lunedì 13 maggio 2013

Berlino Anni 30 la Babilonia prima di Hitler


Hessel e Isherwood ripropongono il clima euforico ma fitto di paure 
della Repubblica di Weimar

Luigi Forte

"La Stampa",  12 maggio 2013

Si riaccendono le luci sulla scena della Berlino weimariana, che in poco più di un decennio divenne l’icona della modernità, dove nonostante inflazione, caos e miseria, un pubblico eclettico e stravagante folleggiava inconsapevole di fronte all’incombente apocalisse. Metropoli dai molti volti, immortalata dalla fantasia impietosa di artisti come Grosz o Dix, scenario eccentrico che ora riemerge con leggerezza e ironia da due romanzi d’epoca: Berlino segreta di Franz Hessel del 1927 tradotto per la prima volta in italiano da Eva Banchelli (elliot editore) e Addio a Berlino dell’inglese Christopher Isherwood riproposto da Adelphi nella versione di Laura Noulian. Dal libro uscito nel 1939, poi rilanciato come commedia e musical, il regista Bob Fosse trasse nel 1972 il film Cabaret con una splendida Liza Minnelli.
Berlino era la Babilonia tedesca che Joseph Roth sviscerò nei suoi elzeviri per il giornale Frankfurter Zeitung offrendo un singolare e ancor oggi vivacissimo affresco di quegli anni. Una strana congerie dove, a dar retta al caustico Karl Kraus, ogni scemo era un personaggio, e dove perfino una natura semplice come lo scrittore svizzero Robert Walser, che vi cercò inutilmente fortuna, sentiva profumo di peccato. Per l’ebreo Franz Hessel, nato a Stettino nel 1880 ma cresciuto nella capitale, la città era invece inafferrabile perché «sempre in procinto di trasformarsi e mai adagiata nel suo ieri». Di Berlino Franz Hessel fu un nostalgico cicerone. Nulla gli era meno congeniale del ritmo febbrile e caotico di quegli anni. Scrutava la metropoli, a cui nel 1929 dedicò un bizzarro vademecum, non con l’occhio del turista ma del flâneur, cioè di un passante con la dignità del prete e il fiuto del detective, come scrisse l’amico Walter Benjamin in una delle sue recensioni che diedero notorietà allo scrittore proiettandone il vagabondaggio oltre la soglia del suo tempo, al crocevia fra passato e presente. Berlino diventa per il viandante e outsider Hessel, che legge la strada come un libro, lo scenario di una malinconia che riscatta fantasmi lontani e ricompone un ordine e un senso dietro la dissoluzione della modernità. Nel romanzo essa rientra in uno spazio circoscritto, l’area a ridosso del Landwehr- kanal, la zona del vecchio Ovest in cui si muove una borghesia travolta dall’inflazione e votata al declino.
In dodici frammenti o scene, nell’arco di una giornata di primavera del 1924 si snoda la vicenda dello studente Wendelin in procinto di partire, diviso fra molti amori, fra cui l’affascinante Karola, moglie dell’anziano professore di filologia Clemens Kestner. Salotti dell’alta borghesia in disarmo, pittoreschi cabaret e locali notturni, soubrette e dandy, omosessuali, libertini, affaristi e parvenu si spartiscono la scena di una città che pullula di reminiscenze mitologiche e cerca il suo segreto dietro il vuoto sfavillio di un presente senz’anima. Un segreto che il socratico Clemens, traduttore di Omero, scopre in un nuovo ethos, un’utopia capovolta per tempi d’indigenza. «Godi con gioia ciò che non hai», consiglia al frivolo Wendelin esaltando una libertà fatta di rinuncia. Hessel, sciamano della modernità dotato di poteri antichi, evoca un sedimento umano dietro l’artificiosa fantasmagoria del presente, attento tuttavia alle seduzioni della città che impressiona e riplasma nel suo linguaggio.
Durante il soggiorno berlinese tra il 1929 e il 1933, quando Hitler sale al potere, Isherwood si propone invece di cogliere la realtà in modo impersonale: «Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa», dichiara in Addio a Berlino composto da sei pezzi raccolti in una narrazione pressoché continuativa. In tal modo l’ex studente di Cambridge, per un breve periodo compagno di vita del poeta W. H. Auden, mette a fuoco con lucidità e charme narrativo la Berlino del tempo che nelle pagine di Hessel, archeologo della memoria, appare sfocata e stilizzata.
I flash dell’inglese raccontano un paesaggio urbano ancora pulsante fra luci e ombre, una metropoli carica di «falci e martelli e svastiche naziste», fra degrado sociale e violenze. Egli si immerge nell’attualità per rappresentare «la prova generale di una catastrofe» e annota: «Era una sensazione strana, misteriosa, paurosa, come dormire soli nella giungla». Sulla passerella del romanzo sfilano personaggi indimenticabili: la signora Schröder, stravagante e anziana affittacamere, l’aspirante attrice Sally Bowles, una belloccia che frequenta milionari senza gran profitto, studenti omosessuali, un ricco americano e un magnate ebreo, ma anche una famiglia proletaria con un figlio filonazista e un altro, Otto, che inneggia al comunismo. Mentre il perimetro della città si allarga tra le ville dei ricchi a Grunewald e il Kurfürstendamm, fra il vecchio quartiere intorno a Hallesches Tor e il trafficato Postdamer Platz, fra il boschetto del Tiergarten e il centro governativo intorno al viale Unter den Linden.
Stretta fra le sulfuree atmosfere della vita notturna, fra locali dai nomi esotici, la cupezza della crisi economica e i fuochi incrociati delle opposte fazioni politiche, la Berlino degli anni ruggenti rivive nelle pagine di Isherwood la sua tragica eclissi racchiusa alla fine in una manciata di parole: «Il sole splende e Hitler è il padrone di questa città»

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