venerdì 27 dicembre 2013

Fernando Bandini, 1931 - 2013


Addio a Bandini il poeta veneto che scelse il latino

FRANCESCO ERBANI 

“La Repubblica“, 27 dicembre 2013

Fernando Bandini, poeta, è morto il giorno di Natale nella sua casa di Vicenza, in Contra Carpagnon. Aveva ottantadue anni, era ammalato e da tempo costretto su una sedia a rotelle. Nei suoi occhi, però, ancora qualche mese fa lampeggiava un guizzo poco più che adolescenziale e essi brillavano addirittura di luce infantile quando indovinava una battuta in un vicentino limpido e musicale, la lingua della sua Azneciv, come in molte poesie rovesciava il nome della città. Negli ultimi mesi si muoveva poco, era spesso in ospedale, ma non rinunciava a una rilassante chiacchierata sul suo fare poesia, sulla scelta del latino come lingua poetica non tanto perche morta, bensì perche al di là del tempo e capace, talvolta, di cogliere l'universale meglio dell'italiano. Le sue parole fluivano sciolte e ogni tanto Bandini scoppiava in una risata, anche questa con qualcosa di infantile, che si prolungava in una specie di buffo singulto. Aveva un senso, molto poetico, delle pause comiche. 
Bandini era nato nel 1931. Ha insegnato nelle scuole elementari e poi è stato docente di Metrica e di Filologia romanza all'università di Padova e quindi di Letteratura moderna e contemporanea a Ginevra. La sua prima raccolta, In modo lampante, è del 1962, edita da Neri Pozza. Seguiranno Per partito preso (1965) e poi, nella collana "Lo Specchio" di Mondadori, Memorie del futuro (1969) e La mantide e la città (1978). Nel 1985 pubblica // ritorno della cometa, mentre nel 1994 esce da Garzanti Santi di Dicembre, una raccolta seguita nel 1998 da Meridiano di Greenwich e nel 2007 da Dietro i cancelli e altrove. A settembre, al Festiva letteratura di Mantova, si è esibito in una lezione sulle sue traduzioni in latino: celebre ed emozionante quella della Bufera montaliana che quella sera ha letto per intero. Nel pubblico era seduto l'insegnante universitario con il quale - giovani entrambi, quest'ultimo lievemente più grande - Bandini aveva dato l'esame di latino. E memorabile è stato il loro duetto. 
Bandini, poeta trilingue - in italiano, in vicentino e in latino -, scriveva versi garbati e ironici, ma non limitava i suoi materiali alle piccole cose quotidiane, che pure popolano una lingua così cantabile come poche altre nel secondo Novecento. L'universo che Bandini racchiude in una metrica tanto spigliata sfiora le tensioni più acute del Novecento: «Fossero imiei versi di bella fattura / ma nutriti di umana realtà. / Fossero i miei versi come la libertà / aria della lotta e pane del riposo». L'ironia e il passo leggero condivano il suo sguardo sulla vitae i suoi racconti. Raccontava di Andrea Zanzotto, di Mario Rigoni Stern, dei suoi amici stretti, Goffredo Parise e Luigi Meneghello. Delle loro diatribe sul dialetto. Del Veneto che non c'è più e di quello che resiste ostinatamente in una roggia e in una valletta. E appena gli si citava una linea veneta della quale anche lui era parte, un po' fingeva di non sentire, un po' cambiava discorso, ma non perché la ritenesse una categoria criticamente poco attendibile. Al contrario, perché se l'aspettava e la scansava per ritrosia. 
La stessa di quando gli si chiedeva del latino. «Io il latino non lo so, ho fatto le scuole magistrali e non il liceo classico», replicava. Ma poi il seguito della chiacchiera tradiva consapevolezza letteraria: «Meglio tornare allo stato larvale di una lingua morta, che esprime valori assoluti, sentimenti fondamentali e mostra come tutto si ripeta». Non sono un poeta latino, insisteva. Eppure nella lingua di Cicerone è tessuta un'intera sezione del Meridiano di Greenwich. Quel che Bandini voleva evitare era di essere considerato un poeta-fenomeno, in gara con se stesso alla ricerca di una misura espressiva eccentrica. Tutt'altra è la sua poesia, animata dagli oggetti e dalle presenze ordinarie - gli uccelli, per esempio - e così aliena da ogni tentazione tribunizia, o anche sperimentale, sia nel lessico che nella costruzione del verso. Italiano, vicentino e latino avevano funzioni interscambiabili, ma tutt 'e tre servivano un identico ideale poetico. 
Più volte Bandini ha raccontato perché abbia adottato il latino: «Era la fine degli anni Cinquanta, rimasi sconvolto da una mostra di disegni fatti dai bambini morti nel lager nazista di Terezin. Provai a mettere quelle emozioni in versi, ma usciva sempre un tono falso, declamatorio. M'imbattei in un inno liturgico del poeta latino Prudenzio dedicato alla strage dei Santi Innocenti. Avevo trovato la lingua adatta per lo sterminio dei bambini. Nacque Sacrum Iemale, Festa d'inverno». Il latino che serve uno scopo, come il vicentino, che a lui appariva in un rapporto di antica parentela con la lingua di Grazio. Ma senza equivoci popolareschi: «II dialetto sembra una lingua materna, che non rientra in una cultura letteraria. Ma è vero fino a un certo punto. I nostri poeti dialettali grondano letterarietà. Dal friulano Pier Paolo Pasolini al lucano Albino Pierro». 


