domenica 2 giugno 2013

Tullio De Mauro: tra ricordi passioni e ferite il grande linguista si confessa


La storia di mio fratello è terribile. È un lutto che ogni volta si ripropone

“Le parole cambiano senso e tramontano. È la stessa cosa che accade con la vita”
intervista di Antonio Gnoli

"La Repubblica",  2 giugno 2013

L’ultima immagine che mi cattura, dopo un paio d’ore trascorse con Tullio De Mauro, è lui alla finestra mentre fuma e io dal basso della strada che lo saluto. La scena si svolge in una stradina del quartiere Salario di Roma. Fa un cenno con la mano. Poco più che un movimento, come per dire ci sono, l’ho vista. Ma c’è davvero questo professore di 81 anni i cui pensieri sembrano portati sulla punta delle sue inconfondibili orecchie alate? Non so quanto quest’uomo abbia chiesto alla vita e ricevuto. Certo il successo accademico, i libri scritti (alcuni importanti), la politica, il ministero della Pubblica Istruzione, la Treccani, il premio Strega sembrano suggerire che a fine carriera il saldo sia largamente attivo. Eppure, tra le righe di questa esistenza tranquilla, si indovina un’irrequietezza smorzata dalla routine, una vita che va oltre quell’insieme di accorgimenti retorici con cui la si racconta, apparentemente senza dolore, senza spasmi, senza incertezze. Mi sforzo di trovare un punto di entrata, un passaggio a nordovest che renda questo impareggiabile cacciatore di parole anche un cacciatore di emozioni. Mi guarda, remoto ma al tempo stesso disponibile. Non rassegnato, ma attento a non lasciarsi cogliere di sorpresa.
Come è la vita di un linguista?
«Non diversa da quella di tutti gli altri. La nostra deformazione, se così la si può chiamare, sono le parole. Scatta come un sesto senso quando queste mutano, trasformano il senso; alcune hanno successo, altre tramontano. Un po’ come è la vita. Sono un termometro di ciò che accade nella società».
Che febbre misurano oggi?
«Nei duemila vocaboli di massima frequenza, che sono il cuore della lingua, sono entrate di forza un sacco di male parole. Giornali, televisione, Internet sono ormai un ricettacolo di parolacce. L’unico settore che ancora resiste è quello dei testi accademici».
C’è una differenza tra dire «rabbiosi» o «incazzati»?
«Sono sinonimi stretti. Ma il fatto che si sia più inclini a usare una mala parola, mi pare esprima un certo cambio di stile di pensiero e di costume. È l’Italia bassa e privata che sta prendendo il sopravvento».
E il linguista che fa?
«Prende atto. Non si possono ignorare il fattore tempo e la massa parlante se si vuole descrivere una lingua per come vive davvero. Lo ha insegnato più di un secolo fa Ferdinand de Saussure».
La lingua è storia?
«È un pezzo di storia. Saussure diceva che era un sedimento del bisogno di una comunità di esseri umani di esprimersi e di capire. Quindi un primato della storia che si intreccia però con la necessità di mettere ordine continuamente in questo sedimento».
A proposito di Saussure è lei che lo ha introdotto in Italia curando il Corso di linguistica generale.
«Un testo fondamentale della cultura europea. Ma poco letto almeno fino agli anni Sessanta. Devo al mio maestro Antonino Pagliaro le prime frequentazioni».
Personaggio controverso il suo maestro.
«È vero, dopo la guerra, fu epurato come fascista. Gli si chiedeva un atto di abiura. Lui tignoso reagiva dicendo “sono stato fascista e non ho niente da abiurare”. Venne radiato dall’insegnamento per la sua protervia. Alla fine fu riabilitato e gli dovettero restituire anche due anni di stipendio che gli avevano sospeso».
