giovedì 4 aprile 2013

Verlaine. Quella furia conservatrice che lo separò da Rimbaud


Escono i saggi politici del poeta “maledetto”, 
ma anche monarchico e ostile alle rivoluzioni
Le sue idee furono causa di violenti litigi con il compagno che lo chiamava “Loyola”

Giuseppe Montesano

"La Repubblica",  3 aprile 2013

Che siano state le dispute politiche a separare gli amanti e poeti Paul Verlaine e Arthur Rimbaud? Verlaine chiamava l’adorato Rimbaud il suo “micetto biondo”, gli scriveva cose come: «ancora indegno striscio verso di te, montami sopra e calpestami…», si era fatto trafiggere il polso con un coltello da Arthur, aveva scritto con lui poesie oscene irriferibili, e, per mantenere il ragazzo dagli occhi azzurri che si rifiutava categoricamente di lavorare, il lussurioso Paul aveva costretto sua madre a dissipare in pochi anni qualcosa come settantamila euro di oggi: un amore così poteva finire per delle noiose discussioni sul suffragio universale e la Rivoluzione francese? Impossibile.
Ma a leggere Viaggio in Francia di un francese, un libro di Verlaine inedito in Italia, curato magnificamente da Giancarlo Pontiggia e pubblicato da Medusa, si direbbe proprio di sì: il soprannome di “Loyola” che Rimbaud dette a Verlaine non era affatto un gioco. In queste pagine accese e ritmate Verlaine sostiene che la decadenza della Francia è dovuta alla fine del potere dei Gesuiti; sostiene che la Rivoluzione del 1789 è la massima sciagura del Paese; sostiene che i comunardi sono pazzi; e predica non solo il “ritorno” alle radici cristiane, ma proprio alla monarchia cattolica e legittimista. Figurarsi che discussioni tra i due innamorati! Paul e Arthur, per la noia, facevano un gioco: coprivano due coltelli con degli asciugamani bagnati lasciandone scoperte le punte, e poi si colpivano finché non usciva sangue, proprio come amanti sadomaso in anticipo sui tempi. Dopo, naturalmente, finivano a letto, e, con la regolarità di un orologio, Verlaine era afferrato dal pentimento. Rimbaud gli gridava allora che era solo un gesuita infame e ipocrita, Verlaine gli chiedeva di convertirsi alla fede degli avi e di Giovanna D’Arco, Rimbaud gli rispondeva con qualche atroce bestemmia, Verlaine lo accusava di essere un comunardo incendiario e un amico del suffragio universale, e alla fine i due, tra ingiurie e sbattere di porte, colpi di coltello e qualche colpo di pistola, ritornavano a sacrificare al dio Eros, a Parigi, a Bruxelles, a Londra e dovunque li portava il loro tentativo di trovare un luogo adatto ai loro sogni di poeti.
Una convivenza per niente facile, tra il ragazzo che voleva il massacro dei borghesi ricchi nella Comune e aveva elogiato i rivoltosi dell’89 per aver ucciso il Re e il Verlaine che sosteneva che la democrazia è il male assoluto della modernità e che si deve ritornare alla santità del passato. Senza qualche piccola ipocrisia come andare d’accordo con il ragazzo dagli occhi blu che la Francia ultracattolica sognata da Verlaine-Loyola la detestava al punto da andarsene tra gli arabi a vendere armi e a leggere il Corano? Verlaine scrisse il Viaggio in Francia solo quando Rimbaud partì per l’Africa, e probabilmente ci mise tutta la rabbia del deluso e del tradito, e tutto quello che da “Loyola” innamorato aveva in parte dovuto dissimulare per farsi accettare dal suo micio biondo e anarchico. Ma il manoscritto delle confessioni politiche di Verlaine restò tale, persino una rivista cattolica lo rifiutò, e il libro fu pubblicato dopo la morte di Verlaine: peccato, perché la prosa risentita e anomala di Verlaine, il suo furore dolce e la sua frivolezza retorica sono affascinanti. Del resto allora tutti sapevano che Verlaine, che scriveva poesie cristianissime e panegirici della Vergine, era però sempre l’uomo che conviveva con prostitute e ragazzi, e che pochi anni prima aveva sbattuto il figlio nato da poco con la testa sul muro e tentato di strangolare sua moglie perché si rifiutava di dargli i soldi da sperperare con Arthur.
Verlaine era questo, una contraddizione vivente e un cuore tortuoso, e a tratti un poeta che cantava come nessuno aveva cantato prima la vita “semplice e tranquilla” che è vicinissima ma che sempre sfugge, la leggerezza ebbra degli amanti vagabondi in fuga dal mondo, i trasalimenti magici e impercettibili della natura: «Nell’erba nera i Kobolds vanno; il vento profondo piange, si direbbe… ». E il suo inimitabile tono, come il brivido vocale di una Callas erotica, ci arriva al di là della sua catastrofe personale: e trafigge con dolcezza, ancora.