Bandini, poeta in cerca dell'ignoto

Scompare l'artista vicentino che preferiva la tecnica 
e la classicità alle mode contemporanee 
 Nei versi lo sforzo di cogliere il volto segreto delle cose 

ROBERTO GALAVERNI 

“Corriere della Sera“, 27 dicembre 2013

Fernando Bandini amava l'inverno. Dicembre e il Natale, soprattutto. All'inverno e al Natale aveva legato non a caso il suo libro più bello, Santi di Dicembre, appunto. «Dimmi se il cielo cova / una nuova moneta per il viaggio / di nuovi Re, / se dobbiamo aspettarli - io che aspettavo / Natale, la sua aureola / di lumi e la sua pace...», era l'auspicio dei Versi scritti durante le feste di Natale del 1989. E adesso che il destino ha scelto con cura questi giorni e queste feste per la sua dipartita, mi piace immaginare che il poeta di Vicenza abbia eletto proprio quei versi a viatico per il suo ultimo viaggio, come la moneta che gli antichi portavano con sé. 
E antica, legata insieme al retaggio della letteratura latina e della grande tradizione poetica italiana, è anche l'idea di poesia che Bandini ha sempre coltivato. Questo non gli ha impedito affatto di essere fino in fondo un uomo del suo tempo, di continuare a credere negli altri, nella possibilità di una maggiore giustizia della storia, e d'impegnarsi allora in prima persona per le sorti del proprio Paese e della sua città. Anzi, un certo sentimento del dovere pubblico e delle virtù civiche gli veniva proprio di lì, dalla letteratura, dai poeti che più amava e che ricordava molto spesso a memoria, con una conoscenza che lasciava ammirati, e in verità anche un po' invidiosi, dei minimi ma fondamentali dettagli tecnici, delle risorse stilistiche, dei cosiddetti segreti d'officina. È proprio questo a cui alludo: al modo dei classici la poesia per Bandini è anzitutto mestiere, competenza, vale a dire conoscenza e padronanza dei mezzi espressivi. E dunque tecnica, capacità di fare, costruzione oggettiva, arte intesa in senso etimologico, civiltà poetica. Per questo le viene anche riconosciuto — forza e vincolo, insieme — uno spiccato significato istituzionale, di convenzione che l'esperienza dei poeti ha via via definito nel tempo come se si trattasse di un diritto consuetudinario. Il senso pieno, forse l'unico davvero plausibile della tradizione non è altri che questo, del resto. Così si è già nel pieno campo di tensioni di un'alchimia compositiva piuttosto singolare. 
Proprio per la sua concezione eminentemente tecnica e formale, infatti, in Bandini la poesia sembra arrivare soltanto al termine del procedimento creativo. Mi spiego. Il verso, il rigore dell'esercizio metrico e insomma tutta la solidissima macchina retorica, non intendono affatto prendere le misure e regolarizzare una spinta emotiva, una propulsione passionale o sentimentale altrimenti informi e lasciate a se stesse. No, da questo punto di vista non c'è nulla da contenere o da imbrigliare. All'opposto, il mezzo tecnico è per Bandini un'opportunità per trovare e raggiungere la poesia proprio là dove non la si vedeva o non si riusciva a credere che fosse, per riconoscere legittimità, verità e soprattutto intensità ai sentimenti più riposti e inarrivabili del proprio animo, per scoprire, mi si permetta, la qualità, il soffio poetico della propria esistenza. La forma, dunque, non come una costrizione, ma come il tramite di una liberazione. In Bandini molte cose sembrano funzionare al contrario rispetto ai più prevedibili procedimenti compositivi. Non dal fluido al solido, ma dal solido al fluido. Accade un po' come nel rapporto del poeta con la sua amata Vicenza, sempre designata attraverso il palindromo Aznèciv, a metà tra la critica, il non poterne più da un lato, e il miraggio dall'altro. Come se nel rovescio della città presente ne lievitasse comunque un'altra, uguale e diversa, oscillante tra il ricordo e il sogno. 
Allo stesso modo i versi di Bandini vivono di un contrasto fondamentale— mi sembra questo il loro tratto più pregevole e originale — tra il grande rigore formale e un immaginario poetico irregolare, sghembo, sempre un poco stralunato. I contenuti prosastici, comuni, quotidiani (la parola è oltremodo equivoca, lo so) sono spesso attraversati da un brivido di stranezza, se non di estraneità. Piante e animali dai nomi bizzarri, ricordi di accadimenti singolari, constatazioni insolite, associazioni impreviste. Il poeta metrico è zoppicante come pochi, lo scrittore della maturità può davvero cullare le curiosità e i sogni di un bambino. Per sua fortuna. Al riguardo ha detto bene Andrea Zanzotto, quando, riferendosi al laboratorio poetico trilingue di Bandini (italiano, latino e vicentino), nonché al suo grande amore per Pascoli, lo ha definito un «dotto fanciullino, ma negli anni del tardo Novecento». Ed è giusto. 
«Così verso un Altrove ignoto spesso / si dirigono inquieti i miei pensieri, / a un paese che sembra emerso ieri / dal diluvio, grondante ancora e intatto». Le sue misuratissime parole in metrica sono capaci di una malinconia, di una dolcezza, perfino una malinconia, di una dolcezza, perfino di un candore sorprendentemente diretti, e tante volte incantevoli. Fernando Bandini: così agguerrito, così disarmato. 


Grazie, professor Bandini, per avermi insegnato verbo et exemplo molto del poco che so.
S.F.

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