domenica 15 settembre 2013

Ci ripenso dunque sono

Le inquie­tu­dini di Ario­sto, Man­zoni e gli altri. L’opera non è mai finita

Paolo di Stefano

Cor­riere della Sera, 8 settembre 2013


«Ho lavo­rato tutta la mat­tina alla bozza di uno dei miei poemi, e ho tolto una vir­gola. Al pome­rig­gio l’ho rimessa». Chi non ricorda l’autoironica con­fes­sione di Oscar Wilde? Un para­dosso, ma nean­che troppo. I veri scrit­tori tol­gono, cam­biano e aggiun­gono di con­ti­nuo. A volte lo fanno anche a cose com­piute, quando il libro ha già da tempo comin­ciato la sua vita pub­blica, come è capi­tato a Michele Mari con il suo romanzo d’esordio,Di bestia in bestia, ripreso due volte ben dopo l’uscita del 1989. Ma gli esempi del pas­sato sono nume­rosi: basti pen­sare alle nume­rose tappe che por­ta­rono Ludo­vico Ario­sto a rive­dere il piano dell’Orlando furioso per oltre dieci anni, fino a pochi mesi dalla morte e dopo molte ristampe. E Tor­quato Tasso riscrisse la Geru­sa­lemme libe­rata chia­man­dola Con­qui­stata per segnare lo scarto. Anche per Man­zoni, come si sa, le pro­gres­sive riscrit­ture impo­sero un cam­bia­mento nei titoli: dal Fermo e Lucia agli Sposi pro­messi ai Pro­messi sposi, con il tra­va­glia­tis­simo pas­sag­gio, per quest’ultimo, dall’edizione Fer­ra­rio 1827 alla cosid­detta Qua­ran­tana degli edi­tori Gugliel­mini e Redaelli.
Insomma, let­te­ra­tura è osses­sione, e osses­sione è insod­di­sfa­zione perenne. Non tutti lavo­rano in levare, come Mari. Per saperlo, non c’è biso­gno di fare il nome di Carlo Emi­lio Gadda, che con­si­de­rava prov­vi­so­ria pra­ti­ca­mente tutta la sua pro­du­zione nar­ra­tiva, com­presi i romanzi e i rac­conti già editi. Restando ai nostri anni, va ricor­dato il caso di Alberto Arba­sino, il re della riscrit­tura, e non certo sol­tanto per la famosa serie diFra­telli d’Italia 12 e 3 (Fel­tri­nelli 1963, Einaudi 1967, Adel­phi 1993): rifa­ci­mento quasi totale e per di più ampia­mente accre­sciuto. Altro esem­pio: Anto­nio More­sco ha messo mano, a distanza di anni, a nume­rosi suoi libri, e Let­tere a nes­suno, tran­si­tando dall’edizione Bol­lati Borin­ghieri del 1997 alla seconda, Einaudi 2008, è quasi tri­pli­cato. Più spesso si pro­cede con il bisturi, togliendo ripe­ti­zioni o aggiu­stando qua e là una svi­sta dell’intreccio, un baffo del per­so­nag­gio, un giro sin­tat­tico che non con­vince più. Come ha fatto Umberto Eco appor­tando qual­che variante sti­li­stica al Nome della rosa 1980, dopo tre decenni e trenta milioni di copie ven­dute. E si sa che qual­che ritocco è soprag­giunto, dopo ven­ti­cin­que anni dalla prima uscita, anche per Il pen­dolo di Fou­cault.
Può anche capi­tare che a furia di cam­biare venga fuori un libro nuovo. Così Italo Cal­vino, nel 1968, per il Club degli Edi­tori mette insieme due libri di rac­conti pre­ce­denti (Le cosmi­co­mi­che e T con zero) ristrut­tu­rando l’intera rac­colta, che avrà un titolo ine­dito: La memo­ria del mondo e altre sto­rie cosmi­co­mi­che. Una nuova edi­zione gar­zan­tiana (1984), con il titolo Le cosmi­co­mi­che vec­chie e nuove, è il frutto di una ulte­riore revi­sione strut­tu­rale con note­voli aggiunte. Come Gior­gio Bas­sani, anche Giu­seppe Pon­tig­gia è stato un altro instan­ca­bile rifa­ci­tore di se stesso con seconde edi­zioni rive­dute e ampliate, quando non addi­rit­tura inte­ra­mente rin­no­vate. Occorre anche una buona dose di luci­dità e auto­cri­tica: «Mi sono reso conto che il testo pre­sen­tava alcuni difetti non mar­gi­nali», affer­mava nella Nota della Grande sera. Altre volte, le varia­zioni sono det­tate dalle cir­co­stanze: dopo la prima edi­zione di Ago­stino (1945), Alberto Mora­via potrà final­mente per­met­tersi di sosti­tuire con il «lei» il «voi» impo­sto dal regime fascista.
Non è certo come dare una mano di ver­nice ai muri di casa e nean­che come sanare le crepe di un edi­fi­cio invec­chiato. È una que­stione di orec­chio, che solo l’autore può valu­tare: è lo stesso Mari, nella nota finale alla nuova edi­zione, ad allu­dere alle Varia­zioni Gold­berg ese­guite da Glenn Gould. Certo, l’editore ha tutto il diritto (e anche il dovere) di dire la sua. Nel caso di Mari, non va dimen­ti­cato che Mario Spa­gnol gli aveva con­si­gliato un ener­gico edi­ting sul mano­scritto. Ne discusse a lungo con il gio­vane autore, che rispose: «Può darsi che lei abbia ragione, ma io non sen­ti­rei più il libro come mio». Spa­gnol cercò di aggi­rare l’imbarazzo, sot­to­po­nen­do­gli le revi­sioni rea­liz­zate da «un altro scrit­tore» (curio­sità: chi sarà mai?). Nulla da fare, Mari non mollò. Poi, nel 2004, comin­ciò a ripen­sarci e, senza ren­derne conto a nes­suno, si mise ad asciu­gare e ritornò ad asciu­gare nel 2012. Il risul­tato del dop­pio inter­vento è l’attuale edi­zione Einaudi, che forse dà ragione (postu­ma­mente) a quel grande editore-cane-da-tartufi che fu Spagnol.
