sabato 28 settembre 2013

Il compito più difficile è condividere l’amore per il sapere




Il compito più difficile è condividere l’amore per il sapere



La replica all’articolo di Massimo Recalcati sugli insegnanti


Pier Aldo Rovatti



“La Repubblica”, 28 settembre 2013




Appena dopo aver letto l’articolo di Massimo Recalcati sui problemi dell’insegnare oggi (Repubblica, venerdì 20 settembre) sono andato a Pordenonelegge a parlare di scuola, anzi di “scuola impossibile”. L’occasione era fornita dalla presentazione di un fascicolo speciale della rivista Aut aut, curato da Beatrice Bonato e recante esattamente questo titolo: La scuola impossibile. Un titolo dal sapore freudiano che però è possibile intendere in due modi, uno decisamente più nobile, appunto quello di Freud, e cioè che l’insegnamento non è un compito che si possa ridurre dentro regole prestabilite dato che è un compito incondizionato, incondizionabile e in tal senso “impossibile”; l’altro meno nobile e più terra terra, e cioè che oggi, in questa nostra scuola, in questa determinata società, insegnare è un’impresa fallimentare per una spaventevole quantità di motivi, materiali e culturali, che tutti insieme costituiscono i ben noti “guai” della scuola italiana. Una scuola che avrebbe bisogno di essere strutturalmente rianimata.
Eppure l’insegnamento resta l’obiettivo e perfino il desiderio principale di una parte consistente della giovane forza lavoro intellettuale: la destinazione che moltissimi vorrebbero raggiungere, se solo riuscissero a valicare le strettoie e le griglie concorsuali, una destinazione che darebbe loro un posto di lavoro in condizioni appunto difficili e per un salario alquanto avvilente. Che cosa sorregge questo loro desiderio di insegnare? Sono una massa di masochisti? Al contrario, sembra che essi apprezzino proprio il lato nobile dell’insegnamento e la sfida che gli appartiene. Forse rimarranno incrodati in parete, ma il rischio dell’impresa supera — nel suo potere di attrazione — il calcolo presumibile dei danni personali. A guardar bene, ci si accorge che ciò che attira è precisamente quella “impossibilità” del compito di insegnare che si lega con evidenza tanto al sapere quanto alla relazione con gli altri. Immagino che fin qui Recalcati sia pienamente d’accordo. Qualche differenza potrebbe nascere nel momento in cui andiamo a vedere cosa significano, oggi, per l’insegnante, il “sapere” e la “relazione”, perché essi non possano mai essere separati, come non si possa insegnare l’“amore per il sapere” senza mettere ogni volta in gioco il complicato rapporto tra insegnante e allievi (un rapporto che non è sufficiente impacchettare nella parola “seduzione”).
Quanto al sapere, certo la scuola deve essere un apprendistato, un’educazione che insegni ad apprezzarlo in quanto tale, tuttavia il sapere non è mai qualcosa di chiuso in se stesso: è sempre un tessuto storico e sociale connesso al potere, un gioco di verità che è anche, ogni volta, un regime di verità, e insomma il sapere non sta in alto e fuori, bensì in basso e dentro, nella concretezza delle pratiche reali. E, quanto alla relazione, è difficile negare che la scuola sia innanzi tutto una palestra di comunità e di socializzazione e che — nel caso contrario, cioè quando prevalgono altre istanze o si privilegiano altri obiettivi, per esempio l’apprendimento della disciplina — essa rischia di mancare clamorosamente al proprio mandato.
Per essere ancora più chiaro, vorrei sottolineare che l’amore per il sapere, per il fatto stesso di essere un “amore”, deve passare necessariamente per la relazione, cioè attraverso l’accomunamento e la socializzazione. Se ciò accade, si produce anche una trasformazione delle soggettività, una doppia trasformazione poiché riguarda al tempo stesso gli allievi e l’insegnante. Se l’insegnante non è toccato da tale processo la scuola gira a vuoto e costruisce una relazionalità bloccata e perfino negativa. So che Recalcati condivide la sostanza di queste riflessioni, volevo solo dare a esse una maggiore esplicitazione.

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