mercoledì 13 novembre 2013

Dal Principe al Cavaliere la menzogna come arte

Francesco Rosselli (ca. 1445 - ante 1527), Carta d'Italia (380 x 535 mm).
 Incisione a bulino su rame, c. 1492. BNCF Landau Finaly Carte Rosselli

A 500 anni dal capolavoro di Machiavelli: la bugia sistematica è una risorsa della politica o un sigillo identitario degli italiani?

Franco Cardini

“La Stampa“, 12 novembre 2013

Si intitola La bugia. Un’arte italiana: imbrogli privati, menzogne politiche l’almanacco Guanda 2013, a cura di Ranieri Polese (pp. 168). Qui un ampio estratto del contributo di Franco Cardini, a commento del capitolo 18 del Principe, in cui Machiavelli spiega che un Principe è spesso obbligato, «per mantenere lo Stato» a «operare contro alla umanità, contro alla carità, contro alla religione». Deve cioè «saper entrare nel male». L’apparenza dev’essere ben diversa: occorre che appaia «a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione». Detto che «ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei», «nelle azioni di tutti gli uomini», e soprattutto dei Principi, «si guarda al fine».



A ben vedere, quel che il Segretario fiorentino intende qui dire è che la menzogna, ammantata di pietà, integrità, umanità e religione, è ammissibile quale strumento di governo nella misura – e nei casi – in cui si presenta come indispensabile; se la dissimulazione è ben orchestrata, il «vulgo» (e, aggiunge, «nel mondo non è se non vulgo») non sarà in grado di smascherarla. Questo tuttavia a condizione che il principe sia in grado di «mantenere lo Stato». Machiavelli invita cioè a usare qualunque mezzo per il raggiungimento dello scopo: ma tale scopo è molto preciso, è quello del governo dei sudditi e del mantenimento in forza dello Stato. Solo un plurisecolare equivoco ha consentito che si sia tanto parlato del carattere «amorale» – se non «immorale» – del pensiero machiavelliano, distorcendolo appunto nel significato di «machiavellico». Niccolò è uno degli anelli della catena che, avviata nei secoli XII e XIII dal pensiero scolastico (Pietro Abelardo e Tommaso d’Aquino), si è sviluppata attraverso Umanesimo e Rinascimento: al pari di quel che gli scolastici proponevano per la filosofia, Leon Battista Alberti per l’architettura, Luca Pacioli per la matematica e più tardi Galileo per la scienza, il Machiavelli cerca le leggi fondanti della politica libere dall’ipoteca trascendente della fede e della teologia. Quel che egli vuole esprimere attraverso l’analisi degli esempi tratti dalla storia antica ma anche recente e recentissima (da Alessandro e Cesare a Castruccio Castracani e Cesare Borgia) è la ricerca delle occulte e immutabili regole che indirizzano l’agire umano nella prospettiva della formulazione di una storia che sia comprensibile e utilizzabile come se si trattasse di una scienza esatta.
[...] Costretto a tenersi lontano dalla vita politica, scrisse, quasi a titolo autoconsolatorio, lui che di qualunque potere era privo, un trattato su come lo si potesse conquistare e mantenere per sempre: e nel 1516, nella speranza che ciò lo avrebbe aiutato a rientrare nelle grazie della dinastia al governo, lo dedicò a Lorenzo figlio di Piero, quindi nipote del Magnifico, che lo zio Giovanni – diventato papa Leone X – aveva investito del ducato di Urbino. Lorenzo era allora ventiquattrenne, e sarebbe del resto morto tre anni dopo senza aver dato particolari prove di sé: i Medici non dettero segno di curarsi affatto dell’oscuro intellettuale che gli aveva dedicato quell’opuscolo, che sarebbe rimasto in disparte fino alla morte sopravvenuta nel 1527. Splendido teorico della politica, si era sempre barcamenato male nelle quotidiane esigenze.
La parabola di Niccolò Machiavelli può essere utilizzata per comprendere il destino ultimo dell’intera compagine culturale degli intellettuali umanisti, che avevano confidato nelle infinite possibilità date loro dallo studio degli antichi, nell’esser «moderni» contro la media tempestas dei secoli che li avevano preceduti, mentre si ritrovarono in un mondo dilaniato dalle guerre che né loro, né i signori al servizio dei quali stavano o avrebbero voluto stare, erano in grado di controllare.
Ai primi del Cinquecento, la crisi di un’Europa sconvolta dai conflitti si unì infatti all’esplosione di un problema religioso latente da tempo. La fede nella guida degli antichi che aveva illuminato l’esperienza culturale degli umanisti poteva ormai sembrare per molti versi morta e sepolta; stritolata nella repressione convergente della Riforma e della Controriforma, condannata a sembrare un gioco d’intellettuali dinanzi alle sanguinose guerre di religione. Da questo contesto le fragili realtà statuali italiane, all’interno delle quali la cultura umanistico-rinacimentale aveva raggiunto il suo apice, uscirono perdenti, incapaci di reggere il confronto con le monarchie assolute che si andavano rafforzando in Europa.
Non meraviglia quindi che la virile forza sottesa al suggerimento, dato dal Machiavelli ai potenti del suo tempo, di essere «lioni» e «golpi» al tempo stesso, si perdesse in un paese dal quale le élite fuggivano – si dimentica troppo spesso che fra Cinque e Settecento la penisola italica sarà anche restata in balìa delle «preponderanze straniere», ma i principali artisti, poeti, letterati, musicisti, architetti e perfino comandanti militari d’Europa erano tutti italiani – e nel quale tuttavia il «vulgo» non poteva che adattarsi alla malinconica filosofia del «Francia e Spagna purché se magna» e del «quando soffia il vento, fatti canna». La parabola degli outsider che cercarono una strada diversa – come quel Masaniello che pare anticipare certi aspetti della «carriera» di Beppe Grillo – è coerente con quella d’una filosofia che dai caratteri leonino-volpeschi del Machiavelli era passata all’arte della simulazione e della dissimulazione «onesta» teorizzata nella prima metà del Seicento dal napoletano Torquato Accetto e alle peripezie del «bugiardo» che Carlo Goldoni aveva messo in scena nel 1750 sulle orme di Corneille e di Ruiz de Alarcón.
La Rivoluzione francese giunta nella penisola sulle baionette d’Oltralpe, il Risorgimento organizzato tra corti e cancellerie e solo debolmente riflesso in un’opinione pubblica nel complesso ignorante e indifferente, il trasformismo avviato dai «gattopardi» presentati da Tomasi di Lampedusa («Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi») e ben testimoniato dalla ricerca di un unanimismo che attraverso il giolittismo, l’ammucchiata mussoliniana dal 1925 in poi, quindi esperienze come la lunga gerontocrazia democristiana, l’avventura craxiana e l’imprenditorial-istrionismo berlusconiano, non hanno fino a oggi se non confermato la lunga attitudine italiana al conformismo di superficie e all’arte di arrangiarsi, salvo trovare – e questo va detto – inaspettate risorse ed energie nei momenti di crisi. Ma basta tutto ciò per individuare deterministicamente uno dei «caratteri originali» dell’identità italiana nel sistematico ricorso alla menzogna come risorsa utilitaristica? E per invocare una «paternità machiavelliana» a tale risorsa, ignorando che la lezione del Segretario fiorentino aveva un carattere etico strategico diretto ai governanti anziché ai governati, ai protagonisti della storia anziché a quanti erano e restano invece abituati a subirla?

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