venerdì 31 maggio 2013

Soggetti smarriti. Quei romanzi nei quali non rimase più nessuno

Riproponendo una tradizione che annovera Hawthorne e Pirandello, 
nuovi libri i cui protagonisti 
spariscono dalla scena.

Giorgio Vasta

"La Repubblica", 30 maggio 2013

Raccontare una storia vuol dire popolare spazio e tempo di personaggi. Eppure ci sono narrazioni che rivelano l’impulso opposto: quello allo svuotamento, al bisogno di cancellare le figure dalla scena. E non necessariamente, come invece accade nella narrativa di genere, per innescare una detection. Quando, per esempio, all’inizio di L’avventura di Antonioni Anna sparisce, l’indagine che segue è blanda e pretestuosa; il vuoto generato dalla scomparsa non deve essere tanto colmato da una soluzione quanto, semmai, riconosciuto e abitato. In Wakefield Hawthorne racconta la storia di un uomo che un giorno esce di casa e, senza che affiori mai un movente comprensibile, preso alloggio qualche strada più in là, sta via per oltre vent’anni. Per Wakefield – un Ulisse a breve gittata – sparire vuol dire scoprire che cos’è la nostra vita senza di noi.
A dileguarsi non deve essere necessariamente un personaggio; può svanire nel nulla persino una vocale, quella “e” che nel 1969 Perec fa evaporare dal suo romanzo La scomparsa. Sempre del 1969 è un altro romanzo francese, Icaro involato, in cui Queneau immagina che a far perdere le proprie tracce sia, intenzionalmente e in contrasto con le esigenze dell’autore, proprio l’Icaro del titolo, insoddisfatto della storia che lo vede protagonista (e dunque sparire è insieme fuga e ricerca di una narrazione migliore di quella in cui siamo rinchiusi). Del resto l’emblema italiano dell’escapologia identitaria, vale a dire il pirandelliano “fu” Mattia Pascal, sfrutta consapevolmente un’occasione fortuita per realizzare il suo desiderio di smettere di essere percepito come Mattia Pascal trasformandosi invece in Adriano Meis. Il nodo infatti è quello: essere percepiti. In Film – regia di Alan Schneider su sceneggiatura di Samuel Beckett – il personaggio interpretato da Buster Keaton, perseguitato dall’esse est percipi descritto da Berkeley, fa di tutto per sottrarsi agli sguardi degli altri, nonché al proprio.
Con l’esaurimento dell’umano – lo stesso fenomeno descritto ancora da Antonioni nel 1962 alla fine di L’eclisse, quando venuto meno il senso di un legame resta solo un elenco di spazi vuoti – si confrontano tre libri italiani di questi ultimi mesi.
Senza pretendere di identificare un filone, proviamo però a rintracciare in essi alcune costanti e a domandarci se, come e perché è oggi individuabile, in alcune narrazioni nazionali, l’impulso al cupio dissolvi. E se tutto ciò è anche il riflesso letterario di qualcosa che appartiene in primo luogo allo Stimmung, vale a dire all’atmosfera morale di un’epoca.
Lo scorso autunno è apparso Nessuno è indispensabile di Peppe Fiore (Einaudi). All’ombra di una gigantesca mucca aziendale – mamma, mammella, nutrice, avvelenatrice – cresce e si disgrega una generazione di travet consegnati al destino di una vita bovina. Tra questi Michele Gervasini, minuto e velleitario, la testa piena di «cenere mentale». A turbare l’esile linea retta del suo quotidiano caseario – che Fiore, abilissimo, cartoonizza rivelandone le più infinitesimali nevrotiche miserie – è una progressione di suicidi. Poco a poco, epidemicamente, gli impiegati si tolgono la vita. Immerso negli stomaci dove l’ipermucca rumina i propri dipendenti, Gervasini comprende come una parte sostanziale del lavoro italiano renda indistinguibili la gestione e la digestione (dunque la naturale distruzione) del personale.
L’ultimo party. Bestiario del lavoro culturale di Giovanni Robertini (Isbn, illustrazioni di Ana Kraš) descrive l’estinzione di chi sparisce senza essere (quasi) mai esistito. Uno dopo l’altro – l’occasione è la festa di chiusura di una casa editrice – vengono convocate le maschere di chi si aggira oggi nella scena culturale. Corpi umani sormontati da teste animali, i connotati originari e al contempo ultimi di una serie di figure – dal ricercatore universitario all’attore, dal dj allo stagista – che affollano il mondo piccolo del cosiddetto “lavoro culturale”.
A risaltare, in questo caravanserraglio, è lo scrittore panda, al contempo teorico dell’estinzione e suo principale artefice. Insofferente all’abitudine di nutrirsi di bambù, sempre più abulico e involuto, il panda ha chiaro che in un’epoca terminale – un tempo di esitazioni, di eterne indecisioni – il comportamento più logico è scegliere la propria fine. O decidersi a mangiare carne.
Sparire di Fabio Viola (Marsilio) è un romanzo che fin dal titolo radicalizza i termini della questione. Le sparizioni che fanno da fondale alla storia – scomparsa Elisa, la sua (ex) ragazza trasferita per lavoro a Osaka, Ennio lascia Roma per ritrovarla – sono quelle degli insegnanti di italiano della scuola dove Elisa è andata a lavorare. Sparizioni che nel contesto nipponico sono fisiologiche; talmente che in giapponese esiste un termine, johatsu, con cui si descrive chi, autonomamente o tramite apposite agenzie, sceglie di far perdere le proprie tracce. Il tempo che Ennio trascorre a Osaka – ottenendo il posto di Elisa, trasformando ogni azione in procrastinazione – è una bolla. Un involucro trasparente, lieve, globulare. All’interno di questa bolla, davanti allo stillicidio di sparizioni, Ennio, portando con sé solo l’iPad e un po’ di cibo, si rinchiude in un armadio. Una soluzione narrativa splendidamente tragicomica che determina lo slittamento dallo sparire allo sparirsi.

Nei libri di Fiore, Robertini e Viola intelligenza e amarezza sono inscindibili, l’eleganza del dettato è inseparabile dalla coscienza del disastro. Soprattutto, come in Dieci piccoli indiani( il titolo originale del romanzo di Agatha Christie, E poi non rimase nessuno, rimanda esplicitamente allo svuotamento), corpi e biografie sono frammenti di un conto alla rovescia.

Dissolversi – fare della propria vita una lacuna – misura il tempo che resta. Misura in che modo, in determinati climi storici, rendersi conto di stare all’interno di un processo di estinzione – nell’avventura dell’eclisse, potremmo dire – sembri essere l’unico modo di esistere.

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