domenica 26 maggio 2013

Il San Giorgio profano di Pisanello


Sorpreso prima della battaglia

Melania Mazzucco

"La Repubblica",  26 maggio 2013

Tredici metri e venti centimetri dal pavimento. L’affresco sull’arco esterno della cappella Pellegrini svetta a un’altezza siderale, che rende i particolari invisibili all’occhio e trasforma la scena in un arazzo multicolore. Eppure, l’affresco brulica di dettagli. Quando guardo un’opera destinata ai soffitti e alle cupole di una chiesa o di un palazzo, irraggiungibili una volta smontati i ponteggi, non posso impedirmi di chiedermi per chi, davvero, dipinga un artista. Per chi esibisca la propria bravura, invenzione, intelligenza. Per i committenti che, pagando, vogliono il meglio? Per gli assistenti? I fedeli, il pubblico? Per Dio?
Antonio di Puccio, detto Pisanello, dipinge per il piacere della bellezza e per la gloria — dunque anche per se stesso. Benché fosse coetaneo di Beato Angelico (e quest’affresco coevo di quelli del convento di San Marco), non poteva essere più diverso dal frate di Fiesole. Quanto quello era mistico e spirituale, tanto Pisanello era laico, profano e immerso nel tumulto del mondo. Il diminutivo imposto al suo nome non inganni: era il pittore più lodato del suo tempo, venerato dagli umanisti e dagli intellettuali. Trascinato dal successo su e giù per l’Italia — da Pavia a Venezia, da Roma a Ferrara, da Mantova a Milano, fino a Napoli e oltre — chiamato a tutte le corti, conteso da condottieri, papi e marchesi, finì per identificarsi con gli aristocratici suoi protettori, e per impelagarsi nelle lotte che dilaniavano Verona, la città in cui era cresciuto e in cui aveva casa, madre e figlia. I Veneziani gli confiscarono i beni, costringendolo a un dorato esilio. Pisanello rimase fedele soltanto alla sua pittura raffinata e gradevole alla vista quanto complessa nella concezione e nell’esecuzione.
San Giorgio è il casto cavaliere errante che libera la principessa e trafigge il drago. La sua storia, una delle più romanzesche del Martirologio cristiano, echeggia fiabe e miti dell’antichità e del Medioevo — da Perseo e Andromeda fino a Parsifal e Bors. Nel XIII secolo Jacopo da Varazze, nella Legenda Aurea, ne fissò per sempre scenario e protagonisti. Un drago dal fiato pestilenziale ammorba il lago della città di Silena, in Libia. Per placarlo, ogni giorno gli abitanti gli danno in pasto due montoni. Quando il bestiame scarseggia, estraggono a sorte le vittime umane. La prescelta è la figlia del re, che viene condotta al lago per essere divorata. Ma sopraggiunge Giorgio. Sfida il drago, lo sconfigge, gli mette il guinzaglio, lo conduce in città, converte gli abitanti e prosegue verso la Palestina, dove subirà il martirio. Tutti i pittori hanno sempre raffigurato la scena chiave: il combattimento col drago. Del resto è la più drammatica, e anche la più significativa, che si presta a letture allegoriche e perfino politiche: il Bene sconfigge il Male, il cristianesimo il paganesimo (o l’islam). Pisanello no. Fa una scelta che noi — abituati a ogni demistificazione narrativa — sottovalutiamo. Ma allora doveva parere di un’audacia sconfinata. Infatti, dubitando che il soggetto restasse oscuro, appose in basso una didascalia esplicativa: SANCTUS GIORGIUS. Pisanello dipinge un momento trascurabile della vicenda. San Giorgio — che coraggiosamente ha appena rifiutato il consiglio della Principessa di mettersi in salvo — infila il piede sinistro nella staffa e si accinge a salire a cavallo.
Un gesto prosaico. Che però crea sospensione, attesa, poesia. Chi guarda deve riconoscere, nella novità della rappresentazione, la storia ben nota. Pisanello fornisce tutti gli elementi, ma si concede la massima libertà: fantasticheria, idealizzazione e crudo naturalismo trovano un miracoloso equilibrio.
L’affresco è diviso in due parti dall’arco ogivale che fungeva da ingresso alla cappella Pellegrini, nobile e ricchissima famiglia di Verona che lì aveva la sua tomba. Ha sofferto per le infiltrazioni d’acqua ed è stato staccato e spostato, prima di ritrovare la definitiva collocazione. Gli inserti d’argento sulle armature, l’oro e parti di colore sono cadute. A sinistra, appena leggibile, c’è il deserto e il drago: ossa, crani e carcasse animali, avanzi delle sue vittime, giacciono sulla sabbia. Al centro, il lago. A destra, la civiltà e gli eroi. Dalla pinnacolare città gotica — in cui si riconoscono forse edifici reali — è uscito il triste corteo, scortato da un drappello di guerrieri esotici. Fra loro un turco e un arciere mongolo (le cui asiatiche fattezze Pisanello aveva già disegnato dal vero). Un cavallo ha le froge tagliate: crudele usanza orientale per permettergli di respirare meglio nella corsa, che Pisanello aveva studiato nel seguito di qualche sovrano straniero, durante i soggiorni a corte. Sopra il re, cavalcioni di un mulo bardato e riconoscibile per il mantello d’ermellino, incombe un patibolo: i cadaveri di due impiccati
offrono una sorta di danza macabra, lugubre monito alla vanità del potere. Un corvo gracchia, mentre l’arcobaleno preannuncia la redenzione. Sulla destra, lo scudiero di Giorgio gli porge la lancia; la principessa, altera e impassibile, ci offre la fronte alta, l’acconciatura a balzo, il sublime profilo, e un lussuoso abito di broccato con lungo strascico. Due imponenti cavalli — uno visto di fronte, uno da tergo — creano illusione di profondità. Anche i cani sono pronti: lo spaniel fiuta le tracce, e il levriero, con la museruola e un prezioso collare di pietre preziose, freme guardando il lago.
E Giorgio è lì, trasognato, malinconico, i biondi capelli come un’aureola, il piede nella staffa, e le labbra socchiuse, come prendesse il respiro prima di affrontare la battaglia. Socchiuse, sì. Perché forse dal basso non si vedevano: ma Pisanello dipinse perfino i suoi denti. Essi rappresentano per me una lezione: di etica, e di stile. Forse nessuno intuirà quanti disegni, quanto studio, quanti ripensamenti precedono un capolavoro come questo. Ma tu dipingerai i denti di Giorgio, le narici dei cavalli, il collare di un cane e la calza di un impiccato, con ogni cura. La stessa con cui hai disegnato per anni aironi, linci, conigli, cervi, avvoltoi, perfino tessuti. Osservare ogni cosa del mondo, perfezionarsi, osare. Tutto conta, nient’altro conta. Questo significa essere un artista.

Pisanello: San Giorgio e la Principessa. Verona, Chiesa di Sant’Anastasia, 1437-38.

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