Lo accusarono di aver diretto il Dizionario di Politica della Treccani.
«Un’opera tutt’altro che infame. Pagliaro chiamò a collaborarvi molti antifascisti».
Come aveva fatto Gentile con l’Enciclopedia Italiana.
«Certo, fu Gentile, tra l’altro, a scoprire allora questo giovanissimo ragazzo. Ma i due finirono per diventare nemici. E alla fine si odiarono come solo può succedere tra siciliani. Un odio antico fatto di incompatibilità scientifiche».
Uno era glottologo l’altro filosofo.
«Pagliaro disprezzava il vaniloquio filosofico di Gentile».
E il suo rapporto con il fascismo?
«Intende il mio?».
Sì.
«Avevo quattro anni, ma ricordo una grande emozione per il discorso della proclamazione dell’Impero. Non avevamo ancora la radio, privilegio che arrivò qualche anno dopo, e la popolazione veniva portata nelle grandi piazze. Con la mia famiglia andammo a piazza del Plebiscito e attraverso gli altoparlanti ascoltammo il discorso del Duce che mi coinvolse tantissimo».
È nato a Napoli?
«Sono nato a Torre Annunziata, un po’ per caso. La mia famiglia proveniva da Foggia. In seguito mio padre, che era chimico e farmacista, aprì una farmacia fra Portici e Torre Annunziata. Ricordo meno il suo lavoro quanto invece che cambiavamo spesso casa. E la ragione di quei traslochi era dovuta a una certa inquietudine paterna, a un’insoddisfazione permanente che gli si leggeva in faccia».
E da cosa dipendeva?
«Non lo so. Era un uomo del fare. Non stava mai fermo. Da giovane aveva inventato un purgante effervescente al sapore di arancio e di limone. Una trovata niente male se si pensa agli intrugli che venivano somministrati. Propose a mio nonno, che aveva un patrimonio cospicuo, di finanziare il prodotto. Cosa che accadde. E fu un successo enorme che coinvolse l’Italia intera».
Diventaste ricchi.
«Macché. Solo alla fine si accorsero di aver sbagliato il conto economico. Per ogni bustina venduta perdevano un soldo. Fu un fallimento colossale. Mio nonno dovette vendere le sue proprietà e mio padre i beni che aveva. Ero piccolo, ma per anni la parola fallimento aleggiò nella casa come un orribile fantasma. L’unica cosa che non si riuscì a vendere furono i libri. E in fondo fu una fortuna perché su quelli appresi a leggere».
«Oltre me, mio fratello Mauro, Franco — il maggiore morto in guerra — e mia sorella. Un fratellino, prima che io nascessi, era morto di meningite».
A un certo punto, suo fratello Mauro aderì alla Repubblica di Salò.
«Partì volontario, con compiti che oggi definiremmo di ufficio stampa. Ci restò fino alla disfatta totale del 1945».
«È vero non comparabili con quelli di oggi. Si maturava prima. Ma tutto sommato era un ragazzo che per collocazione sociale e regionale si era lasciato sedurre da quell’alternativa perdente. Ma non credo avesse illusioni».
«In generale fu una reazione moralistica di tutta la mia famiglia al tradimento, cominciato con il 25 luglio; il re che scappa; la percezione dell’armistizio vissuto come un ulteriore tradimento. È in questo clima piccolo borghese che maturò quella scelta».
Negli anni precedenti cosa aveva fatto suo fratello?
«Si era iscritto all’università, scegliendo prima ingegneria e dopo giurisprudenza. Poi cominciò ad avere le prime esperienze giornalistiche nella stampa locale, infine partì volontario nel 1941. E quando tornò dalla guerra si allontanò dal fascismo per tutte le baggianate che aveva raccontato. Alla fine ci fu quella reazione istintiva dinanzi al tradimento. Dopo la liberazione ebbe un sacco di guai processuali».
