sabato 11 maggio 2013

Guarda come parli


Giuliano Aluffi 

"Il Venerdì", 10 maggio 2013

Secondo un docente di Manchester, Guy Deutscher, ogni lingua "dipinge" il mondo in un modo diverso, e chi ne usa due cambia additittura modo di pensare nel passare da un idioma all'altro. Con buona pace delle teorie di Noam Chomsky.
Se proprio dovete farvi tamponare, ricordate che con i testimoni per l'assicurazione vi andrà meglio a Londra che a Tokyo. I giapponesi infatti non hanno buona memoria nel ricordare i responsabili di eventi accidentali. Lo ha scoperto Caitlin Fausey, psicologa della Stanford University, mostrando video con vari incidenti a 49 inglesi e 70 giapponesi e interrogandoli poi su colpe e responsabilità. Il fatto è che in lingue come il giapponese, o anche lo spagnolo - ma non l'inglese - quando si descrivono eventi fortuiti, il soggetto della frase non è, di solito, chi li ha provocati. Per esempio, invece di "ho rotto il vaso" si dice "il vaso si è rotto". 
"La lingua non ci aiuta solo a esprimerci: le nostre parole - entro certi limiti - arrivano a plasmare i nostri pensieri" ci spiega Guy Deutscher, docente di linguistica all'Università di Manchester e autore di La lingua colora il mondo: come le parole deformano la realtà (Bollati Boringhieri, pp. 288). 
"Per quasi mezzo secolo l'idea teorizzata da Noam Chomsky che il linguaggio fosse innato, cioè in qualche modo inscritto nel nostro Dna, ha avuto grande seguito. I chomskiani considerano le lingue, in sostanza, come dialetti di un unico linguaggio universale. Oggi sempre più studiosi pensano invece che l'idea della lingua innata sia superata. Per Chomsky i bambini imparano la grammatica anche se nessuno gliela insegna, perché questa è "gia lì", nelle loro menti. Negli ultimi anni abbiamo al contrario accumulato milioni di ore di osservazioni su come i bambini apprendono, ed è sempre più chiaro che assorbono il linguaggio lentamente e quando sono esposti a tutte le informazioni di cui hanno bisogno".
Inoltre, se fosse vero che la struttura del linguaggio è codificata nel nostro Dna, tutte le lingue dovrebbero avere la stessa struttura. Ma ormai sappiamo che non è così.
La scienza della "tipologia linguistica", che studia e compara i linguaggi, inclusi quelli di piccoli gruppi umani che vivono in posti remoti, mostra che tra le lingue possono esistere differenze strutturali molto profonde. "E a ogni lingua corrisponde un modo di pensare e rapportarsi col mondo" dice Deutscher. "Per esempio, i membri della tribù amazzonica dei Pirahã, parlando una lingua dove non esistono i numeri ma si distingue solo tra "uno", "due" e "molti", hanno forti difficoltà nel tenere traccia delle quantità".
Lera Boroditsky, psicologa della Stanford University, ha compiuto esperimenti su soggetti bilingui mostrando addirittura che, quando passano da una lingua all'altra, pensano in maniera differente. E lo stesso ha fatto Shai Danziger, della Ben Gurion University di Negev: i soggetti bilingui arabo-ebraici che ha esaminato tendevano ad associare più facilmente qualità positive a un nome proprio israeliano quando parlavano in ebraico, rispetto a quando citavano lo stesso nome israeliano parlando in arabo. E viceversa.
Ma, implicazioni ideologiche a parte, in che modo le diverse lingue cambiano la percezione di uno stesso concetto? "Se in una lingua un oggetto è di genere maschile, come sole in italiano, gli vengono associate facilmente proprietà maschili, come la forza. Se lo stesso oggetto diventa femminile, per esempio Sonne in tedesco, gli si attribuiscono più spesso qualità muliebri, come la bellezza. I risultati di altri esperimenti appaiono persino ovvi: per esempio, psicologi dell'Università del Minnesota nel 2002 chiesero a gruppi di francesi e spagnoli di assegnare voci umane a oggetti protagonisti di un cartone animato. Per una forchetta, che in francese è la forchette e in spagnolo el tenedor, i francesi scelsero naturalmente una voce femminile e gli spagnoli una voce maschile".
