domenica 5 maggio 2013

Ho amato un comunista

Philip  Roth

"La Repubblica", 5 maggio 2013 

Avevo dodici anni quando, nel febbraio del 1946, entrai alla Hawthorne Avenue Annex. L’Annex, a un quarto d’ora di autobus dalla sede centrale, era la succursale dove andavano le matricole del liceo di Weequahic a quei tempi. Il primo insegnante che mi trovai di fronte, la prima ora del mio primo giorno all’Annex, fu Bob Lowenstein. Il dottor Lowenstein. Doc Lowenstein. Era fresco reduce dalla seconda guerra mondiale, diversamente da quasi tutti i professori di liceo era in possesso, senza darsi arie, di un dottorato, e quello che perfino un dodicenne poteva capire era che si trattava di un uomo straordinario che non tollerava di buon grado i cretini.
Bob era l’insegnante della mia aula di coordinamento. Questo significava che era la prima cosa che vedevo la mattina, ogni singolo giorno dell’anno scolastico. Non ho mai frequentato un suo corso – avevo Baleroso per lo spagnolo – ma non l’ho dimenticato. Chi l’ha dimenticato a Weequahic? Di conseguenza, quando toccò a lui finire sbranato dalla crociata anticomunista degli anni Quaranta e Cinquanta, seguii le sue vicende come meglio potei attraverso gli articoli dei giornali di Newark che mi facevo ritagliare e spedire dai miei genitori.
Non ricordo come ci ritrovammo negli anni Novanta, più di cinquant’anni dopo che mi ero diplomato al Weequahic High. Io ero tornato in America dopo dodici anni vissuti prevalentemente all’estero, e o fui io che gli scrissi riguardo a qualcosa o fu lui che mi scrisse riguardo a qualcosa, e ci incontrammo per pranzo nella casa sua e di Zelda a West Orange. Nello spirito di Bob Lowenstein, esporrò la questione in parole semplici, le più dirette che posso: credo che ci innamorammo l’uno dell’altro.
Lui mi inviava le sue poesie, a volte appena finiva di scriverle, e io gli spedivo i miei libri appena venivano pubblicati. Gli mandai perfino la bozza finale di un libro.
C’erano tantissime cose sulla Newark di inizio Novecento e volevo sottoporle a lui per essere sicuro di aver fatto tutto giusto.
Mandai un autista a West Orange per prendere Bob e accompagnarlo fino alla mia casa, a due ore e mezza di macchina, nelle campagne del Connecticut nordoccidentale, e pranzammo insieme e gli chiesi di dirmi cosa pensava di quello che avevo scritto. Parlammo a tavola, parlammo tutto il pomeriggio. Lui, come al solito, aveva tantissimo da dire, e credo di aver ascoltato tutto quello che mi disse con la stessa attenzione con cui ascoltavo in quell’aula di coordinamento alle 8.30 del mattino alla Hawthorne Avenue Annex, quando leggeva le sue comunicazioni per la giornata scolastica.
In Ho sposato un comunista, uno Zuckerman adulto dice: «Penso alla mia vita come a un lungo discorso che ho ascoltato». Bob per me è una delle voci persuasive che ancora sento parlare. I suoi discorsi erano permeati del sapore intenso del reale. Come tutti i grandi insegnanti, personificava il dramma della trasformazione attraverso la parola.
È il caso di segnalare che, quando arrivò alla mia casa nel Connecticut da West Orange, scese dall’auto con un libro in mano. Lungo il tragitto aveva letto, in francese, le poesie scritte dal poeta cattolico francese Charles Péguy, morto prematuramente un secolo fa. Io sapevo, naturalmente, che Bob era un uomo serio, ma solo quando vidi che si era portato da leggere Péguy lungo la strada capii fino a che punto fosse serio.
Nel 1993, il giorno in cui compii sessant’anni, tenni una lettura alla Seton Hall e i finanziatori dell’evento mi organizzarono al termine una piccola festa di compleanno. Bob e Zelda erano presenti. Anzi, quella sera a farmi la presentazione era stato Bob, che come ricorderete viveva a un chilometro e mezzo dalla Seton Hall e non si era mai perso una lettura di poesie organizzata lì. All’epoca aveva ottantacinque anni. Che gli rimanessero ancora vent’anni di vita spumeggiante da vivere, beh, chi avrebbe potuto saperlo, se non forse lo stesso Bob?
Gli avevo scritto per chiedergli di farmi la presentazione, e vederlo al leggio della Seton Hall quella sera, che raccontava con grande arguzia, sottigliezza e charme della prima volta che ci conoscemmo, quando io ero allievo e lui insegnante, mi procurò una felicità smisurata. Penso che la cosa rese felice anche lui.
Bob è stato il modello di un personaggio di primo piano del mio romanzo Ho sposato un comunista, un libro del 1998 in cui rievocavo il periodo anticomunista a cui ho accennato in precedenza e la crudeltà e la ferocia con cui persone come Bob vennero sbranate con le unghie e coi denti dalla marmaglia al potere all’epoca.
