venerdì 22 novembre 2013

Camilleri - De Mauro, il dialetto è cosa seria


Conversazione tra il romanziere e il linguista su passato e futuro dell’italiano

Raffaele Simone

“La Repubblica“, 21 novembre 2013

Questo non è un libro per giovani. È un colloquio tra due grandi vecchi della nostra cultura, Andrea Camilleri scrittore e Tullio De Mauro linguista, che ragionano, discutono, argomentano della lingua che hanno vissuto (La lingua batte dove il dente duole, Laterza). Camilleri, naturalmente, ne parla da scrittore, cioè racconta della sua lingua, di quella speciale maniera siculo-italiana che ha inventato e che è diventata una sorta di koinè tra i suoi ammiratori (e ammiratrici). A De Mauro invece sta più a cuore lo stato di salute culturale del paese, anche se ogni tanto anche lui lascia affiorare qualche vena di autobiografia linguistica. Tra le due prospettive, che si intrecciano, si incontrano, spuntano frammenti e episodi minuti (piccole storie, battute di persone illustri e no, schegge di vita) spesso di irresistibile comicità. Inoltre si costruisce, sempre più nitido, il quadro inquieto del nostro passato linguistico.
Anzitutto per quanto riguarda il posto del dialetto. «Il dialetto è sempre la lingua degli affetti» dice Camilleri, «un fatto confidenziale, intimo, familiare». Ma De Mauro lo contrasta: «A Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto». I dialoganti concordano però sul fatto che sui dialetti si è abbattuta nella storia italiana, dal fascismo in poi, una serie di attacchi che hanno finito per sfibrarli, senza riuscire a sopprimerli. Infatti (ricorda De Mauro) i dialetti esistono ancora e sono parlati diffusamente, ma non hanno più un supporto solido. Ciò che è andato perduto è «la trama di cultura materiale che era la cultura dei campi e la cultura dei mestieri». Il racconto della nostra storia linguistica recente quale affiora dagli interventi di De Mauro è del resto il racconto di una serie di sconfitte. Anzitutto quella di tutti i progetti educativi riguardanti la lingua e le capacità connesse: al fallimentare sforzo del fascismo di unificare linguisticamente il paese e di estirpare la “mala pianta” dialettale si somma lo scacco degli obiettivi concepiti a partire degli anni Settanta. De Mauro ne ricorda impietosamente gli effetti: oggigiorno «cinque italiani ogni cento sono incapaci di leggere e capire qualche parola scritta. Solo il 29% riesce a inoltrarsi nella lettura superando il secondo questionario [di alcune indagini internazionali] e a rispondere bene al terzo, quarto e quindi questionario. Il 71% non ce la fa...». Maliziosamente, Camilleri tira fuori un esempio dal linguaggio dei media: «Nei giorni del terremoto in Emilia il corrispondente [di Sky Tg24] ha detto: ‘ci sono sciacalli in giro che vanno nelle case abbandonate, vuote perché la gente è scappata, a fare rappresaglia di tutto quello che trovano’». Nel dialogo i media appaiono del resto come uno dei principali avversari di una lingua di decente livello, insieme al radicato animus burocratico del paese e la provinciale dipendenza nei confronti dell’inglese e di ogni infima moda originante da culture “forti”.
La natura della letteratura è un altro degli assi di questo intrigante volumetto. Camilleri, non a caso, ama nei Promessi sposi l’andamento cinematografico e la «narrazione visiva straordinaria». Si proclama «uno scrittore di cose» (anche se i suoi lettori sono attratti forse più dal suo linguaggio). E racconta di come si rese conto che non era l’italiano la lingua giusta per le sue storie: «Sentivo che il mio italiano aveva un respiro corto». A trovare la “sua” lingua arrivò quando, dopo aver raccontato la trama del suo primo romanzo al padre malato, questi gli suggerì di metterla per iscritto come l’aveva raccontata a lui, cioè con quel «misto di italiano e siciliano» che si usava nella sua famiglia, dove l’italiano «lo adoperavamo per sottolineare, per mettere in chiaro, per prendere le distanze, per dire ‘te lo dico una volta e per tutte’».
Ho detto all’inizio che questo non è un libro per giovani. La discussione di cui dà conto è infatti quasi per intero incentrata sul passato, recente o remoto. In questa dimensione, lo scrittore risulta per così dire più appagato del linguista: specchiandosi nel passato Camilleri ha guadagnato un linguaggio e una maniera; De Mauro invece ha dovuto registrare una serie di storiche sconfitte (circa l’alfabetizzazione, la diffusione della cultura di base, la qualità del linguaggio pubblico...). Poco o nulla si dice di quel che ci aspetta. Camilleri sembra fiducioso che le lingue di immigrazione possano arricchire l’italiano, anche se nulla finora dà conferma di questo fatto. L’emergere di nuovi ceti, nuovi media e nuovi set comunicativi, unito al degradarsi della qualità dell’istruzione e della trasmissione del sapere ci preparano sicuramente nuovi, non necessariamente affabili, modi di usare la lingua e le lingue. Che i due dialoganti abbiano deciso di non farne parola per non lasciare l’amaro in bocca al lettore?

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