domenica 3 novembre 2013

A che servono i filosofi. Quel che possono dire a proposito del mondo


Il Novecento è pieno di ipotesi sulla inutilità di una disciplina 
che forse è ancora capace di spiegare molte cose


Maurizio Ferraris

                                                  "La Repubblica",  25 ottobre 2013

Riprende oggi, con lo “Speciale Nuovo Realismo” la programmazione di Zettel, Filosofia in movimento (Rai Scuola canale 146 del digitale terrestre), prodotto da Rai Educational, direttore Silvia Calandrelli. Il programma, giunto alla terza edizione, è ideato da Gino Roncaglia e progettato e condotto da Maurizio Ferraris – di cui qui riportiamo una parte della conferenza «What is (new in) New Realism» tenuta all’University College di Londra il 21 ottobre – con Mario De Caro. Lo speciale è interamente dedicato a questo movimento filosofico e ai protagonisti del dibattito, da Mario De Caro a Giacomo Marramao, da Paolo Flores D’Arcais ad Arnaldo Colasanti.

Nel 1982 usciva Che cosa fanno oggi i filosofi? (Bompiani), con contributi dei maggiori filosofi italiani. Nell’epoca in cui la televisione-verità muoveva i primi passi con Chi l’ha visto?,l’interrogativo non poteva mancare di impensierire. L’inafferrabilità - e probabilmente la decrepita inutilità - della filosofia erano idee correnti, visto che tra i libri che maggiormente segnarono l’epoca ci furono La condizione postmoderna di Lyotard (la cui tesi centrale era la fine dei “grandi racconti”, ossia della filosofia: illuminismo, idealismo, marxismo) e, per l’Italia, due raccolte di articoli dai titoli eloquenti: la Crisi della ragione e il pensiero debole.
Era l’esito di un processo di lungo periodo, in cui molto contava il fallimento della richiesta iperbolica di Marx e di Nietzsche, per cui i filosofi avrebbero dovuto trasformare il mondo. Per tutto il Novecento, la “morte della filosofia” è stata un florido genere letterario, da Morte e resurrezione della filosofia (1903) e Il crepuscolo dei filosofi di Papini (1906) all’A che servono i filosofi?di Revel (1957), a La fine della filosofia e il compito del pensiero (1964) di Heidegger sino a Fine della filosofia e altri saggi di Colletti (1996). I più benevoli la vedevano come una specie di etnologia della civiltà occidentale, un modo per guardare criticamente ai pregiudizi di una tribù che si era inventata la mitologia della ragione universale. I più malevoli, invece, ritenevano che fosse essa stessa quella mitologia, da sostituirsi con scienze più ragionevoli e sobrie. Anzi, con la scienza tout court, visto che l’idea di una filosofia sempre più modica nelle sue pretese e sempre più dipendente dalla scienza risaliva a Kant, che aveva proposto disostituire “l’orgoglioso nome” di “ontologia” con il più modesto progetto di una “critica della ragione”.
Dunque, non si trattava solo di un atteggiamento extrafilosofico. Era il cuore della filosofia che nel Novecento si è concepita come negatività, decostruzione, interpretazione, autosuperamento (e dunque autoreferenzialità), e molto raramente come fonte positiva di conoscenza. Questo valeva tanto per i filosofi amici della scienza, che si consideravano, nella migliore delle ipotesi, degli esegeti del lavoro fatto dagli scienziati. Sia per i filosofi nemici della scienza, che – identificando anche loro la scienza come la misura ultima della verità e della realtà – si trasformavano in professionisti dello scetticismo. Oggi non è più così. Dipende da un rafforzarsi della filosofia o da un indebolirsi della scienza? Non credo. Probabilmente, il motivo è l’accresciuta consapevolezza dei limiti della scienza, impostasi con un processo analogo a quanto è avvenuto in filosofia pressappoco all’epoca di Kant.
Oggi nessun filosofo, per quanto favorevole alla scienza, sarebbe infatti disposto a sostenere che è la soluzione di tutti i problemi e la risposta a tutti gli interrogativi. E neppure nessuno scienziato, tranne paradossalmente quelli che, vittime di una metafisica troppo forte, prendono per buone le descrizioni idealizzate della scienza che i filosofi avevano fabbricato troppi anni fa. Quali siano i limiti di ciò che (troppo genericamente) si chiama “scienza” lo si può del resto capire con un semplice esperimento. Prendete la copia di un giornale e chiedetevi: quante sono le notizie in cui la scienza assolve un qualche ruolo? Quasi nessuna. Si devono aspettare le pagine sulla salute, quelle dello sport (per via del doping), qualche volta la cronaca nera (perizie balistiche), e il meteo, che peraltro convive con l’oroscopo.
Questo ovviamente non significa che la filosofia sia in grado di risolvere i problemi delle prime pagine del giornale. Era la convinzione che cercarono di generare Platone e Aristotele quando si proposero come formatori delle classi dirigenti greche, ma ci sono buone ragioni per essere scettici. Il vero vantaggio è più modesto, ma molto concreto: consiste appunto nel venir meno della convinzione che essere filosofi significhi o appiattirsi completamente sulla scienza (come avveniva nelle diverse varianti del positivismo) o manifestare forme di antiscientismo di diversa radicalità, ma ugualmente insincere, giacché alla fine anche Feyerabend, che sosteneva che nella scienza “anything goes”, “va bene tutto”, avrebbe cercato per sé non un medico qualsiasi ma il medico migliore. La scienza ha dunque trovato dei limiti più precisi, ma questo non ha affatto comportato un trionfo dell’antiscientismo o uno scetticismo generalizzato rispetto alla realtà.
Oggi è infatti più chiaro che nel secolo scorso che non tutto ciò che è vero è scientifico, soprattutto se con “scienza” intendiamo la fisica: siamo perfettamente disposti ad ammettere che le nostre attuali conoscenze fisiche potranno cambiare e che alcune tra esse potranno rivelarsi false, mentre resterà vero sino alla fine dei tempi che Madame Bovary si chiamava “Emma” e che non esiste un colore che non abbia una estensione. Al tempo stesso, sempre se con “scienza” intendiamo la fisica, non è ovvio sostenere che la scienza giochi sistematicamente un ruolo fondativo, e superiore a ogni altra pratica o sapere, nella nostra vita. Le cose cambiano se prendiamo come riferimento una scienza generalmente negletta dai filosofi, e cioè la medicina: se una comunità di tolemaici può avere le stesse leggi di una comunità di copernicani, è molto probabile che una comunità persuasa della nocività del fumo ne tragga delle conseguenze politiche.
Ma anche la comunità che crede ai medici e non agli sciamani potrebbe essere giustamente riluttante a farsi guidare dai medici in ambito etico e ad apprezzare gli sciamani in campo estetico. Tuttavia - e questo è appunto l’elemento di gran lunga più significativo quanto ai nuovi rapporti tra scienza e filosofia - il fatto che sia sempre più evidente che la scienza non è sistematicamente la misura ultima della verità e della realtà non comporta minimamente che si debba dire addio alla realtà, alla verità o alla oggettività, come aveva concluso molta filosofia del secolo scorso con un “anything goes” che ricordava molto il dostoevskijano «Se Dio è morto, tutto è possibile». Significa piuttosto che anche la filosofia, così come la giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito del mondo.

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