Il personaggio in questione è un insegnante di liceo in pensione di nome Murray Ringold, e come Bob insegna al Weequahic High, anche se lui insegna inglese e non lingue romanze, come Bob. Cambiai, rispetto a Bob, anche l’aspetto, il curriculum militare e certi dettagli significativi della sua vita personale — Bob, ad esempio, non aveva per fratello un fanatico omicida —, ma per il resto cercai di rimanere fedele alla forza delle sue virtù, così come le percepivo io.
Inclusi anche, di sfuggita, il suo singolare vezzo di scagliare un cancellino quando un allievo diceva qualcosa che gli sembrava eccezionalmente balordo e quasi certamente la stolta conseguenza della disattenzione, il più grave dei crimini. Il tema di Ho sposato un comunista, in fondo, è l’educazione, l’insegnamento, il rapporto mentore-allievo: in particolare un adolescente diligente, zelante e impressionabile che impara come diventare — e anche come non diventare — un uomo coraggioso, onesto ed efficace. Non è un compito facile, come sappiamo, perché ci sono due grandi ostacoli: l’impurità del mondo e l’impurità di se stessi, per non parlare delle enormi imperfezioni di intelligenza, emozione, lungimiranza e giudizio di un individuo.
I mentori dell’adolescente in questione, Nathan Zuckerman del quartiere di Newark Weequahic, sono principalmente il patriota americano Tom Paine, lo sceneggiatore radiofonico Norman Corwin, l’autore di romanzi storici Howard Fast, l’insegnante di inglese Murray Ringold e il fratello di Murray, il comunista arrabbiato e fanatico Ira Ringold, dalla cui furia omicida, dalla cui essenza distruttiva l’uomo stesso cerca invano di fuggire. «Gli uomini che mi hanno istruito», li definisce Nathan. «Gli uomini da cui provengo ».
Questo libro su un ragazzo e i suoi uomini si apre con un breve ritratto di Murray Ringold, il fratello Ringold che non è violento e che tempera e riserva la sua rabbia per un’immotivabile ingiustizia. Murray Ringold, tra l’altro, viene a sua volta educato. Lo stesso naturalmente successe a Bob quando, trafitto all’improvviso dal suo momento storico, finito nella trappola destinata a rovinare tante carriere promettenti di quell’epoca della storia americana — una vittima come migliaia d’altre del primo, vergognoso decennio della storia del dopoguerra del suo Paese — fu tenuto lontano per sei anni dalle scuole di Newark e dalla sua professione prediletta, espulso come pervertito politico e uomo troppo pericoloso per lasciarlo a contatto con i giovani.
Ora non sto parlando dell’educazione di un ragazzo, ma dell’educazione di un adulto: l’educazione alla perdita, al dolore e a quell’inevitabile componente della vita che è il tradimento. Bob era fatto di ferro e resistette all’atrocità dell’ingiustizia con un coraggio e una prodezza straordinari, ma era un uomo e provava i sentimenti di un uomo, e quindi soffrì anche.
Spero nel mio romanzo di aver reso ampio riconoscimento alle qualità del nostro compianto, leggendario e nobile amico, che sapeva, come sapeva il poeta Charles Péguy, che «la tirannia è sempre meglio organizzata della libertà ». Non so per quali vie vi fosse arrivato Péguy, ma Bob lo imparò sulla sua pelle.
Concludo con qualche riga dalle prime pagine di Ho sposato un comunista, dove descrivo l’immaginario professor Ringold, meglio noto nel mondo al di fuori della pagina scritta come Doc Lowenstein: «Negli atteggiamenti e nelle pose era assolutamente naturale, ma nel parlare piuttosto prolisso e, sul piano intellettuale, quasi minaccioso. La sua passione era spiegare, chiarire, farci comprendere, col risultato che ogni argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una meticolosità non inferiore a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna. (...) 
Il professor Ringold portava con sé in aula una carica di viscerale spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto, ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere civile dettate dall’insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo mentale, fu una rivelazione. C’era più importanza di quanto, forse, lui stesso immaginasse nell’accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. (....) Si sentiva la forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in senso sacerdotale, di un insegnante come Murray Ringold, che non si era perso dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che — diversamente dagli insegnanti di sesso femminile — avrebbe potuto scegliere di fare qualunque cosa o quasi e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione».
Addio, stimato mentore.
© 2013 (Traduzione di Fabio Galimberti)


