domenica 9 giugno 2013

Icone intriganti dei Sixties: James Bond & co


Giorgio Vasta


"Frangette criniere zazzere chignon capelli alla Beatles visi di panna ciglia al mascara occhi sotto ombretto felpe a sbuffo push-up francesi pelle scampanata blue jeans fuseaux jeans attillati su fondoschiena dolcissimi gambe deliziose in stivali da folletto ballerine calzari, a centinaia, fanciulle in fiore entusiastiche che sobbalzano e urlano sfrecciando all’interno dell’Academy of Music Theater sotto la decrepita cupola dei cherubini – non sono strafavolosi?»

Così Tom Wolfe, nel supplemento domenicale del New York Herald Tribune, descriveva il modo in cui il presente – siamo nell’autunno del 1964 – si stava modificando in direzione dell’euforia. Un intero sistema socioculturale aveva raggiunto il culmine delle proprie potenzialità e per conquistarsi un collasso purificatore doveva esasperare i suoi stessi caratteri costitutivi, su tutti l’ostentazione furibonda del protagonismo. Quella stessa necessità di esuberanza – dunque di vitalità ma anche di disperazione – che scorrendo attraverso i decenni è arrivata, tramite incarnazioni diverse, fino a noi.
Intrigo internazionale. Pop, chic, spie degli anni sessanta di Fabio Cleto (Il Saggiatore) è un libro breve, densissimo, iconograficamente ricco; un saggio che individuato un lineamento del contemporaneo – la tendenza diffusa e condivisa all’esuberanza degli stili, il gusto prepotente per l’intrigo, percepire la corteccia delle cose e dei corpi come abisso inesauribile – vuole indagarlo provando a rintracciarne la matrice e a descriverne la complessa stratificazione, la trama peculiare di un nostro modo di essere umani.
Per comporre il suo studio Cleto focalizza l’attenzione su tre figure emblematiche, diverse l’una dall’altra eppure inaspettatamente connesse.
James Bond – la prima londinese di Goldfinger risale al settembre del ’64 – è il perfetto antieroe che “vendicando” Sua Maestà britannica contro il nemico-amico nordamericano si fa sintesi di due tonalità strutturali all’impulso verso l’eccesso. Da un lato l’ambiguità, il travestimento come strategia, il gioco di ruolo, l’esistenza sotto copertura; dall’altro l’incoercibile attitudine ironica di 007, la sua disponibilità a coniugare sorridendo sardonico missione e divertimento, licenza e licenziosità. In una parola la sua capacità di essere intrigante.
La seconda icona reclutata da Cleto è quella di una tra le maggiori studiose delle metamorfosi del secondo ’900. Sempre nell’autunno del ’64 Susan Sontag pubblica sulla Partisan Review le sue «Note sul camp». Per Sontag il camp è una chiave del contemporaneo. Nascendo in un contesto sovraccarico e obsoleto, ormai incapace di accordare credito a qualsivoglia fenomeno, tanto meno a concedergli la possibilità di generare senso, il camp – visione del mondo tanto quanto performance – è, scrive Cleto, «una sensibilità innaturale votata all’artificio in quanto tale». Sottraendo consistenza a tutto ciò che era ritenuto serio, il camp è sovversione, sistematica risignificazione dell’esistente. È, con Sontag, una prospettiva che mette «tutto fra virgolette». Si allude ironicamente per condividere una percezione del mondo discriminatoria ed esoterica. La segretezza è un gioco di società utile a conseguire una diffusa brillantissima evanescenza. L’elitarismo, finalmente, può essere di massa.
Al crocevia tra Bond e Sontag interviene allora la terza fondamentale icona esplorata da Cleto; colui il quale, nell’incarnarle all’estremo, conduce ambiguità e ironia verso un punto di non ritorno.
È ancora il 1964, dicembre, e un giovane scrittore a nome Victor J. Banis viene incriminato per «cospirazione volta alla distribuzione di materiali osceni». Assolto, Banis si trasforma nel sacerdote invisibile del pulp fiction gay. Sacerdote perché è colui il quale consente l’accesso all’osceno facendone un diritto comune; invisibile perché ricorrendo a svariati nom de plume Banis diventa a tutti gli effetti la star sotto copertura. La sintesi perfetta tra Bond e Sontag si ottiene però attraverso Jackie Holmes, protagonista di una serie di romanzi – da Banis pubblicati sempre sotto pseudonimo – in cui si raccontano le imprese di un agente sui generis. The Man from C.A.M.P. (la sottolineatura dell’acronimo è d’obbligo considerato che C.A.M.P. è il nome dell’Agenzia per la quale Holmes lavora) ha capelli platinati, occhiali da sole, sigaretta col bocchino; va in giro con un barboncino bianco e viaggia su aerei dipinti di rosa. Holmes – emblema di «una cultura in effetti paradossale, radicata negli opposti estremi dello spettro della visibilità, negli pseudonimi e nel sensazionalismo» – è lo strumento ludico e civile funzionale, tramite rappresentazione del desiderio omosessuale, a un complessivo scardinamento delle cose.
A questo punto si rilegga la citazione da Tom Wolfe all’inizio di questo articolo facendola slittare dal 1964 al 2013 e verificandone la pertinenza in una prospettiva nazionale. Il perturbante all’italiana in realtà non turba nessuno. Come Cleto nota acutamente, il nostro piccolo bestiario televisivo – da Platinette a Lubamba, da Corona all’umano di Dagospia a quello del Chiambretti Night – concede al massimo un’ambiguità prêt-à-porter; diversità – fino al limite del freak televisivo – del tutto innocue, forme ulteriori dell’omologo al servizio di una generale normalizzazione del sistema culturale.
Se allora il presente italiano è l’«avanguardia della specie», a rischio di apparire misoneisti azzardiamo che forse l’Italia è un paese artificiere. Disinnesca tutto ciò che culturalmente (e socialmente, e politicamente) sarebbe ordigno. Nel cratere dell’ultracamp passiamo il tempo tra esplosioni isteriche, detonazioni fittizie, periodici scoppiettii che non sono altro che rumorosissimi fantasmi di un mutamento solo apparente.
Nel cratere dell’ultracamp, la metamorfosi italiana è soltanto immaginaria.

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