A essere influenzata dal genere che attribuiamo agli oggetti, e dalla sua concordanza con eventuali nomi propri che assegniamo loro, è anche la memoria: gli psicologi - e forse anche i pubblicitari - sanno che, per esempio, ricorderemmo più a lungo l'espressione "la mela Patrizia" rispetto a "la mela Patrizio".
Le parole influenzano poi la nostra capacità di orientarci. "Gli aborigeni australiani Pormpuraaw non usano parole come "destro" e "sinistro". Esprimono tutto con riferimento alle direzioni cardinali secondo le quali sono orientati in un certo momento. Per esempio, possono dire: mi fa male la spalla di Nordest" spiega Deutscher. "Alcuni esperimenti hanno mostrato che questa abitudine culturale - che in pratica costringe tutti, sin da quando imparano a parlare, a prestare attenzione agli indizi nell'ambiente che indicano i punti cardinali, come la posizione del sole, le ombre, il vento - dota questo popolo di una vera "bussola interna"".
Persino nella distinzione dei colori, la lingua e la cultura giocano un ruolo. "Prendiamo concetti astratti e sofisticati come Schadenfreude e Fremdschämen: sono due termini che indicano rispettivamente il piacere per le sventure altrui e la vergogna che si prova per qualcun altro, ed esistono solo in tedesco. In questo caso però non è difficile capire che lingue diverse possano dare una diversa importanza a determinati sentimenti e quindi creare o no un termine ad hoc per indicarli" continua Deutscher. "I colori invece sono qualcosa di così naturale e autoevidente che si direbbe non abbiano nulla a che fare con la cultura. Ma allora come si spiega il fatto che gli antichi Greci non abbiano mai descritto il cielo come "azzurro"?". 
Fior di studiosi hanno risposto con le più svariate ipotesi. Arrivando perfino a sostenere, come l'inglese William Gladstone, che gli antichi vedevano meno colori di noi. "Ma è falso: i Greci distinguevano bene quanto noi l'azzurro, però non avevano ancora una parola per descriverlo. Studiando le lingue antiche si vede che i nomi per i colori emergono gradualmente. I primi sono il bianco e il nero, poi rosso, poi giallo e verde. L'azzurro è sempre l'ultimo, forse perché, con l'eccezione del cielo, poche cose in natura sono azzurre, e inoltre le tinture azzurre sono le più difficili da realizzare artificialmente".
Con l'azzurro, di recente, hanno avuto qualche problema anche in Giappone: "Il giapponese aveva un nome di colore, ao, che comprendeva sia il verde che il blu" spiega Deutscher. "Quando, negli anni Trenta, si importarono dagli Stati Uniti i primi semafori, le loro luci verdi vennero chiamate ao. Col tempo però è sorto un contrasto stridente, perché nella lingua moderna ao è passato a indicare soprattutto le tonalità blu, mentre per il verde si usa la parola midori. Pur di non cambiare il nome, i giapponesi hanno così cambiato la realtà e, non potendo fare a meno, per convenzioni internazionali, del verde per il segnale di via libera, lo hanno però virato verso tonalità più bluastre".
Detto tutto questo, Deutscher riconosce che il potere della lingua ha, comunque, dei limiti: "L'influenza del linguaggio esiste, come abbiamo visto, ma non chiude i nostri orizzonti e non è così forte da impedirci di capire un qualsiasi concetto per cui altre lingue hanno una parola e noi no". Così, se in italiano non abbiamo gli equivalenti di Fremdschämen e Schadenfreude, comprendiamo benissimo quelle emozioni. Con o senza l'aiuto di Fantozzi.

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