martedì 28 gennaio 2014

Il dibattito sulla lingua


Tullio De Mauro e la lingua salvata
«Troppi codici per comunicare L’incomprensione è più frequente»
Intervista al linguista: 
«Dobbiamo sintonizzarci non solo sulla grammatica ma anche sul contesto
Non è facile in un Paese che ha ancora percentuali altissime di analfabetismo»

Cristiana Pulcinelli

“L'Unità“, 26 gennaio 2014

IL FESTIVAL DELLE SCIENZE DI ROMA OGGI CHIUDE I BATTENTI E, in occasione dell’ultima giornata, Tullio De Mauro, decano dei linguisti italiani, sarà il protagonista di un caffè scientifico  dedicato al tema dell’incomprensione linguistica.
Professor De Mauro, sotto il profilo dell’esperienza quotidiana, l’incomprensione è qualcosa che ognuno di noi ha provato nella sua vita, ma che cos’è da un punto di vista tecnico?
«È il non tenere conto dei fattori che aiutano la comprensione di ciò che altri dicono o scrivono. Sono molti e diversi. Le parole, anzitutto, e il loro susseguirsi secondo la grammatica di una lingua, il che significa che dobbiamo sintonizzarci sulla lingua che supponiamo propria di chi parla o scrive. Se vedo scritto «I VITELLI DEI ROMANI SONO BELLI», per capire il senso devo capire se chi ha scritto voleva parlare, e parlava, latino o italiano. Se non conosco la lingua di chi parla o scrive, le possibilità di comprensione si riducono quasi a zero. Quasi: ci aiutano altri fattori di cui possiamo e dobbiamo tenere conto nel comprendere. Dati importanti sono conoscere o sapere chi è che parla o scrive, il contesto in cui si colloca. Una frase come “Il cane abbaia” ha un senso molto diverso se ce la dice un nostro familiare infastidito o preoccupato dall’abbaiare del cane di casa oppure se ce la dice chi sta insegnando ai bambini come si denominano i versi dei differenti animali o, infine, se la leggiamo in un testo di etologia animale. A capire ci aiutano molto le intonazioni del parlato e lo sfondo, l’impaginazione, nello scritto. Qualche anno fa Annamaria Testa ha scritto e illustrato un piccolo libro importante e istruttivo, Le vie del senso, per mostrare quanti sensi diversi assume la frase “Ma che bella giornata! ” a seconda degli sfondi su cui la vediamo scritta. Per capire una qualunque frase dobbiamo mobilitare, anche senza accorgercene, tutte le risorse delle nostre conoscenze ed esperienze. Se manchiamo di farlo, la comprensione delle parole altrui fallisce».Quando nel linguaggio comune diciamo che qualcuno non ci comprende, in effetti, non ci riferiamo solo alle parole, ma a qualcosa di più profondo. Ci riferiamo, magari senza saperlo, a questi fattori? «Altri linguaggi funzionano bene anche se non sappiamo chi ne usa i segni o non teniamo conto del contesto d’uso. Le parole invece non sono cifre, simboli matematici o chimici, ma si capiscono appieno solo capendone l’ancoraggio al loro contesto e alla persona che le dice o scrive».
Qualche tempo fa, lei riportava i risultati di un’indagine secondo cui il 71% della popolazione italiana non è in grado di leggere e comprendere un testo di media difficoltà. Ci può spiegare un po’ più nel dettaglio questo dato?
«Noi adulti italiani, molto più degli adulti di altri Paesi, abbiamo un pessimo rapporto con i testi scritti: libri, giornali, pagine internet e perfino cartelli e avvisi al pubblico (spesso, oltre tutto, formulati male). Non una, ma tre successive ricerche internazionali, l’ultima delle quali promossa dall’Ocse e svolta per l’Italia dall’Isfol, hanno stabilito che il 5% della popolazione adulta è in condizione di analfabetismo totale, ma in più il 66% ha gravi difficoltà dinanzi a un testo scritto. Del resto i dati sulla lettura di libri e di quotidiani ci portano a risultati simili».
Eppure in Italia ci si diploma e ci si laurea di più rispetto al passato (anche se siamo sempre agli ultimi posti in Europa), come spiegare questo fenomeno?
«La scuola fa quello che può. Proprio in questa materia sappiamo che alle elementari i bambini e le bambine arrivano a risultati di eccellenza nel confronto internazionale. All’inizio delle scuole medie superiori le cose già non vanno più bene. A mano a mano che vanno avanti nello studio pesano sui ragazzi le condizioni culturali delle famiglie e dell’ambiente. Le cose quindi nella media superiore non vanno bene, ma attenzione: i ragazzi sono poco sotto la media europea, le ragazze addirittura più in alto delle loro coetanee. Il complesso non è brillante, ma non è catastroficamente sotto le medie internazionali come avviene per gli adulti e le adulte. Quando usciamo dalla scuola e dalla formazione cadono bruscamente le sollecitazioni a leggere, tenersi informati, capire il nostro mondo con l’aiuto di pagine scritte. Gli stili di vita ce ne allontanano e solo una minoranza avverte importanza e fascino della lettura.
Oggi la comprensione è diventata più difficile? Pensiamo ai tanti linguaggi diversi: i social network, gli sms, i linguaggi sempre più specialistici delle scienze. Siamo costretti a imparare più codici? «Sì, abbiamo più strumenti, più codici che dobbiamo sapere usare. Il primo resta sempre l’abbiccì e la nostra lingua nativa. Ma non basta più. Per capire le etichette dei prodotti del supermercato o delle medicine, per orientarci nella vita anche quotidiana delle città, per lavorare e produrre abbiamo bisogno di notizie più sofisticate di un tempo, almeno dell’abbiccì di molti diversi campi del sapere. O ci rivolgiamo ai ciarlatani oppure, per campare, avremmo bisogno di un rialzo deciso delle nostre competenze individuali e collettive».