«Era scappato da un campo di concentramento, fu accusato di reati mostruosi e condannato pesantemente in contumacia. In seguito è stato pienamente assolto. E dal 1948 tornò alla vita civile».
«Male, malissimo. Nonostante gli errori commessi ho sempre pensato a mio fratello come a una bella persona che ha portato su di sé il peso di una coerenza stravolta».
Si può dire che quella coerenza lo abbia spinto in seguito a indagare sul caso Mattei?
«Il caso è stato riaperto l’anno scorso e a settembre ci sarà il processo di appello. Il magistrato è convinto che mio fratello avesse trovato qualche prova seria sull’attentato a Mattei e per questo la mafia lo fece sparire. Il punto vero da accertare non è se dietro la scomparsa di mio fratello ci fosse la mano di Totò Riina, ma chi era il vero mandante».
«Molto duri. È duro non avere una tomba; è duro che ogni tanto il caso si riapra e si ricominci da capo. È terribile per tutti noi. Ogni volta è un lutto che si ripropone».
«È una ferita che non si è chiusa. Ma perché scosso?».
L’immagine che di solito lei dà di sé è quella di uno studioso accademico molto posato, perfino un po’ noioso.
«Da giovane ero un rompiscatole terribile. Ne facevo di tutti i colori, cose di cui oggi mi vergogno solo a pensarle. Però col tempo ammetto di essere diventato più posato».
Quello che volevo dirle è che dietro questa apparente imperturbabilità lei nasconde sorprendenti curiosità intellettuali.
Per esempio ai suoi studi oltre che su Saussure, su Wittgenstein, in anni in cui pochi se ne occupavano.
«Wittgenstein mi ha aiutato a capire meglio Saussure».
Come sono stati gli anni dell’insegnamento universitario? Si dice che nell’ambito della linguistica ci fossero le due scuole: la sua e quella di Garroni.
«Con Emilio eravamo molto legati e la sua amicizia fu per me oltre che personalmente, intellettualmente fondamentale».
«Adoperiamo la stessa parola sia per quello che consideriamo il lavoro più umile con i bambini di una elementare, sia quello che trasmette il suo sapere ai discepoli. Roman Jakobson diceva che per diventare dei veri maestri non bisogna essere troppo precisi, ma un po’ confusi».
«Molti romanzi italiani, come sa presiedo il Premio Strega».
«Ci sono state edizioni del premio in cui concorrevano Sciascia, Pasolini, Moravia, Gadda. Quella qualità non esiste più. Però la produzione odierna è di tutto rispetto».
Chi l’ha preceduta — Maria Bellonci e Anna Maria Rimoaldi — interveniva e orientava pesantemente. E lei?
«Preferisco il ruolo del notaio, cercando di limitare l’invadenza dei gruppi editoriali. Ma il problema oggi è un altro: la fondazione vive con pochi soldi e molti debiti. Rischio di finire in prigione. Scherzo, naturalmente».
Prima che la mettano dentro un’ultima cosa: è soddisfatto per tutto quello che ha realizzato?
«Potrei dirle che avrei dovuto fare molte altre cose che non sono riuscito a studiare. Ma cosa cambierebbe? Mia madre, quando ero piccolo, mi raccontava la storiella dell’Accademico di Francia che durante un pranzo viene interrogato da una signora: Perché il Polo Nord è così freddo? E lui: non lo so. Perché le cavallette emigrano? Non lo so. E così via. A un certo punto la signora si scandalizza e lui le risponde: vede, io sono pagato per quello che so, ma se dovessi essere retribuito per tutto quello che non so, non basterebbe tutto l’oro del mondo».

