lunedì 8 aprile 2013

Saviano, orazione sulla coca Critica della ragione mafiosa


La verità della malavita attraverso la filosofia dei suoi boss 

Antonio D'Orrico

"Corriere della Sera", 6 APRILE 2013 


Quando era piccolo, Roberto Saviano mandò dei racconti da leggere a Goffredo Fofi. Erano di stile surreale, onirico, alla Tommaso Landolfi, uno degli scrittori più originali e misteriosi che l'Italia abbia avuto. Fofi gli rispose di lasciar perdere il gotico ciociaro risciacquato in Arno di Landolfi e di aprire la finestra della sua stanza e scrivere di quello che vedeva affacciandosi. Saviano lo prese in parola e si guardò intorno. Così nacque Gomorra che ormai non è più un libro, è un brand e ha marchiato a fuoco l'autore e la sua vita nei modi che sappiamo (successo in tutto il mondo, minacce di morte dei boss protagonisti del racconto di Saviano, conseguente assegnazione di una scorta fissa a quest'ultimo, costretto, per il suo bene, a un'esistenza blindata 24 ore su 24).
Ora qui, però, vorrei parlare di Roberto Saviano senza considerarne l'indotto, le mille derivazioni prodotte dal fenomeno Gomorra. Vorrei parlare, semplicemente, di che cos'è e di com'è il suo nuovo libro, ZeroZeroZero, una storia mondiale della cocaina appena pubblicata da Feltrinelli sette anni dopo quel clamoroso esordio. Ma mentre lo dico un dubbio mi attraversa la mente: si può parlare di Roberto Saviano a prescindere dal suo indotto? Proviamo.
Tecnicamente parlando ZeroZeroZero è un The complete book, un genere classico dell'editoria anglosassone (tipo The complete book of labrador, The complete book of Jack the Ripper), un libro esaustivo su un personaggio o su un argomento. Saviano ha scelto di scrivere il suo complete sulla cocaina (da come la si ottiene a come la si smercia, all'effetto che fa) perché si è convinto di un paio di cose. Che sono le seguenti.
1) «Non esiste mercato al mondo che renda più di quello della cocaina. Non esiste investimento finanziario al mondo che frutti come investire in cocaina». Da cui discende il corollario A: «Se avessi investito mille euro in azioni Apple all'inizio del 2012, ora ne avresti milleseicentosettanta. Non male. Ma se avessi investito mille euro in coca all'inizio del 2012, ora ne avresti centottantaduemila: cento volte di più che investendo nel titolo azionario record dell'anno!».
2) «Ciò che viviamo oggi, l'economia che regola le nostre vite, le nostre scelte, è determinato più da quello che Félix Gallardo "El Padrino" e Pablo Escobar "El Mágico" decisero e fecero negli anni Ottanta che da ciò che decisero e fecero Reagan e Gorbaciov. O almeno io la penso così». Da cui discende il corollario B: «Stare dentro ai traffici della polvere è l'unica prospettiva che mi abbia permesso di capire le cose fino in fondo. Guardare la debolezza umana, la fisiologia del potere, la fragilità dei rapporti, l'inconsistenza dei legami, la forza immane del denaro e della ferocia. L'assoluta impotenza di tutti gli insegnamenti volti alla bellezza e alla giustizia di cui mi sono nutrito».
Perciò, conclude Saviano, quasi scusandosi, mi sono ridotto a scrivere di morti e di sparatorie («di chiaviche», come ama dire lui stesso a sottolineare la viltà, la miserabilità delle sue storie e dei loro protagonisti), perché questo mi permette di capire il mondo, di sapere la verità, come è compito di uno scrittore.