L’amicizia ultimo rifugio 

ANTONIO MONDA

NEW YORK

Chi conosce Philip Roth non può stupirsi del fatto che abbia scritto un accorato ricordo del suo mentore Bob Lowenstein pochi mesi dopo aver annunciato il ritiro definitivo dalla scena letteraria. Ancora adesso, a ottanta anni compiuti, la narrazione continua a rappresentare per Roth una necessità, oltre che un elemento di condivisione, sopravvivenza e persino espiazione, all’interno di una concezione dell’esistenza segnata da un senso freddo e lancinante di fallacia. Di fronte al decadimento di ogni cosa che arreca piacere, Roth continua a opporre la propria scrittura, nella quale cerca una forma di calore simile a quella che ha riposto da sempre nel valore dell’amicizia: l’ultima possibilità di rimanere legato a qualcosa che non muoia, a differenza di quanto avviene con le persone care. Se Everyman, uno dei suoi libri più cupi e dolenti, nasceva dal senso di vuoto provato al funerali di amici intimi, questo encomio funebre sigilla la motivazione intima di questa condizione, e colpisce il riferimento a Charles Péguy, che a differenza di Roth individuava la propria redenzione e felicità nella trascendenza.
Nel tardo autunno dell’esistenza, lo scrittore ama circondarsi di amici leali, cercando di godere il più possibile della loro presenza: è segnato da sincera stima il rapporto con Don DeLillo, che lo invita costantemente, con un misto di affetto ed ironia, a godere dei piaceri semplici che offre ogni giorno l’esistenza. E va oltre l’ammirazione letteraria quello con E.L. Doctorow, al quale si sente vicino per l’ironia tagliente con cui si difende a sua volta dalle ferite della vita. Per Roth l’amicizia è scambio, arricchimento, curiosità: ogni volta che parla del suo altro mentore Saul Bellow, la voce s’incrina lievemente di malinconia, ma è sinceramente divertito quando dialoga con scrittori giovani che ammira, come Nathan Englander e Jonathan Lethem. Questo atteggiamento è ribadito dal rapporto con amici non celebri, ai quali per anni ha affidato i manoscritti dei propri libri, prima ancora di sottoporli agli editori, confidando imprescindibilmente nel loro giudizio. Sono autentiche e profonde anche le amicizie femminili, a cominciare da quella con Edna O’Brien e Mia Farrow, a dispetto delle accuse di misoginia: come nel caso della scrittura, l’amicizia rappresenta un valore da tenere in vita sforzandosi di andare oltre la propria natura.

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