Italiano, la lingua di mezzo
Fin dal ‘500 esisteva una comunicazione d’uso pratico capace di unire le classi sociali e superare i dialetti locali

Paolo Di Stefano

“Corriere della Sera“, 26 gennaio 2014

La storia della lingua italiana, di solito, viene raccontata come la persistenza di una polarità tra lingua scritta, colta, letteraria da una parte e ricca varietà orale di dialetti dall’altra. Per un grande studioso come Carlo Dionisotti la letteratura è stata «il più forte elemento unitario»: l’italiano sarebbe stato per secoli una lingua, unicamente scritta e posseduta da pochi, pressoché impermeabile alla «selva» degli idiomi locali. Secondo l’idea più diffusa, l’avvenuta unificazione politica non era ancora unificazione linguistica, cui avrebbero contribuito numerosi fenomeni, tra cui la scolarizzazione, la crescita dell’industria e la conseguente migrazione interna, la diffusione della stampa e infine la forza attrattiva della televisione. È la tesi di tanti, tra cui Tullio De Mauro. Ma da qualche tempo si fa strada un’idea diversa, più sfumata e meno bipolare. 
L’italiano nascosto, il nuovo libro di Enrico Testa (Einaudi) interpreta questa visione nuova e la illustra con l’avallo di numerosi documenti, alcuni dei quali rari o inediti. «Il libro — dice Testa, docente di Storia della lingua all’Università di Genova, oltre che poeta di valore — propone un’interpretazione delle vicende dell’italiano completamente diversa da quella canonica che vedeva in epoca preunitaria una bipartizione tra letterati e rozzi parlanti dialettali. È impossibile non pensare che esistesse, nel corso dei secoli, una lingua intermedia d’uso pratico che permettesse una comunicazione tra scriventi e parlanti di luoghi e strati sociali differenti». È ciò che sosteneva Ugo Foscolo quando ipotizzava l’esistenza di una lingua comune, «corrente e vivissima in tutte le provincie intesa da Torino sino a Napoli, scorretta, deforme, ed era anche un po’ letteraria»: una «lingua d’espediente», suggerita dai bisogni primari quotidiani, «diversa in tutto da’ dialetti provinciali e municipali, e che serba alcune qualità bastarde di tutti». Insomma, un terzo polo: un italiano capace di stabilire contatti e scambi orizzontali tra le regioni e verticali tra i livelli sociali. Di questa varietà di mezzo, che Tommaso Landolfi chiamò «italiano pidocchiale», Testa va alla ricerca risalendo al Cinquecento. 
«È un italiano che per secoli ha una forte resistenza: ci sono alcune strutture-base di lunga durata che corrono come un filo nascosto e risalgono alla prosa del Duecento». Urgenza comunicativa e «passione di dirsi», secondo la definizione di Claude Hagège, spingono anche la grande massa dei semicolti, né analfabeti totali né arcadi, a prendere in mano la penna. Ai semicolti si deve quell’opera di messa di commistione tra oralità e scrittura che produce una lingua a metà strada tra l’italiano normativo e il dialetto. «È interessante chiedersi come si rivolgevano i semicolti alle autorità per superare la distanza intellettuale e fisica. Impossibile pensare a una netta paratia che divida la letteratura alta e le classi popolari. Abbiamo testimonianze di ciabattini che recitano Dante e di gondolieri che cantano le arie di Metastasio…». Si aprono altri interrogativi, socioculturali: «Che letture facevano i semicolti per impadronirsi di quel minimo di italiano utile alla comunicazione pratica e su che libri soddisfacevano le loro esigenze intellettuali e artistiche?». Con l’espressione «libri per leggere» si definiscono quelle opere, per lo più di paraletteratura, molto diffuse a livello popolare (equivalenti ai tanti titoli che oggi affollano le classifiche): libri devozionali, romanzi d’avventura, d’armi e d’amore, cronache, leggende, libri di viaggio eccetera. Testa ricorda la lista di undici titoli in volgare fornita dal mugnaio friulano Menocchio durante il processo che nel 1601 gli costò la condanna a morte per eresia: dal Decameron non purgato al Fioretto della Bibbia. Lo studio di Testa chiama a raccolta streghe e servitori, mezzadri, pescivendoli, mercanti, parroci, catechisti, maestri di strada, briganti e soldati, monaci: personaggi che portano alla penna (e probabilmente sulle labbra) un italiano capace di farsi capire ovunque ben prima che comparisse sulla scena Mike Bongiorno, assunto troppo spesso come fascinoso tramite dell’italianizzazione, con il maestro Manzi e le canzoni di Sanremo. 