Gli edi­tori di razza, da primi let­tori, non esi­tano a entrare in dia­let­tica sui libri. Gli altri accet­tano o respin­gono, e basta. In una let­tera Valen­tino Bom­piani sug­gerì con deli­ca­tezza a Eco di dare un’occhiata al sogno di Adso («un po’ lungo e insi­stito») e di rive­dere la descri­zione dell’incendio finale («non tutta utile»). Il semiologo-scrittore, pur con l’enorme stima che nutriva per il suo edi­tore sto­rico, respinse gen­til­mente al mit­tente quelle osser­va­zioni. E inter­venne pochis­simo. Ma si sa che zio Val non era un tipo facile. Con i primi rac­conti del gio­vane Luigi Malerba reagì a modo suo, cioè da una parte mani­fe­stando la pro­pria fidu­cia, dall’altra pre­ci­sando che «non sem­pre l’invenzione regge tutto l’arco del rac­conto (…), la seconda parte è stanca. E allora si fini­sce sul piano boz­zet­ti­stico». Malerba avrebbe accolto le pro­po­ste infor­mando di avere «già fatto delle cor­re­zioni che mi sem­brano risolutive».
Non fu vera ten­sione, com’era stata nel 1955 quella tra Pier Paolo Paso­lini e Livio Gar­zanti a pro­po­sito diRagazzi di vita. «Gar­zanti all’ultimo momento — scrisse Paso­lini al poeta Vit­to­rio Sereni — è stato preso da scru­poli mora­li­stici, e si è smon­tato. Così mi trovo con delle bozze morte fra le mani, da cor­reg­gere e da castrare. Una vera dispe­ra­zione, credo di non essermi tro­vato mai in un più brutto fran­gente let­te­ra­rio… ». L’editore aveva impo­sto all’autore un lavoro di «auto­cen­sura» sem­pre più radi­cale cui Paso­lini, sulle prime, sem­brò dedi­carsi senza bat­ter ciglio facendo uso dei pun­tini di sospen­sione per sosti­tuire le paro­lacce. Anzi, dicen­dosi dispo­ni­bile a inter­ve­nire con più deci­sione: «Potrei farne (natu­ral­mente a malin­cuore) ancora di più, se Lei lo cre­desse oppor­tuno». Nel giro di un mese, però, non si trattò più solo di usare i punti di sospen­sione, ma di atte­nuare, tagliare e ricu­cire, pur­gare, rifare: segui­ranno, per Paso­lini, «giorni atroci».
Può sem­brare incre­di­bile, ma ci sono scrit­tori finiti nella grande sto­ria let­te­ra­ria che di fronte a un’osservazione del loro edi­tore non fanno alcuna resi­stenza, asse­con­dano desi­deri e capricci anche a costo di vedersi vio­len­tare il pro­prio testo: sono casi che si tro­vano rac­con­tati, tra mille altri, nel libro di Alberto Cadioli Le diverse pagine(il Sag­gia­tore 2012), dove si affronta il ruolo dell’editore nella con­fe­zione del testo let­te­ra­rio. Si veda, per esem­pio, la mitezza con cui l’esordiente Beppe Feno­glio si sot­to­pose alla revi­sione del duo Calvino-Vittorini (fun­zio­na­rio einau­diano il primo, diret­tore dei «Get­toni» il secondo). Nell’affaire Feno­glio, che Vit­to­rini non amava par­ti­co­lar­mente, c’è qual­cosa di bef­fardo. Lo scrit­tore di Alba ubbidì ai desi­deri edi­to­riali di rive­dere La paga del sabato, secondo le pun­tuali richie­ste dell’editor Vit­to­rini: «A me pare di avere abba­stanza rin­for­zato e sostan­ziato i due ultimi capi­toli che erano cer­ta­mente i più deboli: vi ho aggiunto un epi­so­dio per ognuno dei due capi­toli. E mi pare di esser riu­scito ad eli­mi­nare in parte quel che di “ovvio” lamen­tava il Sig. Vittorini».
Nean­che dopo la cor­re­zione, però, il romanzo piac­que e dun­que fu respinto, nono­stante il parere cau­ta­mente posi­tivo di Cal­vino, espresso per let­tera nel ’50: «Mi sem­bra che tu abbia delle qua­lità for­tis­sime; certo anche molti difetti, sei spesso tra­sci­nato nel lin­guag­gio, tante pic­cole cose andreb­bero cor­rette, molte cose urtano il gusto — spe­cie nelle scene amo­rose — e non tutti i capi­toli sono egual­mente riu­sciti. Però sai cen­trare situa­zioni psi­co­lo­gi­che par­ti­co­la­ris­sime con una sicu­rezza che dav­vero mi sem­bra rara». Alla fine sarà don Elio a chie­dere a Feno­glio di rinun­ciare al libro per con­cen­trarsi sui rac­conti. E scri­vendo a Pavese, anche l’autore sarà preso dal dub­bio: «Ma non ha forse ragione, in fondo, il signor Vit­to­rini?». No. Aveva torto mar­cio, e Feno­glio avrebbe dovuto insistere.

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