domenica 15 settembre 2013

Creare significa «fare» L'etimo antico del genio

Apollonio di Giovanni e Marco del Buono, Le avventure di Ulisse
Wawel, Castello Reale di Wawel


Alle radici di un attributo divino e umano

Umberto Curi

"Corriere della Sera", 30 agosto 2013

La genealogia del verbo italiano «creare» — e di altri termini simili nelle lingue moderne, come il francese creer e lo spagnolo criar — è insieme istruttiva e sorprendente. La derivazione più attendibile è infatti dal sanscrito kar-, che ritroviamo nel greco kaino («produco»), oltre che in krantor (il «dominatore») e kreion («colui che fa»), sempre col significato di «produrre», «generare», «fabbricare». Ne troviamo traccia anche in «crescere», che sarebbe una forma incoativa di «creare», e starebbe appunto a indicare il processo mediante il quale qualcuno o qualcosa si va formando.
La presenza della radice sanscrita nel nome di due divinità — Kronos (il «creatore»), padre di Zeus, e Ceres («quella che produce»), divinità delle messi, in modi diversi connessi con la coltivazione dei campi, confermerebbe il fatto che la capacità di creare, la creatività, rappresenta una forma specifica del fare, con particolare accentuazione sulle potenzialità generative. La concezione cristiana del Dio «creatore» chiarisce ulteriormente il quadro concettuale: vi è ribadita la funzione «generativa» della creazione, con l'aggiunta di un ex nihilo, che sottolinea l'anteriorità cronologica e ontologica di Dio rispetto ai prodotti della creazione.
Il mondo greco antico conosce due modi ben distinti — e due termini diversi — per alludere a ciò che chiamiamo intelligenza: nous e metis. La prima è l'intelligenza inattiva e contemplativa, quella che intus-legit, e cioè «legge dentro» le cose, le conosce nella loro essenza concettuale, senza tuttavia preludere ad alcun tipo di azione o di comportamento. È l'intelligenza astratta, disimpegnata da ogni vincolo con il «fare». Ben diversa è, invece, la metis, l'intelligenza attiva ed esecutrice, preposta all'azione, e dunque provvista di abilità e di prudenza, di astuzia e pazienza. Il nous contempla. La metis, come la creatività, genera.
Già nell'Iliade, Odisseo è presentato come polymetis («molto astuto») e polymechanos («molto abile»), polytlas («molto paziente»), un campione di quell'intelligenza pragmatica capace di creare soluzioni anche in situazioni all'apparenza senza sbocchi. La guerra di Troia si concluderà per quello che potremmo chiamare un esempio di vivace creatività, un vero «colpo di genio», di Ulisse, al quale si potrebbe dunque riferire ciò che Eraclito scrive di Pitagora, quando lo accusa di essere kopidon archegos, «inventore primo di inganni».
Ma campione della metis è anche Prometeo, che la metis porta già nel suo stesso nome. Egli sarà assunto anzi come patrono degli artigiani, perché accreditato in forma eminente della capacità di produrre. Senza dimenticare che Zeus riuscirà a vincere la lotta per la conquista dell'Olimpo solo quando avrà ingoiato colei che egli aveva scelto come sua compagna — Metis, appunto — riuscendo con ciò ad aggiungere a Kratos e Bia, al Potere e alla Violenza, anche l'intelligenza pratico-creatrice. Quasi a dire che, per governare, non basta l'esercizio della violenza e l'uso del potere, poiché è non meno indispensabile la creatività.
Così si comprende anche per quale motivo la dimensione temporale che più si addice alla creatività della metis non è il chronos, il tempo della successione, la misura del divenire, l'accezione quantitativa di tempo. Connesso alla metis è piuttosto il kairos, il tempo opportuno, l'attimo che fugge, e cioè quella variante qualitativa del tempo in cui si manifesta un evento extra-ordinario, che va afferrato al volo, come insegna la raffigurazione classica del kairos: un giovane calvo sulla nuca e provvisto di un vistoso ciuffo sulla fronte, che dobbiamo afferrare quando ci viene incontro, se non vogliamo perdere il «momento buono».
Ciò che nella nozione originaria di metis appare ancora implicito e indistinto, esplode nella cultura moderna e contemporanea talora in forma di contrapposizione insanabile. Da un lato, soprattutto nella concezione romantica, la creatività è un requisito attinente all'affettività e ai sentimenti, ma non alla ragione, il cui dispotismo geometrico è considerato in contrasto con la libera espansività della creazione artistica. Già dai primi decenni del Novecento, però, l'irrompere della Gestaltpsychologie prima, e del cognitivismo poi, in campo psicologico e l'affermazione impetuosa delle neuroscienze conducono a un simmetrico rovesciamento dell'impostazione romantica. Non l'arte, ma la scienza, non gli affetti ma la razionalità, costituiscono il terreno di espressione della creatività.
Si profila con ciò una sorta di dualismo — documentato nella collana di testi pubblicati dal «Corriere della sera» e dal Festival della mente — fra due accezioni diverse di affettività, a seconda che essa venga riferita all'intuizione e alla sfera generale dei valori poetici, in una visione in sostanza antirazionalistica che sopravvive nel pensiero francese fino all'inizio del nostro secolo; ovvero che essa sia collegata allo stereotipo dell'uomo di genio in campo scientifico, capace di produrre innovazione anche in campo tecnologico, secondo una concezione che gode di particolare credito nei Paesi di lingua inglese. Al di là di questo dissidio, la recente forte ripresa di interesse per la creatività non può occultare un punto decisivo, e cioè che essa conserva tuttora un margine di enigmaticità, tale da renderla solo parzialmente decifrabile. Al punto da far apparire tutt'altro che paradossale la corrosiva battuta di Einstein: «Il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti».

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