sabato 18 maggio 2013

Genio di massa


Così a colpi di tweet la creatività è diventata di tutti

Maurizio Ferraris

"La Repubblica", 16 maggio 2013

Il Romanticismo è l’epoca del genio solitario, ma il Postmoderno è l’epoca della creatività, ossia del genio di massa. A giusto titolo in Il falò delle novità. La creatività al tempo dei cellulari intelligenti (Utet) Stefano Bartezzaghi fa iniziare il nuovo evo negli anni Sessanta, ricordando sintomaticamente come il libro dello psicologo Joseph Rossman uscito nel 1931 con il titolo The Psychology of the Inventor venisse ripubblicato nel 1964 come Industrial Creativity.
È in quest’epoca che la creatività entra nella categoria, consacrata da Barthes, dei miti d’oggi, ossia delle divinità mondane che popolano una società che si crede secolarizzata, e non lo è. Basti notare che, come ogni religione, la creatività ha i suoi martiri: non si è mai visto nessuno che chiedesse, per esempio, un lavoro “più banale”, tutti lo vogliono ovviamente più creativo, anche se spesso dietro alla creatività si nascondono le insidie di lavori non tutelati e precari.
Di fronte al mito la scelta metodologica di Bartezzaghi è ineccepibile. Invece di chiedere ai sacerdoti nel tempio (ammesso che possa esistere un qualche sacerdote della creatività) si tratta di interrogare i credenti, i mitomani, ossia i portatori di questa «cospicua e ubiqua mitologia, in cui si raccoglie quanto serve agli uomini contemporanei per riscattarsi dalla loro, o meglio nostra, banalità». Il nocciolo dell’opera è dunque costituito dall’analisi della doxa, documentata da un corpus di circa duecento definizioni della creatività fornite su Twitter in preparazione del festival della mente di Sarzana del 2012, poi sottoposte da Bartezzaghi a uno scrutinio sistematico in un corso universitario. Nella sua sobrietà tassonomica, che riporta agli anni dello strutturalismo, il metodo è tuttavia animato da un paradosso: ciò che l’indagine è chiamata a fare emergere non è l’originale, ma il banale, il non creativo. Così, la classificazione delle nostre credenze sulla creatività ci fornisce quello che Barthes avrebbe definito “l’ovvio e l’ottuso”.
Il genere sommo sotto cui viene rappresentato il mito della creatività è, come è facile da immaginarsi, quello dell’ineffabile, tra cui spicca una definizione da pura teologia negativa: «in quanto infinita, definirla è un controsenso». Eppure questo Dio nascosto lo si riconosce al primo sguardo: «è facile riconoscerla quando la incontri». E di qui all’ossimoro il passo è breve: «Creatività è un’immaginazione pratica, una fantasia concreta, tecnica libera, pensiero che non si accorge di sé» (che riecheggia la serqua di ossimori della preghiera alla Vergine nel canto trentatreesimo del Paradiso: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta» ecc.).
La teologia si svolge del tutto naturalmente in una cosmologia, vedendo nella creatività il nocciolo del rapporto tra uomo e mondo. Dopotutto, il genio era per Kant il medio tra natura e arte, e poi per i romantici sarà la mediazione tra finito e infinito. Abbiamo dunque la creatività come «un’implosione che non offre scampo» (ci auguriamo, al creativo soltanto) ma anche come “continuità dell’armonia”, e soprattutto – a conferma dell’ipotesi dell’incontro tra uomo e natura nel genio – «Creatività è trarre idee e ispirazione da ogni manifestazione dell’universo», che è un tweet che avrebbe potuto scrivere Novalis.
Alla linea genial-romantica si ricollegano le “Definizioni infantiliste”, perché appunto il bambino è più vicino alla natura, all’origine, alla semplicità e all’inconscio, così come la classe della “Creatività come sguardo sul mondo, passività e contemplazione” e quella della “Creatività come presupposto dell’espressione”, in cui campeggiano «Creatività è non porre filtri e resistenze a ciò che la natura esprime attraverso di noi» e «La creatività è il filtro fotografico che svela le qualità dell’Assoluto» (questo tweet, a parte il “filtro fotografico”, avrebbe potuto invece scriverlo Schelling). E ovviamente ancora romantiche, tra lo Sturm und Drang e il futurismo, sono le definizioni della creatività come irrazionalità o superamento di limiti che si appellano a “Libertà Leggerezza Coraggio e Follia!” e a “gesti imprudenti e nuovi”. Nietzsche faceva dire al suo Zarathustra, «L’uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo, una corda sull’abisso», e l’anonimo di Twitter risponde con un «Creatività è riconoscere talenti e limiti, emozioni e follia che nascono in noi, e non averne paura!» o ancora, del tutto nietzschianamente, «Creatività è trovare un’altra scusa per questo mondo».
Quante parole, sia pure in porzioni di 140 battute o meno, per esprimere il vero movente del mito, la fuga dalla noia, la rottura della routine, in forma titanica («Creatività è alzarsi la mattina e vivere una nuova avventura nella routine di tutti i giorni») o ermeneutica («Interpretare in modo originale la realtà»). La morale è molto semplice: l’aspirazione alla creatività è la cosa più comune, dunque meno creativa, del mondo. E a mio parere la palma della creatività va assegnata all’unico (il che è già indizio di creatività) esemplare della classe “Definizioni polemiche”: «Creare creare creare preferisco il rumore del pensare». Definizione che è doppiamente polemica e doppiamente poetica (solo un po’ rovinata dall’appello all’enfasi rumorosa del pensiero) perché dice una cosa vera – cioè inchioda la retorica della creatività – e lo fa senza pretendere di essere creativa, perché è in effetti l’aperta rielaborazione o di due versi di Dino Campana («Fabbricare, fabbricare, fabbricare preferisco il rumore del mare») o della loro ripresa da parte di Ugo Nespolo («Lavorare, lavorare, lavorare preferisco il rumore del mare »).

Il falò delle novità di Stefano Bartezzaghi (Utet pagg. 237 euro 12)

Nessun commento:

Posta un commento