Se ZeroZeroZero fosse tutto qui sarebbe un saggio sull'economia, sulla finanza e, in una parola, sul potere. Ma, fortunatamente, non è solo questo. La verità del libro sta altrove e, precisamente, nel discorso (ma «orazione» sarebbe il termine più calzante) che un vecchio boss calabrese, un uomo d'onore, fece, non molto tempo fa a New York, a un pubblico di giovani criminali (di nazionalità assortite: albanesi, chicanos…). A Saviano capita di ascoltare l'intervento del vecchio boss (che parla in un curioso impasto linguistico di inglese, spagnolo, italiano e dialetto calabrese). L'uomo spiega che cos'è un capo e come funziona la mafia. E sostiene che chi delinque non è peggiore dei grandi industriali, dei politici, dei rappresentanti del potere legale e ufficiale. Dice che si tratta di uno scontro di visioni diverse e che i criminali hanno dalla loro il fatto di essere coraggiosi, di giocarsi davvero il tutto per tutto. E di non nascondersi dietro alibi di comodo. Afferma l'uomo d'onore: «Le cazzate sul mondo migliore lasciamole agli idioti». Non si comanda per il bene, per la giustizia, per la libertà: «Queste sono cose da fimmine, lasciamole ai ricchi, agli idioti. Chi comanda, comanda. Punto e basta».
La vita è sempre una malavita. «Scetateve guagliune»...
Saviano resta impressionato dall'orazione. Gli è successo in altre occasioni di sentire discorsi di filosofia morale mafiosa. Questo è diverso, è una lezione «su come si sta al mondo», su come si vive e non su come si fa il mafioso. La concione del boss appare a Saviano «come un addestramento dell'anima». Lo scrittore ci vede qualcosa di kantiano: «Era una critica della ragion pratica mafiosa». E non può che concludere definendo i boss italiani «gli ultimi calvinisti d'Occidente».
C'è un nodo non sciolto in Saviano. Se è mi permesso fare un giro sull'ottovolante della psicoanalisi, penso che si tratti di un senso di colpa. I criminali lo affascinano. Lo riconosce anche: «Tutti i grandi leader criminali hanno una cosa in comune: la volontà di costruirsi un'aura di fascino. La volontà di ammaliare, di sedurre. Poco importa se l'obiettivo è una donna da portarsi a letto o uno spacciatore rivale da far fuori convincendo i tuoi compari che quel bastardo se lo merita» (o, aggiungerei, uno scrittore da cui farsi raccontare). E, scrivendo di Félix Gallardo, detto «El Padrino», di Pablo Escobar, detto «El Mágico», di Osiel Cárdenas Guillén, detto «El Mata Amigos» (l'Ammazzamici), i grandi narcotrafficanti protagonisti del suo libro, Saviano soddisfa e, contemporaneamente, condanna la sua attrazione fatale. Così procedendo ne resta prigioniero. Per liberarsi dovrebbe fare come il grande Don Winslow (che racconta da sempre e impareggiabilmente la gigantesca connection messicana del narcotraffico), dovrebbe romanzarla decisamente, dovrebbe shakespeareggiarla con grandeurelisabettiana, dovrebbe tragediarla (per usare un termine amatissimo dai mafiosi), ma anche commedializzarla.
Saviano lo fa in una sola scena di Zero ZeroZero ed è quando racconta del boss calabrese di San Luca Francesco Strangio, detto Ciccio Boutique. Un giorno gli raccontarono che i narco avevano tagliato le mani a uno che aveva rubato, Ciccio Boutique non ce la fece più e sbottò: «Mamma mia, noi siamo flessibili su queste cose. Ma quando è successo un fatto del genere nelle nostre zone, mai. Piuttosto una fucilata. Ma non quelle torture». 
Ciccio Boutique sarà pure una chiavica, ma uno scrittore deve sapere che anche le chiaviche possono avere un risvolto umano.