Viaggio in Francia di un francese di Paul Verlaine (Medusa, pagg. 80).


La Francia repubblicana è rimasta senza Dio
Parigi 1871: ritratto di un Paese dopo la fine dell’Impero

Paul Verlaine

Ahimè! tutto sembra finito, strafinito per la Francia di oggi! Le disfatte, così eloquenti, del 1870-71 sembrano aver parlato ai sordi ed è da allora che fa data questa recrudescenza del male e del peggio, che segnalerà la nostra epoca all’orrore della posterità. L’empietà fa progressi spaventosi, di concerto con l’idea repubblicana, come l’hanno intesa i più perduti uomini della prima rivoluzione; e mai la demagogia, per un attimo repressa – ferocemente e male – con la poca energia che restava alla borghesia, personificata da quel deplorevole Thiers, mai la bassa demagogia è stata sull’orlo di una tale vittoria. L’egoismo di chi ne gode attualmente al potere, in tutta l’irresponsabilità di un potere che disonora in primo luogo l’idea di autorità, la duplicità di giorno in giorno, la menzogna della moderazione e la sfrontatezza nelle contraddizioni (d’altronde tutte arbitrarie e dispotiche) che vanno sotto il nome impertinente di opportunismo, la violenza codarda, l’esitazione brutale, tutta la paccottiglia del machiavellismo, mentre terminano la distruzione degli ultimi avamposti di una società per tre quarti precipitata, snervando, stordendo, irritando un corpo elettorale formato tutto d’inferiori, mascherano per la massa degli stolidi, degli stanchi e degli infatuati, l’abisso ormai vicino, addormentano la memoria, uccidono la preveggenza, e infine perdono, corrompono, contaminano ogni facoltà, ogni spirito di condotta e ogni vestigio dell’antica virtù! Non c’è più rispetto, non c’è più famiglia, il piacere sfrontato – che dico, la deboscia è al vertice; nessun patriottismo, nessun ideale neppure negativo; nemmeno, se non presso certi diseredati, l’eroismo empio della barricata; lo studente “orgiastico”, l’operaio senz’altro “dissoluto”; la vile scheda elettorale che sostituisce, per le necessità della sommossa, il fucile infame, ma almeno franco; il denaro come unico argomento, come unica obiezione, come unica vittoria; la pigrizia e gli espedienti arraffano il pane dell’antico lavoro – e Dio tutti i giorni è bestemmiato, sfidato, crocifisso nella sua Chiesa, schiaffeggiato nel suo Cristo, espropriato, cacciato, negato, provocato! Che tribuna e che stampa! Che gioventù e che donne –, e che paese!
Tuttavia, dato che vive ancora questa Francia orribile che hanno creato per noi, questa Francia difficile, quasi impossibile da amare, finché c’è, perché vive ancora, anche con questi capi che non fanno una testa, anche con le membra in cancrena e il sangue marcio, anche in questa atmosfera pestilenziale che le fa male, perché ha ancora forma di nazione, perché il suo nome sussiste e la sua lingua è ancora la prima d’Europa, finché, grazie a Dio, c’è il cuore, e finché questo cuore batte, finché batterà, ci sarà una Francia che può tornare la beniamina tra le nazioni e il soldato di Dio, che le ha fatto promesse quasi altrettanto solenni come quelle alla sua Chiesa. Dunque si tratta di andare verso quel cuore, non solo con la memoria e l’immaginazione; al francese geloso dell’antico onore e della speranza sempre concessa, serve il coraggio di penetrare attraverso tutti gli ostacoli odiosi e crudeli, fino alla fonte pura e forte da cui esce questo bel sangue blu e rosso, nobili e popolo, la cui storia fu così bella, che batteva sulle tempie del genio come nei piedi della carità, come sul fianco del martire, e che poté scorrere su tutti i campi di battaglia e ovunque Dio voleva essere glorificato con una morte preziosa.
Traduzione di Luana Salvarani © 2013 by Edizioni Medusa



