domenica 2 giugno 2013

Perché Gatsby non sarà mai un grande film


Le storie troppo letterarie sono inadatte alla pellicola. 

La Recherche, Emma Bovary, L’isola di Artur
opere impossibili, al cinema vince la sottrazione



Francesco Piccolo

"Corriere - La Lettura", 2 giugno 2013

Si può essere fedeli o infedeli, non importa. Il passaggio di una storia dalla letteratura al cinema è una questione di sottrazione. È come se il mondo della letteratura avesse più strumenti del mondo del cinema, ed è per questo motivo che poi il passaggio viene rubricato come «riduzione». Insomma, il cinema è la letteratura meno la letteratura. La qual cosa non è per forza una deminutio: dipende da quello che levi — o devi levare.
Il romanzo che si trasforma in film è un’operazione irresistibile, delicata, alle volte felice e alle volte impossibile. Ci sono dei romanzi che sembrano essere stati scritti pensando alla trasposizione cinematografica (perfino Alberto Moravia veniva accusato di tale furbizia), e altri che sembrano del tutto restii. Come Il grande Gatsby. Che non potrà mai davvero funzionare, anche se la pirotecnia di Luhrmann prova ad aggirare l’ostacolo: perché Fitzgerald lega la sua scrittura al racconto della superficialità, riuscendo in modo inimitabile a raccontare quella profondità — o meglio, la malinconia, il dolore inafferrabile — che c’è sotto la superficialità dei suoi personaggi. In questo, è l’amico americano di Marcel Proust,ma in una versione contemporanea e dannata.
In letteratura le cose che si sentono sono più grandi di quelle che si vedono; nel cinema le cose che si vedono sono più grandi di quelle che si sentono. Quindi al cinema, di Gatsby si vedrà sempre, nonostante tutti gli sforzi, in primo piano, la superficialità. Questo è il motivo per cui non si riesce a ridurre per il cinema Il grande Gatsby, perché si vede tutto ciò che si deve vedere, ma la sua essenza è ridotta quasi a zero. Per lo stesso motivo sono fallimentari i film sulla Recherche: anche lì il rapporto tra ciò che è visibile in superficie, e il mondo gigantesco che si muove in profondità, è completamente letterario.
Cosa si deve fare, quindi, per portare il romanzo sullo schermo? Bisogna cambiargli i connotati: si deve prendere il racconto, e sostituire allo stile e al tono dello scrittore lo stile e il tono del regista. In un altro mondo, con altri mezzi espressivi, con altra grammatica. Si capisce bene, così, che la materia in qualche modo ci deve essere. Insomma, va bene che Nabokov è uno scrittore meraviglioso, ma il fatto che un uomo sia ossessionato da Lolita, che gira seminuda per casa, è (appunto) un fatto: sono immagini, è sostanza di cui il cinema ha bisogno come ossigeno per un’immersione. Lì dove i libri sono per il 99 percento scrittura e tono (Fitzgerald, Proust e poi continuate voi l’elenco come vi piace), diventa un’impresa quasi impossibile. Insomma, in questi casi, se togli la letteratura, togli praticamente tutto.
Insomma, se si togliesse a Emma Bovary quella complicata e abietta vita interiore che le dà Flaubert, come diventerebbe? Per fare la prova, basta raccontare la trama del romanzo e la conclusione sarà: è la storia di una scemetta di provincia. Quella scemetta di provincia diventa, grazie alle motivazioni e all’ansia e alla ricerca di qualcosa che non si capisce bene cosa sia, ciò che è stato chiamato «bovarismo». La sostanza corposa di Emma non sta in quello che fa, ma negli strani labirinti che lavorano nella sua testa e che motivano l’azione che sta per compiere. Questa prova di trama è la stessa che si favoleggia di Hollywood, e che è narrata da Altman nel film I protagonisti. Raccontami una storia in 25 parole: se ce la fai, il film c’è, altrimenti torna a casa e pensane un’altra. Si può decidere che questa è anche la verifica preliminare per un romanzo da portare sullo schermo.
