sabato 18 maggio 2013

Iliade, il sequel. Quel poema pulp che racconta come va a finire


Esce in una nuova traduzione l'opera di Quinto di Smirne
 "conclusione" del ciclo di Omero 

MELANIA MAZZUCCO 

"La Repubblica", 18 maggio 2013 

Lo chiamiamo con una parola inglese, chissà perché: sequel. È quello che viene dopo una storia già narrata. Nel caso in questione, dopo l'Iliade. Come non comincia dall'inizio della guerra di Troia (ma dal divampare dell'ira di Achille), così l'Iliade non si conclude. Si interrompe in un giorno del decimo anno, sul banchetto funebre in onore di Ettore. La guerra non è finita, Troia non è caduta. Sono semplicemente trascorsi cinquantuno giorni dall'inizio dell'azione. Ogni opera è solo un frammento, un istante di una storia infinita. Eppure può contenere il mondo intero, come lo scudo di Achille. Ma i lettori - e gli ascoltatori degli aedi dell'VIII secolo a.C. - non si accontentano. Vogliono seguire ancora le avventure dei loro eroi. E gli scrittori minori li hanno sempre accontentati. Minori non perché le loro opere siano difettose o deboli, ma perché manca loro il coraggio dell'invenzione e la libertà. Non sono autonomi: possono variare, citare, alludere, contaminare, riscrivere: ma non deviare dal solco già tracciato. La loro è un'arte di secondo grado. Derivata e combinatoria. 
Quinto di Smirne è uno di loro. Il suo Tameth'Homeron, il Seguito dell'Iliade, XIV canti in esametri greci, si propone l'obiettivo temerario di ricongiungere l'Iliade all'Odissea: si apre dove finisce la prima, si chiude dove comincia la seconda. Riscoperto nel 1 452 dal cardinal Bessarione in un manoscritto sepolto in un convento vicino Otranto, poi stampato da Aldo Manuzio nel 1505, tradotto in latino già nel 1539, in volgare nel 1596, ha influenzato la cultura del Rinascimento europeo. Inserendosi nel dibattito sull'epica storica e cavalleresca che appassionava i letterati italiani, ha ispirato Tasso - che gli deve almeno la scena più bella della Gerusalemme: la morte di Clorinda, col suo riconoscimento tardivo da parte di Tancredi, modellata su quella di Pentesilea e Achille. Bompiani ne pubblica adesso una nuova traduzione integrale, opera di tredici validi giovani studiosi delle università italiane coordinati da Emanuele Lelli. Il risultato è un volume imperdibile per gli amanti dell'epica e dei miti greci: oso sperare che siano ancora tanti. Quinto di Smirne scrive intorno alla seconda metà del II secolo dopo Cristo: Omero, chiunque fosse, è un nome perduto nella nebbia dei secoli. Nessuno legge più i poemi "popolari" del ciclo troiano (l'Etiopide, la Piccola Iliade, i Canti di Cipro...), semmai recitati alle feste da poeti itineranti. Anche la tragedia greca, la poesia ellenistica e Apollonio Rodio sono lontani. Lo stoicismo influenza i letterati pagani, la Seconda Sofistica rilegge la storia ironizzando e demitizzando, la spiritualità cristiana guadagna spazio, l'Impero romano domina il Mediterraneo e l'Eneide è il suo manifesto. Quinto di Smirne attinge a ogni fonte e tradizione. Vuole ricucire il passato e il presente, e per farlo sceglie una narrazione divulgativa ma dotta e raffinata. Il suo scopo è far rivivere, per il vasto pubblico smemorato, un mondo svanito. Resuscitare i violenti e feroci eroi omerici, il culto dell 'onore, del valore, dei riti funebri. Ricorre a tutti i " topoi" ormai codificati dell'epos. I duelli, le gare sportive, i cataloghi, i discorsi, i lamenti, le contese degli dèi, i massacri. Ricorre a una lingua antica ormai classica, rinnovando le poetiche metafore naturali, che paragonano gli uomini a cani, pecore, capre, avvoltoi, vespe, cavallette, leoni, lupi, maiali, gru, ma anche a flutti, nuvole, fiocchi di neve, mucchi di foglie, chicchi di grandine. L'orrore della guerra è descritto con particolari macabri, di un'estetica già pulp: cervelli sparsi, crani esplosi, mani mozzate, cuori strappati. Il destino delle donne e degli orfani vittime di guerra con accenti invece patetici. Su tutto, però, incombe un'ombra. Le nere Chere - i demoni della morte, figlie della notte - incalzano gli eroi, spingendoli verso l'Ade. La loro ossessiva presenza è forse la novità più inquietante del poema. I protagonisti dell'Iliade vedono qui compiersi il loro destino: Achille e Paride muoiono, Aiace si suicida, Menelao ritrova Elena, la perdona e invece di ucciderla va a letto con lei in una scena di prosaica modernità. Trovano spazio eroi a noi noti dalla tragedia greca come Filottete dalla purulenta ferita, la gelosa e vendicativa Enone tradita da Paride, e Cassandra, stuprata da Aiace Oileo in una scena di taglio cinematografico, in cui Quinto la descrive distesa sul pavimento, gli occhi fissi, durante la violenza, al soffitto del tempio. Ed eroi nuovi, come l'amazzone Pentesilea, l'etiope Meninone, il forte Euripilo. 
Ma soprattutto Neottolemo, il glabro figlio di Achille che, anche se entra in scena nel VII libro, può essere considerato il protagonista del Seguito. È senz'altro il personaggio più riuscito, e sue le scene più felici: il tema padre-figlio sembra quello più autenticamente sentito da Quinto di Smirne. Come se, libero dal dovere di imitare il modello, potesse plasmare meglio la materia che è solo sua. L'azione - prima paratattica e talvolta ripetitiva - dopo l'ingresso di Neottolemo diventa incalzante e precipita in scene brevi, rapide, efficaci: il Cavallo di Troia, la presa della città, il saccheggio, la strage, l'incendio. Nel finale apocalittico, Atena scatena la tempesta al largo di Eubea e affonda le navi dei greci vincitori, negando loro il ritorno a casa, mentre Poseidone suscita un maremoto e distrugge ciò che restava della vinta Troia. Perché alla fine vittoria e sconfitta sono decise dal Fato, gli dèi capricciosi sono indifferenti o impotenti, e gli uomini, anche gli eroi più coraggiosi e scaltri, solo gocce di pioggia o tronchi d'albero rigettati dal mare sulla spiaggia. Il penultimo verso è degno di Omero, eppure suona dissimile e rivela una nuova condizione esistenziale: «andavano chi di qua, chi di là, ciascuno dove un dio lo portava». Dispersione e smarrimento: questo era il mondo di Quinto di Smirne.

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