Verlaine: niente lavoro di domenica

Bianca Garavelli

"L'Avvenire",  3 aprile 2013 

In effetti, per Paul Verlaine vivere controcorrente doveva essere una vocazione naturale. Lo era stata in gioventù, quando aveva dato vita alla stagione della "poesia maledetta", vivendo la trasgressiva relazione con Arthur Rimbaud, per il quale aveva abbandonato la moglie e il figlio. E lo fu ancora, paradossalmente, dopo la conclusione drammatica di questa stessa relazione, simbolica di una vita contro le regole morali, che segnò per lui anche la fine di un’epoca, e di una modalità di pensiero. Paradossalmente perché, dopo aver recuperato un equilibrio personale, soprattutto attraverso la fede, il poeta non riuscì a ritrovare il ruolo di maestro di pensiero che aveva in qualche modo ricoperto in precedenza, con i suoi testi poetici divenuti modello del simbolismo.
Nella Francia sconvolta dall’esperienza della Comune di Parigi, delle barricate e del passaggio definitivo dalla monarchia alla repubblica, il ritorno ai valori da lui perseguito e difeso non era una strada facile, e la sua stessa posizione non fu capita dagli addetti ai lavori del suo tempo. Ecco la ragione per cui il breve ma denso e labirintico libro, Viaggio in Francia di un francese, un po’ saggio, un po’ confessione personale, scritto tra il 1880 e il 1881, contemporaneamente al libro poetico Sagesse, non andò in stampa finché l’autore fu in vita, e fu pubblicato postumo a undici anni dalla sua scomparsa, nel 1907. Il ritorno all’ordine, dunque, diventa trasgressione, in una società i cui valori sono ormai lettera morta. Forse proprio perché Verlaine si rivela animato da una fede autentica, profonda, che non viene compresa, tanto è diventata la colonna vertebrale di un uomo fino a poco prima distrutto. Dunque, è una vera e propria scoperta per noi lettori italiani questo libro noto finora solo in Francia, per la prima volta tradotto integralmente (Viaggio in Francia di un francese, Medusa, pagg. 80, Euro 11,00, traduzione di Luana Salvarani): la scoperta di un Verlaine profondamente rinnovato dalla fede, anzi deciso a difenderne i benefici, di cui è diretto testimone, contro ogni possibile attacco del presente. Proprio come un severo «Giovenale cristiano», paragone che gli attribuisce il curatore francese del libro nell’edizione della Pléiade, Jacques Borel. O come una sorta di nuovo mistico, ispirato da una Musa d’eccezione: la Francia «monarchica e cattolica di Luigi IX e di Giovanna d’Arco», come osserva acutamente Giancarlo Pontiggia nella sua elegante prefazione.
Leggendo queste pagine, infatti, scopriamo che gli scenari degni di nota di questo "viaggio in Francia" riguardano soprattutto la storia del paese: la fine dell’identità fra senso dello stato e fede dopo i sovrani merovingi, la perdita di importanza dell’Ordine dei Gesuiti, la "presa di potere" del giansenismo, descritto come una dannosa deformazione del cattolicesimo, la Rivoluzione francese, da lui definita «abominevole». Il rito della Messa è raccontato come una gioia, una cura spirituale: «benedizione per l’anima, santificazione e nobile delizia dei sensi», come testimoniano gli occhi di chi esce dalla chiesa, in quanto «brillano più calmi e più profondi». L’osservanza della preghiera domenicale è anche l’incentivo al riunirsi finalmente sereno delle famiglie, che riposando in Dio cementano il loro legame e sciolgono almeno in parte la dura prigionia del lavoro, il più delle volte disumano. Nel dibattito odierno sul lavoro domenicale Verlaine sarebbe stato un sostenitore assoluto del riposo: non potrebbe essere altrimenti, visto che qui deplora «quegli operai senza Dio, che una spaventosa abitudine all’indifferenza spinge al lavoro proibito», mentre piange «la loro ignoranza di cosa sia la domenica». Per lo stesso motivo, non riesce a stimare certi suoi colleghi, gli scrittori naturalisti, pur riconoscendone il talento, specialmente a Flaubert. Mentre ammira senza condizioni soprattutto due autori, a cui rivolge il suo saluto, per lo «spirito gallico», ma anche per il loro «eroico cattolicesimo che brucia e fiammeggia»: Paul Feval e Barbey d’Aurevilly. 
Il culmine del libro è il capitolo dedicato al figlio Georges: proprio quel figlio che aveva un tempo abbandonato. Verlaine ora trema al pensiero che diventi soldato, perché combatterebbe per una democrazia che in realtà è «l’Invidia che ci governa». Viene in mente, leggendo questi passi, l’entusiasmo con cui Christine de Pizan, scrittrice italo-francese vissuta fra Trecento e Quattrocento, inneggia nel suo ultimo poemetto all’impresa di liberazione di Giovanna d’Arco, che salva la patria dal male incarnato dai corrotti inglesi. Là gli inglesi, qui la blasfemia di una democrazia anticristiana: in entrambi i casi, la motivazione a difendere la Francia viene dalla fede. E la certezza rassicurante di questo padre nuovamente preoccupato per il figlio è che sia «cattolico praticante» e sappia destreggiarsi tra gli astuti raggiri del Diavolo, ribellandosi se necessario a eventuali ordini «sacrileghi» contro il re e i suoi fedeli.

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