«D’altra parte — continua Testa — che strumenti linguistici usavano, per esempio, le autorità religiose per trasmettere princìpi e ammaestramenti ai semplici?». È emblematica la figura di Alfonso Maria de Liguori, fondatore, nel Settecento, dell’ordine dei Redentoristi nel Regno di Napoli, i cui «brevi avvertimenti» e schemi predicatòriȋ erano destinati all’apprendimento dell’italiano dei suoi allievi, con l’invito a mitigare gli eccessi retorici della lingua della predica, adottando moduli più semplici e sintatticamente franti in direzione comunicativa. E i grandi letterati, i prìncipi della cultura classicistica, i notai, gli avvocati, i religiosi come si rivolgevano ai loro servitori? Un esempio è quello di Baldassar Castiglione, esponente autorevole della diplomazia tra Chiesa, Mantova e Urbino in epoca rinascimentale. Guardando al retroscena del laboratorio di scrittura privato, per esempio nelle lettere di carattere più domestico e familiare, si nota lo sforzo di adattamento al livello linguistico del destinatario. Quando scrive al suo fattore, il rustico Cristoforo Tirabosco, il Castiglione mostra di presupporre un terreno comune di comprensione e una competenza almeno passiva dell’interlocutore. Una dinamica analoga a quella che legava Vittorio Alfieri con il suo fedele servitore Francesco Elia, autore di un gruppetto di lettere che dimostrano una discreta familiarità con la scrittura, oltre a una «intelligente perspicacia e sottilissima avvedutezza», come segnalò Lanfranco Caretti. 
«È difficile pensare — dice Testa — che questo tipo di lingua non venisse utilizzato anche oralmente, quando si incontravano tra loro personaggi di diversa estrazione culturale o di diversa provenienza geografica. Il caso più clamoroso è quello dei frati itineranti o dei maestri irregolari che, pur conoscendo un solo dialetto, riuscivano a stabilire contatti con uditori linguisticamente distanti o si muovevano per insegnare l’abaco e i rudimenti della lingua». La dimensione orale rimane comunque necessariamente più oscura. «Per l'oralità, non avendo documentazione, è chiaro che dobbiamo affidarci a una sorta di procedimento indiziario, ma si può facilmente immaginare un panorama analogo a quello della lingua scritta. L’italiano ”pidocchiale” o d’espediente ha sempre una forte componente locale, soprattutto sul piano fonetico e lessicale, però al di sotto si scopre una condivisione sintattica e morfologica e una resistente continuità diacronica». Ci sono luoghi deputati in cui questo italiano «pidocchiale» viene coltivato più che altrove: officine, laboratori, botteghe, confraternite che utilizzavano l’italiano per statuti e verbali, monasteri femminili in cui le pratiche religiose si sposavano con l’apprendimento della lingua. «Paradossalmente, — ricorda Testa — persino il brigantaggio nell’Ottocento ha finito per diffondere l’italiano, perché anche per scrivere le lettere di riscatto a un ricco possidente bisognava farsi capire».

Testa insegna Storia della lingua italiana all’università di Genova. Il suo ultimo volume è «L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale» (Einaudi, pp. 292, 20). Da Einaudi ha pubblicato anche: «Eroi  e figuranti. Il personaggio nel romanzo», l’antologia «Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000», e proprie raccolte di poesia. 

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