Quindi, quando a uno sceneggiatore viene richiesta la trasformazione di un libro in un film, deve fare la «riduzione»; e cioè deve infilare camice e mascherina e portare il romanzo in sala operatoria: lì deve asportare prima la voce del narratore, e poi la vita interiore dei personaggi. Quando a una storia sottrai la voce del narratore, la rendi oggettiva. Quando a un personaggio sottrai la sua vita interiore, ogni azione che gli vedi fare non è più carica delle motivazioni a cui il romanzo ti ha preparato. E del resto, con il cinema c’è poco da fare: vedi; anche quando ascolti, vedi. Assisti a ciò che accade lì sullo schermo, dove c’è una strada vera, un’auto vera, una persona vera che guida (un attore in carne e ossa che veste i panni di un personaggio immaginato). Per questo al cinema non si può sintetizzare il passato di un personaggio dicendo «la sventurata rispose», ma bisogna raccontare quel pezzo di vita della Monaca di Monza, assistervi, per poter poi dire all’amico seduto sulla poltrona accanto, nel buio della sala: però, che sventurata!
Quando il libro esce dalla sala operatoria, dopo le asportazioni, cosa rimane? Rimangono immagini, azioni, parole. Sembra poco, ma è tanto. Soprattutto perché è tutto ciò che serve al cinema per raccontare qualsiasi cosa. Rimane quello che avete davanti (immagine), qualcuno che fa qualcosa (azione), qualcuno che dice qualcosa (parole). La realtà oggettiva, qualsiasi cosa voglia dire. È a questo punto che l’autore di cinema (il regista) deve sostituire allo stile dello scrittore il suo stile.
Ci sono registi che hanno il loro stile, forte, visibile, e sono quelli che possono prendere qualsiasi romanzo e trasformarlo in «un film di» — Hitchcock è ovviamente il presidente, Kubrick è il vicepresidente, Scorsese, Eastwood e altri sono i professori emeriti. Però, solo Kubrick ha azzardato con Lolita o Barry Lyndon. Gli altri si sono tenuti più bassi, e Eastwood ha saputo trasformare un lagnoso polpettone in un film commovente sull’amore tra anziani: I ponti di Madison County.
Infatti il lavoro più semplice da fare per il cinema è prendere libri di genere, o di grandi trame, o storici — lì dove la scrittura è meno importante; e quando l’hai tolta, la storia e i personaggi rimangono. Hai perso così poco che puoi anche non sostituirlo con uno stile, ma limitarti a raccontare. Gente che sta su pianeti inventati, che ha ammazzato qualcuno, che passa attraverso grandi avvenimenti storici. E poi si possono vedere i nodi che stringono i corpetti, le spade sfilate dal fodero, i tè e i grandi cappelli, le strade di campagna, i generali che studiano le mappe, i detective che interrogano i presunti assassini. Sia chiaro: si possono fare danni enormi sempre, anche con i romanzi di genere o mediocri. Il record lo detiene, a mia memoria personale, Angeli e demoni: da un romanzo molto brutto, se ne è tratto un film bruttissimo. Effetto contrario su Simenon: il film più bello non è un Maigret ma L’insolito caso di Mr. Hire di Patrice Leconte.
Un altro film di questi anni che aiuta a capire il rapporto tra cinema e letteratura (sono molte le cose che si capiscono attraverso le opere non riuscite) è Non lasciarmi di Mark Romanek, la versione cinematografica di un racconto affascinante di Kazuo Ishiguro (del quale Ivory aveva trasformato in bel cinema Quel che resta del giorno). L’ipotesi fantascientifica di Ishiguro è una scuola che in realtà è una setta, dove si fanno crescere esseri umani sani e forti che all’apice della giovinezza doneranno tutti i loro organi alle persone che vivono lì fuori, nel mondo. Un’ipotesi totalmente letteraria e per nulla cinematografica: infatti, quello che vedi al cinema è una scuola normale, dei ragazzi normali — un film qualunque; e sono i personaggi che devono ricordarsi di ricordarti che tra un po’ perderanno dei pezzi e moriranno, perché non ci sono elementi per capirlo. Succede perché non è ciò che vediamo che importa, ma ciò che c’è dietro. La storia è rimasta nel romanzo, non è riuscita a passare nel film — a farsi cinema. E probabilmente vuol dire, con maggiore precisione, che ci sono delle storie che si possono raccontare soltanto in letteratura.
