domenica 21 aprile 2013

Un sapere pret-à-porter


Maurizio Ferraris

"La Repubblica",  21 2013

Lo scrittore inglese Sebastian Faulks ha recentemente sostenuto che le nuove generazioni saranno le prime in cui i figli saranno meno colti dei loro genitori: «I ragazzi che oggi hanno vent’anni e più costituiranno la prima generazione in Europa occidentale a soffrire di una perdita di sapere e conoscenza a causa della tecnologia. I nostri figli, difatti, sanno meno cose rispetto ai loro genitori». Uno potrebbe obiettare, come il presidente Clinton a proposito del sesso: «Dipende da cosa si intende con “sapere”». C’è un senso, tutt’altro che trascurabile, in cui l’asserzione di Faulks è letteralmente falsa. Nelle generazioni digitali non ci sono analfabeti di ritorno, in quella dei loro genitori, sì. Nelle generazioni digitali anche chi non ha a portata di mano una biblioteca può avere accesso alla cultura, in quella dei loro genitori, no. Nelle generazioni digitali è difficile che uno scriva Scespir se intende Shakespeare, in quella dei loro genitori (per non parlare dei loro nonni e bisnonni, in gran parte analfabeti) no.
E non si tratta soltanto di accesso a un concetto puramente nozionistico della cultura. Nel mondo di Internet assistiamo a un fenomeno che, nel suo complesso, può essere considerato un frutto dell’illuminismo, della capacità delle persone di pensare con la loro testa: la gente cerca, si documenta, discute. Che poi il frutto di questi pensieri autonomi possa non piacere, magari risultando arrogante come talora sono le idee degli autodidatti, è un fatto. Ma questa è un’altra storia, e comunque non è vero che “Internet rende stupidi”, come ha sostenuto Nicholas Carr con un pessimismo non meno eccessivo dell’ottimismo con cui Pierre Lévy parlò, negli anni Novanta, di “intelligenza collettiva” del web. Presuntuosi magari sì, ma non stupidi.
Quello che avverrà, quello che sta avvenendo e viene stigmatizzato da Faulks, riguarda piuttosto una trasformazione della cultura che è messa a fuoco con grande chiarezza da Roberto Casati in Contro il colonialismo digitale, un saggio in uscita a maggio da Laterza. L’idea di fondo è questa: le due pagine, quella di carta e quella su web, non si equivalgono per molti e ovvi motivi, uno dei quali è particolarmente cruciale. La pagina di carta invita al silenzio e alla concentrazione, la pagina web (posto che questa espressione abbia un senso) invita alla connessione e alla deconcentrazione. Se la pagina web dovesse scacciare definitivamente la pagina di carta non sarebbe la fine dell’intelligenza né dell’istruzione, ma di quel campo di concentrazione che è stata l’alta cultura nella tradizione occidentale.
È proprio in questa direzione che vanno le considerazioni di Faulks, che sostiene di non essere un bigotto pessimista, e di apprezzare i vantaggi delle nuove tecnologie, ma ritiene che «questi giovani hanno accesso al sapere semplicemente premendo un pulsante, ma, allo stesso tempo, oggi non hanno più bisogno di “catturarlo”». In che cosa consiste la “cattura” tradizionale del sapere? Gianfranco Contini ha scritto nel 1951: «O italiani, io vi esorto alle Concordanze!». Ovviamente si riferiva ai filologi, e difendeva una pratica monotona ed estenuante: redigere un repertorio alfabetico delle parole presenti in un’opera o nel corpus intero di un autore. La pratica poteva durare anni, ma alla fine il redattore aveva letto riga dopo riga tutto quello che aveva scritto l’autore. Adesso se vuoi sapere dove e quando “summentovate” compare nei Promessi sposi, basta fare un giro su Google, ma si può tranquillamente ignorare tutto il resto.
