giovedì 13 giugno 2013

Le conseguenze dell’amore. Da Bovary a Bridget Jones, così il cuore fa soffrire


Esce un saggio della sociologa Eva Illouz 
su come cambiano le delusioni sentimentali e su quanto incide la liberazione sessuale

Valeria Parrella

"La Repubblica", 12 giugno 2013

Si può immaginare Catherine di Cime tempestose lamentarsi via social network della scomparsa di Heathcliff, scatenando la solidarietà di centinaia di blogger? Oppure Emma Bovary in seduta face to face dallo psicologo? Sono più o meno questi gli scenari che la sociologa israeliana Eva Illouz lascia intravedere in un impegnativo volume sull’amore (Perché l’amore fa soffrire, il Mulino, pagg. 307). Il libro è in tutto e per tutto un saggio, con piglio e apparato accademico, che, pubblicato negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia è diventato un caso editoriale, conferendo all’autrice lo status di una teorica rivoluzionaria (sarà tra i relatori del Festival Filosofia di Modena, in settembre). Si vede che Warum Liebe weh tut. Eine soziologische Erklärung (nell’edizione originale tedesca il titolo proseguiva con: «una spiegazione sociologica»), perché l’amore faccia soffrire è argomento che ancora tocca nervi sensibili, anche se da quell’amore romantico celebrato dalla letteratura di fine Ottocento e dalla Hollywood del secolo scorso sembravamo esserci smarcati.Il problema nuovo, pare sostenere il testo, è proprio in quell’enorme e malinteso uso della libertà emotivo-sessuale-sentimentale, che allorquando pareva salvarci da struggimenti per relazioni incontrollabili (soprattutto da parte delle donne) quali matrimoni non desiderati e non più negoziabili, amanti che non potevano essere dichiarati, solitudini protratte nell’attesa di una lettera che non giungeva, proprio in quel momento lì, la conquistata libertà si rivelava come ingestibile e quindi generatrice di nuove afflizioni. Le donne moderne non potevano scegliere.
Le donne post-moderne non sanno cosa scegliere, data l’enormità dell’offerta, e se scelgono qualcosa che finisce (qualcuno che le lascia) si sentono inadeguate. Come se fosse tutta e solo colpa loro (o del partner), mentre nella prospettiva sociologica dell’autrice la sofferenza emotiva è in relazione, seppur in modo complesso, con l’organizzazione del potere politico ed economico.
Dichiarato e insistito è il tentativo di applicare all’amore romantico ciò che Marx ha applicato ai beni: mostrare che le pene d’amore sono determinate dai rapporti sociali, che non circolano liberamente e senza restrizioni, e che concentrano in sé le istituzioni della modernità. E se la libertà in economia non dà sempre risultati sostenibili, perché non dovrebbe essere vero anche per l’amore? Questo non certo per raffreddare l’argomento, bensì per proteggere le persone coinvolte nelle pene del cuore da un esagerato senso di colpa, per comprendere che non si tratta di fallimenti individuali, con conseguente drammatica demonizzazione del sé, bensì di variabili e costanti che possono essere discusse in un insieme più ampio.
Il malinteso, suggerisce ancora il testo, quello che oggi precipiterebbe Anna Karenina in una semplice Bridget Jones (evitandole quindi, però, l’impatto con il treno…), è stato veicolato proprio dall’avvento delle teorie freudiane: la cultura del nostro tempo insiste nell’affermare che il mal d’amore è solo conseguenza di maturazioni psichiche insufficienti o lacunose. Ovvero: le sofferenze sentimentali sono inevitabili e auto inflitte, ci scegliamo per analogie o contrappassi con noi e i nostri genitori... Inoltre vi è tutta una terminologia fuorviante che accompagna il malinteso, come la teoria che le donne vengano da Venere e gli uomini da Marte, cioè che siano insiemi irriducibili per natura, e non per dettami sociali, l’uno all’altro. La psicologia ha assunto un ruolo cruciale nel delegare tutto ciò che riguarda l’esperienza sentimentale ed erotica unicamente alla responsabilità dell’individuo, forse perché d’altro canto offriva la speranza di poterle risolvere.
Ma a starci troppo, sul lettino dello psicologo, si assiste a un processo di “distacco” non meno doloroso di quello del Dottor Zivago quando guarda scomparire la slitta di Lara dietro dune di neve: emergono autonomia, edonismo, cinismo e ironia. A questo punto, attenzione: se al lettore (come a chi scrive) queste ultime dovessero sembrare categorie salvifiche ancorché ego-centrate, e talvolta persino divertenti, l’autrice mette in guardia dal goderne: è qui infatti che l’amore romantico diviene il luogo di un processo paradossale. Perché se l’amante moderno è infinitamente meglio equipaggiato per gestire esperienze reiterate di abbandono, proprio per questo, poiché si pensa di essere più attrezzati, meno si tollerano i dubbi e le incertezze implicati nell’amare. Insomma è vero che i femminili sono pieni di posta del cuore, e i talk show aiutano a sentirsi meno soli, ma non si soffre per questo di meno: si soffre comunque molto, anzi quanto e come Lucia ne La Boheme.
L’unica differenza tra il suo dolore e quello di Carrie in Sex and the City risiede nella coloritura e nella consistenza dello stesso.
Ed ecco che dunque l’infelicità sentimentale dell’uomo e della donna contengono, rappresentano e mettono in atto gli enigmi della modernità. Ma allora se la libertà non è un valore astratto bensì una pratica culturale istituzionalizzata e condiziona la scelta; se la scelta genera fobia da impegno; e l’impegno mancato genera perdita di valore; e la perdita di valore rigenera una nuova categorizzazione costellata di sprezzante ironia: una speranza la Illouz ce la dà? Nelle conclusioni (ma non come conclusione) arriva, più che una speranza, una formula: «Quando l’uomo o la donna, siano essi impegnati in una relazione omosessuale o eterosessuale che sia, onorano gli impegni di parità, libertà, ricerca di soddisfazione sessuale, dimostrazione di attenzioni e di autonomia al di là del genere, allora la loro relazione è felice”. Chi? Come? Quando?

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