Applicando la formula (cinema = letteratura – letteratura) a una scrittrice molto amata, Elsa Morante, il risultato è: La Storia al cinema si può fare, ha personaggi memorabili (Useppe) e scene indimenticabili (Ida alla stazione quando partono i treni dei deportati) — del resto, il proposito della Morante era di scrivere un grande romanzo popolare. L’isola di Arturo non si può fare, perché l’essenza sta nel non detto, ancora più di quel che viene detto. È possibile che siano semplificazioni, e può essere affascinante tentare operazioni impervie, fare in modo che riescano (un esempio? Zazie nel metrò di Louis Malle da Raymond Queneau). Ci sono regole preliminari, ma non di fatto. Ci sono film riusciti tentando di sconvolgere un romanzo e film riusciti tentando di essere fedeli. E film non riusciti per entrambe le motivazioni.
Quasi tutti i romanzi gialli o noir sono riduzioni felici — la formula si applica perfettamente. Ma è il rapporto con gli autori più letterari che ha poche perle in mezzo a tanti fallimenti. C’è America oggi di Altman, in cui si prendono i racconti di Carver e se ne fa un unico romanzo corale, intrecciando storie e personaggi, tenendoli insieme con una disinfestazione all’inizio e un terremoto alla fine. Dimostrando di Carver qualcosa che un critico avrebbe faticato a spiegare in un saggio di seicento pagine: che il mondo di Carver, alla fine è tutt’uno, e messo insieme costruisce il grande romanzo americano. C’è Il disprezzo di Godard e soprattutto Il conformista di Bertolucci, che sostituiscono alla scrittura di Moravia un tocco personalissimo. E Il conformista è un film più bello del romanzo: non si può dire di molti film. Negli anni più recenti c’è The Hours (Daldry da Cunningham), che approfitta della struttura a episodi per affrontare la letteratura senza patemi; Gomorra (Garrone da Saviano), che sostituisce perfettamente uno stile registico a uno stile letterario, e infatti con il passare del tempo libro e film sono percepiti sempre più autonomamente; così come indipendenti sembrano i Coen e McCarthy in Non è un paese per vecchi; About a Boy (i Weitz da Hornby) sceglie di arrivare ai sentimenti spingendo per la strada della commedia romantica; Amabili resti (Jackson da Sebold) è coraggioso e sorprendente; e ancora gli italiani Io non ho paura (Salvatores da Ammaniti) e La solitudine dei numeri primi (Costanzo da Giordano), per prendere due opposti: uno fedele e l’altro infedele. E ancora tanti altri.
Bisogna avere il coraggio nel cinema di tenere a bada i sogni proibiti. Bisogna resistere, di solito, alla tentazione di portare sullo schermo i cinque romanzi che si amano di più. Sono i più letterari, hanno a che fare con ricordi indelebili, come il tempo che passa lento per Anna Karenina in attesa dell’incontro con Vronskij (che poi la lascerà). Il cinema non sa raccontare il tempo che passa, la letteratura sì. Meglio cominciare dal sesto in ordine di preferenza. Lì, la formula comincia a dare risultati.

PER APPROFONDIRE:

L'Indice dei libri del mese, giugno 2013


1 commento:

  1. Carissima, che bella foto nel tuo precedente post, quella su questo non mi appare purtroppo...se vuoi divertirti leggi my latest post e magari la poesia su quello prima che è piaciuta al mio gran blogfriend David King.

    All my best,
    Davide

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