domenica 2 febbraio 2014

Odilon Redon


Il pittore incantato 
che evocava con i colori le creature fantastiche del mondo immaginario


Fabrizio D’Amico

“La Repubblica“, 2 febbraio 2014

Era nato l’anno medesimo di Monet, il 1840: ma fino alla fine del secolo, dunque fin quasi ai suoi sessant’anni, Odilon Redon non ebbe un sol grano della fama che l’avrebbe poi circondato. E ancora nel 1913 – a tre anni dalla morte – quando l’Armory Show di New York, che portò per la prima volta oltreoceano l’avanguardia europea a confrontarsi con la pittura del nuovo mondo, gli dedicò una vasta sala, sembrò una scommessa che azzardavano gli organizzatori quel loro inserirlo fra grandi del XIX secolo. Forse, questo strano ritardo, avvenne perché le sue immagini s’erano rivolte per tanti anni ai letterati più che ai pittori suoi compagni. Forse, per quel suo testardo esprimersi solo con il nero del carbone o dell’inchiostro della pietra litografica. O forse perché – come scrisse Apollinaire quello stesso 1913, mettendolo accanto, ma un gradino più indietro, rispetto ai «grandi sopravvissuti dell’impressionismo » – la sua «fantasia è stata più spesso eccitata dalle pittoresche invenzioni di poeti e dei novellatori che dalla natura».
Redon ne era d’altronde consapevole: «i miei disegni – scrisse – ispirano, ma non definiscono. Non individuano alcunché. Ci collocano, come la musica, nel mondo ambiguo dell’indeterminato» . Per vent’anni almeno – i Settanta e gli Ottanta del secolo, che avevano visto a Parigi, dopo lunghe battaglie, l’affermarsi della verità impressionista – Redon stette avvinto ai suoi “noirs”, alle sue “ombre” nelle quali, scoperte «negli angoli bui della casa», egli rinveniva l’ambiguità e la continua metamorfosi delle forme naturali.
Così, per lui, voli d’uccelli misteriosi, teste mozze offerte su di un vassoio, occhi sbarrati racchiusi in un parallelepipedo volante, sfere incendiate, volti ghignanti di cherubino mescolavano la loro esistenza con quella di ragni spaventevoli, o di patetici sguardi di eteree fanciulle: in un rincorrersi di minaccia e bellezza, di follia e naturalezza. O di malattia e di delirio, come diceva di quei fogli Jean des Esseintes, protagonista del primo romanzo simbolista, e subito assai popolare, di Joris Karl Huysmans, À rebours, che diede una prima notorietà a Redon.
Oggi la Fondazione Beyeler di Basilea inaugura una mostra di Redon (a cura di Raphaël Bouvier; fino al 18 maggio) che, attraverso ottanta opere, unisce quel primo tempo del pittore a quello della sua maturità e dell’età tarda; il tempo in cui, con una riconversione radicale, Redon abbandona il nero (che aveva chiamato l’autentico «agente dello spirito, molto più che non lo sia il bel colore del prisma») per adottare una colorazione ricca e variata, data dal pastello e dall’olio. Nell’uno e l’altro suo tempo, Redon fu protagonista della lunga età, difficile come forse nessun’altra a delimitarsi in anni precisi, del simbolismo; le cui premesse affondano nel XVIII secolo, e le cui propaggini ultime, ma ancora ben vive, ramificano dentro il XX: andando dunque quei climi dall’incerto territorio di confine tra neoclassico e romantico, diffuso in tutta Europa, sino alle estreme diramazioni del primo surrealismo (Redon influenzò profondamente, ad esempio, René Magritte, belga come belga era stata la prima “fortuna” del suo immaginario). Radici lunghe, allora, sono le sue: radici che da Goya giungono a Pierre Puvis de Chavannes, e a Rodolphe Bresdin, di cui egli si dichiarò “allievo” nella scheda del primo Salon cui fu ammesso, nel 1867, agli albori della sua educazione all’arte. Poi venne il tempo delle “ombre”, al culmine del quale egli espose – e fu certo un’improbabile intromissione, la sua – all’ultima mostra impressionista, del 1886.
Finalmente, all’aprirsi del tempo del colore, le forme si placano. I mostri che hanno abitato i fogli della giovinezza arretrano, e al loro posto ecco accamparsi in uno spazio aperto e senza confini memorie mitologiche, reminiscenze classiche, visioni – persino – religiose. Sembra che s’avveri, in queste nuove immagini, la predizione di Gauguin, che sempre vi aveva scorto «non mostri, ma creature dell’immaginario ». Nel colore – spesso acquoreo, come bagnato dalla rugiada del sogno, o immalinconito dal velo d’una lacrima – si compongono ora le storie di Redon. La speranza d’un cielo trapunto di fiori che salgono vertiginosi lo spazio, o percorso dal volo delle farfalle – come in Papillons, del Museum of Modern Art di New York – prende il posto prima occupato dall’ansia e dallo spavento (qui documentato in memorabili e celebri fogli giovanili, come la Tête de martyr sur une coupe del ’77 o le litografie per Dans le rêve del ’79).
A tener unito il prima e il dopo di Redon è, da un canto, la vita simbiotica ch’egli sempre assicura alle sue creature: che è come non conoscessero un’esistenza autonoma, ma la cercassero nel loro scambievole rapporto: il che è appunto anche alla base della metamorfosi cui i suoi esseri soggiacciono, per vivere. E dall’altro quel senso commosso di prossimità, o di partecipazione, che Redon regala loro: come se sempre egli volesse seguirli nelle strane esistenze che vivono, forse avvolte dalla malinconia di non potersi svelare più vere.


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