domenica 25 agosto 2013

LA PERSISTENZA DEI CLASSICI


ALBERTO MANGUEL

"La Repubblica", 11 agosto 2013

Forse è l' adolescenza l' età migliore per conoscere i classici. Ricordo la sorpresa con cui scoprii - avevo quattordicio quindici anni - nell'eclettica biblioteca di mio padre i dialoghi umoristici di Platone, le storie intrepide di Erodoto, i poemi infuocati di Catullo, i saggi riflessivi di Seneca. Senza che nessuno mi obbligasse a studiarli e senza che nessuno mi avvertisse che si trattava di classici, sfogliavo a Buenos Aires i piccoli volumi della collana Austral, domandandomi - come Socrate - come si fa a distinguere tra il sonno e la veglia, e meravigliandomi - come Erodoto - che gli sciti guerreggiassero sopra un mare di ghiaccio, e turbandomi - come Catullo - di fronte alla bellezza di Lesbia e di Giovenzio, e desiderando - come Seneca - un giardino appartato per sedermi a leggere in pace. Con l' età buona parte dei testi fondamentali si trasformano, nella memoria, quasi in luoghi comuni, forse perché la nostra esperienza fa sì che non ci appaiano più sorprendenti e illuminanti come quella prima volta. Man mano che passa il tempo, le riflessioni degli antichi saggi diventano nostre e le ripetiamo non più come rivelazioni eclatanti, ma come una trita conferma di verità, ahimè, troppo evidenti: la vita è breve, la felicità passeggera, la carne triste, i sogni di gioventù frustrati, la miseria del mondo costante. La vecchiaia ci trasforma tutti in piccoli filosofi di una mortificante banalità. 
A volte ci stuzzicano a leggere un classico coloro che lo rifiutano, come quando Sarkozy chiese a che serve leggere La principessa di Clèves, facendo impennare le vendite della contessa di Lafayette in Francia. A volte uno sconclusionato melodramma popolare cita un capolavoro e lo proietta nella lista dei bestseller, com'è successo, grazie a Dan Brown, alla Divina commedia in Spagna. Ma al di là di questi casi fortuiti, perché leggere i classici? Perché leggere Seneca, per esempio? Per consolarci, fra le altre cose, con quella che i tedeschi chiamano Schadenfreude, quella sorta di cupa allegria che si prova nello scoprire che nemmeno gli altri, i nostri antenati, sono stati felici, e che nelle epoche remote della cultura classica la vita non era né più facile né più giusta. A confronto dei lunatici imperatori, i nostri governanti attuali appaiono esseri quasi razionali; a paragone dei sanguinosi spettacoli che il popolo pretendeva, i videogiochi più violenti risultano di una candida innocenza; di fronte alle enormi ingiustizie della società romana, i capricci delle nostre dittature appaiono quasi democratici. Sembra miracoloso che in simili circostanze si sia potuta creare quella raffinatissima letteratura latina che ha dato origine a tante delle nostre culture. Per istruirci con aneddoti che consigliano, exemplum docet, come vivere meglio. Racconta Seneca, in Della tranquillità dell' anima, che Cano, condannato a morte, disse al suo consigliere che si era proposto di «osservare, in quel momento fuggevole, se l'animo avrà la sensazione di uscir fuori» e gli promise che se avesse scoperto qualcosa avrebbe fatto visita uno dopo l' altro a tutti i suoi amici per rivelare loro quale fosse la condizione degli spiriti nell'aldilà. (Diciotto secoli più tardi, in un continente che per Seneca non esisteva, Edgar Allan Poe avrebbe trasformato il nobile proposito di Cano nella terrificante storia intitolata La verità sul caso del signor Valdemar). Caligola, uno degli imperatori più dementi e sanguinari, fu assassinato nel gennaio del 41 d. C., «disgustatissimo», scrive Seneca, «se negli inferi sussiste qualche sentimento, a vedere che gli sopravviveva il popolo romano». (Videla e Pinochet hanno sicuramente condiviso lo stesso disgusto). Catone, spiega Seneca parlando dell' ira, un giorno ricevette un pugno in faccia; quando i suoi amici si sorpresero del fatto che non si fosse irritato e nemmeno offeso, Catone rispose loro: «Non ricordo che mi abbiano picchiato» (risposta ancora più sottile di quella proposta da un contemporaneo di Seneca su un monte della Galilea). 
Per continuare una stirpe di illustri lettori, Seneca fu letto e approvato dai primi cristiani: nel Medioevo, Dante lo collocò nel «nobile castello» insieme a Omero, definendolo «Seneca morale». Sant'Agostino, in modo più sottile, distingue tra lo scrittore e l' uomo: commentando le qualità morali della franchezza e del coraggio, Agostino segnala che Seneca le possedeva «anche se non pienamente. Intendo dire che le faceva proprie nei suoi scritti, ma non le dimostrò nella sua stessa vita». Nella sua vita, Seneca fu quasi il contrario di uno stoico. Si dedicò agli affari e all'usura, e in poco tempo accumulò un' enorme fortuna che gli consentì di accedere a incarichi pubblici. Sotto diversi imperatori (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) fu questore, console e consigliere imperiale. Dopo che Nerone fece assassinare la propria madre, Seneca redasse la discolpa dell' imperatore di fronte al Senato. Il suo comportamento servile non gli servì a nulla. Sulla base di prove inventate, fu accusato di cospirare contro l' imperatore e Nerone gli ordinò di suicidarsi. Secondo testimoni come Tacito (in generale per nulla generoso nei suoi giudizi), nel momento della morte il filosofo-affarista dimostrò quel degno atteggiamento stoico che raccomandava nei suoi libri. «Dove sono quei precetti filosofici, dov'è la logica che avete studiato tanto a lungo per questo istante?», domandò agli amici che lo circondavano piangendo. «Forse che la crudeltà di Nerone era un segreto? Dopo aver assassinato la madre e il fratello, non è naturale che vi aggiunga la morte del proprio guardiano e tutore?». Con queste parole, Seneca si aprì degnamente le vene nell'anno 65 d. C. Quella forse fu la sua ultima lezione. (Traduzione di Fabio Galimberti).

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