L’inferno della cocaina è il motore del mondo

 “Zero Zero Zero” 
Più romanzo che documento 
FEDERICO VARESE

MARIO BAUDINO

"La Stampa - Tuttolibri", 6 aprile 2013

Scrivere di cocaina è come farne uso. Vuoi sempre più notizie, più informazioni» e quelle che si trovano sembrano non bastare mai. In questa frase di Roberto Saviano sta molto del suo libro, l’atteso ZeroZeroZero, prima opera organica dopo Gomorra, più volte annunciata e sempre rinviata. Scrivere di cocaina, confessa, è come stare in perenne crisi di astinenza da informazioni e storie: «Per questo continuo a raccoglierne fino alla nausea, più di quanto sarebbe necessario» è la conclusione, quasi a congedo, delle oltre 400 pagine. 
Il titolo allude alla cocaina purissima, con un evidente gioco di parole sulla farina doppio zero. Ma forse anche all’effetto nullificante non della droga in sé, ma della sua logica. La cocaina è la divinità maligna - o forse solo indifferente - che pervade il mondo dell’autore: «Sono diventato un mostro», scrive, perché «quando inserisci tutto nell’universo di senso che hai costruito osservando i poteri del narcotraffico, il resto diventa superfluo». Saviano fissa la Medusa. «Hai sacrificato tutto non solo per capire, ma per mostrare, per indicare, per descrivere l’abisso. Valeva la pena?» Il suo libro non è solo un viaggio, ma una sorta di poema (che include peraltro alcune pagine in versi) dove la droga sembra spiegare tutto: affari, soldi, sesso, ferocia. Volano e motore di un universo totalizzante, la cocaina, o meglio il traffico internazionale, è per lo scrittore quel che il Capitale era per Marx, o la volontà di potenza di Nietzsche. Nulla si sottrae alle sue dinamiche, nel male e persino nel bene; nessuno può affermare che davvero la ignora; nessuno sfugge alla sua forza pervasiva. «Ma sono convinto - scrive alla fine del suo viaggio nell’orrore - che la legalizzazione potrebbe davvero essere la soluzione» Si intuisce come la storia narrata nel libro sia anche quella di come è stato scritto, tra le difficoltà ovvie di un autore costretto da una parte a una vita blindata, e dall’altra affascinato e orrificato da una spinta insaziabile. «ZeroZeroZero» mosse i primi passi, almeno come progetto, in casa Mondadori - ce ne parlò la prima volta l’allora direttore libri Gian Arturo Ferrari, alla Fiera di Francoforte del 2008 -, e cammin facendo è approdato alla Feltrinelli dopo il polemico addio a Segrate, editore di «Gomorra». E’ meno narrativo, meno «romanzesco» rispetto a quello straordinario esordio. Inclina più a un reportage pur sempre tenuto ad altissime temperature, ed è forse più discontinuo. 
Saviano spazia dal Messico alla Colombia, dagli Stati Uniti a Scampia, dalle grandi banche internazionali alla mafia russa inseguendo la traccia della droga che si trasforma in quantità inimmaginabili di denaro e permea perciò la stessa società che pretende di combatterla. E’ una sorta di inferno senza paradisi, dove al più è concessa la possibilità di un purgatorio. Una saga di boss dai nomi altisonanti o bizzarri che ammazzano, squartano, torturano e intanto costruiscono complicate ed efficientissime trame politiche e finanziarie. Una pulp (non)fiction di corpi fatti a pezzi, di vite umiliate e mutilate. 
Al centro del libro le vicende dei «narcos» messicani, in base al principio enunciato dell’autore secondo cui «per capire la coca devi capire il Messico». Impresa non da poco. Anche perché proprio nella parte di più stringente documentazione emerge un certa discontinuità, almeno a livello stilistico e della tenuta narrativa. Saviano è Saviano quando è pienamente «scrittore» e dosa alla sua maniera finzione narrativa e realtà documentaria: come accade ad esempio nel primo capitolo dove l’autore-protagonista ascolta la registrazione clandestina di una «lezione» sulla vita e la morte impartita da un anziano boss italo americano a una congrega di reclute. Quando investe la pagina con la prima persona, dà come sempre il meglio di sé. 

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