italiana in New York, del 1827, viene ora ripubblicato dal Polifilo in un volume delizioso, editorialmente esemplare, per le cure di Lorenzo della Chà, già curatore dei libretti di Da Ponte e di un'ottima biografia dello stesso. Leggendo questo centinaio di pagine, che propagandano i grandi libri italiani e proclamano fieramente il compito messianico del loro autore (temi che tornano nell'ultima parte delle stesse Memorie), non si può non pensare che la grande impresa di Da Ponte sia stata la fantasia di un emigrato. Insomma, i suoi giudizi sulla lingua e sulla letteratura italiana sono nati, oltre che dall'ammirazione per la bellezza, anche dalla nostalgia e dal confronto con i fantasmi della disidentità. Le esasperazioni della vecchiaia e un narcisismo missionario di entità byroniana diedero poi una mano. 
D'altronde, che razza di italiano poteva essere o pretendere di essere questo signor Lorenzo Da Ponte, nato a Ceneda, nel Veneto, uno dei tanti stati disuniti di quella penisola cui solo per fedeltà alla storia pristina si attribuiva ancora il nome latino? L'italianità per lui come per altri, non solo i dipartiti, era una proiezione della lettura. Leggo, dunque sono. Ma Da Ponte – ecco l'altro aspetto di questa ardimentosa Storia che colpisce il cuore e che gli italianisti, in particolare quelli che si formano e lavorano in Italia, dovrebbero far loro – non leggeva né proponeva agli americani di leggere soltanto poeti e letterati. La sua biblioteca ideale (ma pure reale, dato che per davvero la mise assieme, di acquisto in acquisto, e a caro prezzo) constava, oltre che di poesia e teatro, delle scritture dei più diversi ingegni e delle più varie materie: medicina, giurisprudenza, architettura, fisica, chimica, matematica, storia. I fari di tanto spettacolare canone sono Machiavelli e Beccaria, scrittori supremi, ma non certo bellettristici. E, come si apprende dalle Memorie, vi rientrano anche le migliori traduzioni dei classici latini e greci e volgari.
Questo, quando elogia le grandezze linguistiche e letterarie dell'Italia, ha ancora da insegnarci il bravo autore di Don Giovanni: a cercare nella tradizione italiana pensiero, impegno civile e scienza; a includere, ancora rinascimentalmente, nel concetto di «lettere» ogni ramo del sapere, non solo le melopee, abolendo l'atavica dicotomia tra letteratura e scienza, la quale, se continua a recare il nobilitante sigillo di Platone e di tanti suoi emuli, ha pur sempre la responsabilità di dar forma a pedagogie presuntuose e fuorvianti. 
Lorenzo Da Ponte, Storia della lingua e letteratura italiana in New York (1827), a cura di Lorenzo della Chà, Edizioni il Polifilo, Milano, pagg. 160

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