martedì 14 maggio 2013

Il silenzio di Don Lisander

La poesia di Manzoni uccisa dalle nevrosi
Fobie, ossessioni, panico. 
Paolo D’Angelo spiega in un libro la parabola creativa 
che seguì l’uscita dei “Promessi sposi”

Francesco Erbani

"La Repubblica",  13 maggio 2013

Fra i tanti quesiti che ronzano intorno alla storia della letteratura, uno riguarda Alessandro Manzoni: perché dopo I promessi sposi non scrisse più niente — niente di creativo, s’intende? Che cosa accadde nei decenni successivi al 1827, quando lo scrittore rielaborò la prima stesura del romanzo Fermo e Lucia (composto fra il 1821 e il 1823), lo risciacquò in Arno e gli diede il titolo che lo avrebbe reso leggendario nella letteratura di tutti i tempi? Fino al 1840 proseguirono le correzioni al romanzo, poi verranno la Storia della Colonna Infame, gli scritti sulla lingua, quelli di erudizione storica e filosofica. Ma nulla dettato dall’invenzione — narrativa, poetica o drammaturgica che fosse. Il suo stato di salute mentale, da sempre precario, peggiorò. Potrebbe bastare questo a spiegare un silenzio durato fino alla morte, nel 1873, una morte che colse Manzoni molto anziano, essendo lui nato nel 1785.
Le nevrosi di Manzoni è il libro pubblicato dal Mulino che Paolo D’Angelo, professore di estetica a Roma Tre, ha dedicato alla ricostruzione dei motivi di quello che appare un vero rifiuto della letteratura, un’amputazione volontaria della propria facoltà di scrittura che si spalanca come un buco nel cuore dell’Ottocento e che fa il paio — con molte differenze, però — con il silenzio di Gioacchino Rossini, il quale, composto il Guglielmo Tell nel 1828 a trentasei anni, non realizzerà più nulla per il teatro fino alla sua morte, avvenuta cinque anni prima di Manzoni, nel 1868.
Le nevrosi dicono molto dell’esaurirsi di una parabola creativa. Ma non tutto. Spiega D’Angelo: «Il rifiuto manzoniano della letteratura non resta una reazione inconsapevole e si traduce in una compiuta teoria dell’arte, o meglio della negazione dell’arte». E in effetti il lavoro di D’Angelo si snoda dalle fobie di Manzoni, ma poi le incardina sui tormenti che lo scrittore vive intorno al nodo dei rapporti tra letteratura, storia, verità e finzione. E, lasciando poi Manzoni al suo tempo, l’analisi arriva fino a lambire il dibattito attuale sulla non-fiction novel, il romanzo d’inchiesta, il romanzo che bandisce i materiali dell’immaginazione, vantando un’unica musa: la realtà. Sfiorando, infine, le pretese inverse di matrice postmoderna di limitare la storiografia al dato narrativo, più che documentario. Il silenzio di Manzoni, senza instaurare improbabili analogie o schieramenti antelitteram, richiama in qualche modo un precedente problematico di queste tensioni, una specie di premonizione culturale.
Ma andiamo per ordine. Manzoni smette con la letteratura d’invenzione, nonostante questa gli abbia assicurato un successo con pochi paragoni. Don Lisander era affetto da agorafobia: nel 1810 mentre a Parigi assisteva insieme alla prima moglie Enrichetta Blondel, in mezzo a una folla rumoreggiante, ai festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, fu colto da un attacco di vertigini. Anche la sua celebre conversione al cattolicesimo viene descritta simultaneamente a una crisi di panico. Quando camminava da solo c’era il rischio che lo cogliessero convulsioni, cui seguiva la perdita dei sensi. È lui stesso, a quasi ottant’anni, a raccontarsi «afflitto da balbettamento organico e nervoso», una patologia «che non gli permette di pronunziare due parole in pubblico» e che «a partire dall’età di trent’anni», non gli consente «di uscire se non accompagnato». Il quadro clinico, stilato da un solerte psichiatra lombrosiano, è ricco di claustrofobie, ipsofobie, acrofobie, ma anche ascetismi, allucinazioni, iperestesie, irascibilità. Si tira in ballo il nonno Cesare Beccaria, anche lui psicopatico. E che dire del fatto che lo scrittore fosse figlio illegittimo di Giovanni Verri, che suo padre legale, il conte Pietro Manzoni, fosse una figura mediocre, presto abbandonato dalla moglie Giulia che si trasferì a Parigi insieme a Carlo Imbonati?
Esiste un punto di contatto, spiega D’Angelo, fra l’agorafobia dell’uomo Manzoni, la sua paura dello spazio aperto, il suo bisogno di appoggio, e l’avversione che lo scrittore Manzoni manifesta per lo spazio aperto della creazione: «Tutto quello che si origina da una libera invenzione, che non può vantare un riscontro esatto nella realtà storica, gli pare immotivato, pericoloso, appunto un abisso nel quale si rischia di cadere».
Manzoni, più di molti altri suoi colleghi, è un tenace produttore di riflessioni sul fare letteratura. Queste accompagnano passo passo le tragedie e il romanzo. Egli sente la necessità di spiegare perché compie certe scelte artistiche o linguistiche. E in tanti scritti manifesta la convinzione che, spiega D’Angelo, «inventare è immorale quanto dire il falso». E che occorre trovare per la letteratura un sostegno: e il sostegno che regga l’incedere dell’autore nello spazio illimitato della creazione è la storia. «L’immaginazione è troppo autonoma e irriducibile perché Manzoni non l’avverta come un pericolo, anche nel campo che le sembra più proprio, quello dell’arte e della poesia».
Fino a un certo punto il rapporto fra storia e invenzione regge in equilibrio. D’Angelo segue il distendersi nervoso delle analisi di Manzoni dalla prefazione al Conte di Carmagnola (1820) arrivando a Del romanzo storico (pubblicato nel 1850, ma probabilmente elaborato già nel 1831). Di questo rapporto, inoltre, è intessuta interamente l’architettura dei Promessi sposi (Renzo, Lucia, Don Abbondio, Don Rodrigo, personaggi d’invenzione, la carestia, la peste, il cardinale Borromeo, vicende e persone reali). La storia è il vero fondamento della poesia. L’invenzione serve a integrarla, a fornire una visione dall’interno dei fatti narrati, perché racconta intenzioni e sentimenti che la storia non può documentare. Il romanzo è un altro mezzo per raggiungere la verità storica, persino più efficace della storiografia. Ma l’equilibrio dal quale germinano le tragedie e soprattutto il capolavoro, scrive D’Angelo, dura una breve stagione. Poi si rompe. È lo stesso Manzoni a rendersene conto.
Le prove che la spinta a fare storia e anche invenzione sia esaurita D’Angelo le rintraccia in scritti teorici e in testimonianze dei contemporanei. La Storia della Colonna Infame, la sua faticosa stesura, le revisioni con cui lo scrittore emenda le parti narrative a vantaggio del freddo resoconto, mostrano quanto Manzoni lascia che prevalga il “nevrotico” bisogno che sia la storia a dettare il passo. La storia non potrà acquisire tutta la realtà, ma nonostante le sue limitazioni — questo il pensiero di Manzoni nel saggio Del romanzo storico — sarà sempre meglio dell’invenzione, della poesia. E dunque della letteratura. E nella recensione che un contemporaneo dedica a questo scritto manzoniano, si nota «l’inquietudine profonda» da cui lo scritto nasce, frutto «di una coscienza sottile e inesorabile» e anche di «una mente condotta a ritornare sopra di sé, a ondeggiare, a disdirsi».

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