Ovviamente questo è un esempio estremo, ma pensate alla fatica che si faceva per ritrovare una citazione su un libro (che ci costringeva a rileggerlo in buona parte), a mettere le note a un saggio (giorni e giorni in biblioteca), o anche semplicemente a trovare l’esatta ubicazione di un luogo geografico citato in un romanzo. E lì confesso che per esempio leggendo La figlia del capitano ho sempre collocato Orenburg «da qualche parte in Russia», non sentendomela di tirar fuori il pesantissimo atlante del Touring della biblioteca di mio padre. Sino a quando, l’estate scorsa, scaricatolo sull’iPad per portarmi un po’ di libri in vacanza senza sfondare la valigia ho guardato su Google Maps e ho ottenuto la risposta in un attimo. Per non parlare, poi, del modo in cui si conservavano le informazioni. Appartengo ancora alla generazione in cui si redigevano schede per le ricerche, prima su cartoncino bristol, poi su file di computer, ho ancora nell’hard disk i file di due anni passati nella biblioteca del seminario filosofico di Heidelberg, inizio anni Novanta, ossia poco prima che esplodesse il web. Adesso probabilmente quelle note non le avrei prese, confidando di trovare le citazioni online, ma di fatto perdendomi quel lavoro di trascrizione, riassunto e interiorizzazione che mi ha aiutato a capire molto più di quanto non mi aiuti, ora, ricorrere a quelle schede per citazioni e riscontri.
Il tutto, poi, avveniva in uno stato di concentrazione monastica, che è un bene unico, una delle cose più importanti che può insegnare la scuola e la pratica della biblioteca, perché con la concentrazione vengono (o possono venire) tante cose, per esempio l’idea di non essere così originali come talvolta pensiamo di essere. E si può anche capire che è meglio tacere, meditare, esitare, invece di postare lì per lì le nostre pensate. Ed è essenzialmente nel chiuso di una biblioteca che può sorgere l’idea, potente e salvifica, di essere un imbecille, e il sospetto che tutti i libri che abbiamo sottomano nel web non sono che la punta emersa di un iceberg che rimane invisibile se non si accede alle biblioteche e al loro silenzio.
Il web, che è connessione e deconcentrazione per eccellenza, non permette niente di tutto questo. Di chi è la colpa? Del web? Sarebbe come imputare al sogno leonardesco dell’uomo volante il bombardamento di Dresda. La colpa è della cultura, dell’università e della scuola. Basti pensare alla riforma dell’istruzione degli ultimi decenni, guidata dallo slogan inglese, Internet e impresa, e armata dalla convinzione che il vero sapere sia fuori, e che vada inseguito a tutti i costi, in una gara strutturalmente perdente. Si pensi, per le facoltà umanistiche, al mito del sapere immediatamente professionalizzante, dei “laboratori informatici” o anche semplicemente dell’aumento irrazionale delle “lezioni frontali”. Tutto il contrario di quella che è stata, per me, l’esperienza dell’apprendere, che è consistita certo in un confrontarsi con maestri, ma anzitutto in un immergersi in un mare di libri (e mi è andata bene: pare che Lévi-Strauss richiedesse ai suoi studenti la lettura di 4.000 pagine alla settimana, più di quanto ne legga oggi uno studente nell’intero corso degli studi universitari).
Ora si annuncia tranquillamente l’inserimento del tablet a scuola, il che significa: deconcentrazione garantita e istituzionalizzata. Chi uscirà da queste scuole (ma varrà la pena di entrarci?) non sarà meno colto della maggioranza delle generazioni precedenti, ma sarà indubbiamente molto meno colto di una élite uscita da buone scuole e università, e che ha potuto ibridare il proprio sapere cartaceo e concentrato con i vantaggi (e ovviamente le nevrosi) di Internet. Con questo, però, arriviamo a due conclusioni, una pessimista e l’altra ottimista. Quella pessimista è che il web esercita una funzione superficialmente democratizzante, ma nel fondo risulta sottilmente classista, perché di fatto accresce il divario tra chi è cresciuto in una casa con libri e chi è cresciuto in una casa senza libri, visto che la scuola e l’università (le vere responsabili, torno a dirlo) sembrano avere abdicato alla difesa della cultura cartacea. Quella ottimista è che non si tratta di un destino. La tecnica non è una fatalità, ma una possibilità. Alle sue derive si può resistere. E soprattutto la tecnica si può cambiare e integrare, promuovendo un ideale di cultura che tenga insieme il meglio della carta e il meglio del web. Per riuscirci, però, occorre un po’ di concentrazione.

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