Tullio De Mauro è nato nel 1932 Traduttore del Cours de linguistique générale di Fernand de Saussure. accademico della Crusca, presiede il Premio Strega

Maurizio Cattelan, Asino tra i dottori, 2004

Educarsi per essere più ricchi 

Il nesso con la crescita è chiaro. Lo studio è sinonimo di aumento di reddito, anche in Italia. E consolida i valori democratici. È necessario un investimento costante 

Tullio De Mauro

"Il Sole 24 Ore", 10 febbraio 2013

Non per profitto di Martha Nussbaum muove dal confronto tra le tradizioni e i sistemi educativi di due Paesi soprattutto, Stati Uniti e India, e, a partire da questo confronto, ben oltre quest'ambito è ricco di suggerimenti per chiunque viva la vita della scuola in ogni Paese e per quanti dappertutto vogliano comprendere il ruolo dell'educazione nelle società contemporanee. (...)
La scuola è un insieme stratificato e complesso, eterogeneo al suo interno, connesso da legami diversi con differenti società, culture, saperi, tradizioni nazionali, dipendente da orientamenti dei decisori politici, ma anche da richieste e sollecitazioni implicite o esplicite, spesso contraddittorie, provenienti dall'ambiente in cui le scuole operano. Questa complessità, non sempre e non a tutti evidente, spiega bene perché, nei Paesi bene ordinati, le politiche scolastiche non sono un particolare settore di governo ma sono prese in mano direttamente da chi, conservatore o progressista che sia, ha le responsabilità massime e complessive di governo, Thatcher o Chávez, Sarkozy, Clinton, Bush o Obama. Così in Italia fu con Giolitti, ai primi del Novecento, e così parve che stesse per avvenire ai tempi del primo governo Prodi.
Dell'intrico di rapporti che si annodano intorno alla scuola Nussbaum analizza e discute soprattutto, da una parte, i rapporti di influenza che le opinioni dominanti in materia educativa esercitano sulle politiche scolastiche e, d'altra parte, le influenze che a sua volta il sistema educativo ha o può avere sullo sviluppo economico e politico delle società. Al centro della sua analisi vi è la questione dei classici, del ruolo che la classicità e, più in generale, la presenza e conoscenza del passato hanno nell'acquisizione di una visione e una coscienza storica necessarie alla formazione intellettuale e civile delle giovani persone nel mondo d'oggi. Un attento giornalista economico, sensibile anche ai problemi educativi, il columnist di «Newsweek» e del «Washington Post» Robert J. Samuelson, ha scritto di recente: «Americans have an extravagant faith in the ability of education to solve all manner of social problems». In particolare sono convinti che vi sia uno stretto collegamento tra scuola e sviluppo economico. Ed è ciò che Martha Nussbaum vuole mettere in discussione. Ma occorre fare attenzione: non si tratta di negare quel collegamento, come fa chi pensa e dice che «con la cultura non si mangia». Si tratta di leggerlo nella complessità delle vicende educative e storiche. Che il collegamento tra scuola e sviluppo vi sia pare fuor di dubbio. La «extravagant faith» degli americani non è senza fondamenti. Dai primi anni Novanta dello scorso secolo Robert J. Barrow e Jong Wha Lee hanno studiato le relazioni tra crescita dell'istruzione e sviluppo economico. È la direzione di ricerca che in Italia impegna da tempo anche alcuni studiosi come Attilio Stajano o gli economisti dell'ufficio studi della Banca d'Italia.
Da ultimo, su committenza dell'Asian Development Bank, Barrow e Lee hanno studiato le relazioni tra istruzione e sviluppo del Pil in 140 Paesi del mondo, a intervalli di cinque anni, tra il 1950 e il 2010. Risulta dallo studio anzitutto l'immenso progresso della scolarizzazione di massa. Nel 1950 la popolazione mondiale aveva un'istruzione media di 3,2 anni (quasi esattamente il dato italiano del tempo), nel 1980 di 5,3 anni, nel 2010 di 7,8 anni. Un progresso enorme. Dappertutto la scolarizzazione ha spinto in alto il reddito. Ma, e ci avviciniamo al problema posto da Nussbaum e Samuelson, resta forte il divario tra i Paesi ad alto reddito, dove l'indice medio è salito da 6,2 a 11 (che è l'indice italiano d'oggi: la bistrattata scuola italiana ha dunque saputo fare un balzo immenso, dal sottosviluppo al pieno sviluppo), e i Paesi a basso reddito, dove è aumentato da 2,1 a 7,1. Il ritorno sul reddito è alto nei Paesi avanzati, ma è meno della metà nell'Africa subsahariana e in America Latina.
Per usare ancora le parole di Samuelson, «these persistent achievement gaps demonstrate the limits of schools to compensate for problems outside the classroom – broken homes, street violence, indifference to education – that discourage learning and inhibit teaching». Non di sola scuola vive lo sviluppo economico, ma di più complicate politiche di investimento che migliorino le condizioni in cui le scuole operano perché esse agiscano più positivamente sullo sviluppo. La visione semplificata, meccanica, dei rapporti tra scuola e sviluppo economico non è solo poco adeguata ai fatti che ora conosciamo. Essa ha anche effetti perversi sull'idea che ci si fa della scuola. Poiché allo sviluppo economico e alla competitività economica tra Paesi servono innovazioni tecnologiche e poiché i decisori politici di qualche sagacia capiscono che non si danno innovazioni tecnologiche senza una buona cultura nel campo delle hard sciences, ecco che alle scuole si chiede di impegnarsi soprattutto in queste direzioni: tecniche e scienze. È cominciata da qui, tra le due sponde dell'Atlantico settentrionale, l'onda lunga e anomala, lo tsunami, che minaccia di travolgere del tutto nelle scuole secondarie superiori lo studio di quelle cose inutili che sono i classici e più in generale la storia. A partire dagli anni Sessanta del Novecento l'ondata scientistica ha spinto diversi Paesi europei a decidere di contrarre il ruolo dello studio delle lingue classiche nella formazione mediosuperiore e ciò per vie diverse (...)
Martha Nussbaum offre validi argomenti contro la scelta anticlassica. Un sistema scolastico nel mondo di oggi non può badare soltanto a far crescere il prodotto interno lordo, posto che ci riesca. Non può concentrarsi solo su quelle materie che paiono in più diretto rapporto con la crescita economica. Un sistema scolastico oggi più di ieri deve educare persone capaci di vivere la vita di società democratiche.

Il testo di Tullio De Mauro è un estratto della prefazione alla nuova edizione del libro «Non per profitto» (Il Mulino) dell'intellettuale americana Martha Nussbaum.

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