domenica 3 marzo 2013

Tutte le metafore di un malessere molto più profondo


Perché la letteratura che intreccia sentimenti e sofferenza 
non è all’altezza della vera infelicità giovanile 

Umberto Galimberti

"La Repubblica",  3 marzo 2013

Freud ci ha insegnato che accanto alla pulsione di vita c’è in noi anche la pulsione di morte che si esprime in tutte quelle forme di autodistruttività da cui i giovani non sono assolutamente immuni. Anzi, proprio nella giovinezza, in cui si sperimenta il massimo della forza biologica, c’è quel gusto del rischio e dell’eccesso che rasenta spesso l’invalidità quando non addirittura la morte.
C’è allora bisogno di quella letteratura che intrattiene i giovani sui temi delle malattie irreversibili, o di quelle che senza speranze conducono alla morte? Oppure su quelle pratiche di autolesionismo a cui molti giovani si dedicano nel segreto dei loro vissuti autodistruttivi, quasi volessero punirsi da sé per colpe, spesso a loro stessi sconosciute, da cui il dolore autoinflitto dovrebbe redimere? O infine quella sfida con la morte che si chiama anoressia, dove il piacere del controllo totale, giocato sul registro di quel bisogno primario che è la fame, offre, al prezzo della propria consunzione, l’ebbrezza di una quotidiana vittoria su quanto la vita esige per poter vivere? Io direi proprio di no, anche se Montaigne scrive: «Se fossi un facitore di libri, farei un registro commentato delle diverse morti, perché chi insegna agli uomini a morire, insegna loro a vivere». Sarà. Ma se adottassimo come chiave interpretativa il titolo di quel libro fortunato di Susan Sontag, La malattia come metafora, non potremmo leggere il cancro, l’autolesionismo l’anoressia e in generale tutte quelle forme di sofferenza che oggi sembrano avere tanto successo nella letteratura per giovani, come una metafora di quella vera e più profonda malattia che talvolta porta i giovani al suicidio o al tentato suicidio, per una totale mancanza di prospettive e di progetti, quando non di sensi e di legami affettivi, per cui, come ultimo rimedio, non resta che la malattia, per riscuotere un minimo di attenzione, di cura, di compassione e in ultima istanza di amore?
Se questa ipotesi ha una sua plausibilità non è un caso che questo tipo di letteratura sia nata proprio oggi quando i giovani toccano con mano che nessuno sembra aver bisogno di loro, nessuno li chiama per nome, nessuno offre loro uno straccio di prospettiva per il loro avvenire, per cui preferiscono vivere di notte, rifiutando la vita che si svolge di giorno per non assaporare la loro esclusione, oppure consegnandosi alla droga, o per sentirsi vivi nonostante tutto, o per anestetizzarsi e diventare insensibili al dolore che scaturisce dal toccare con mano quotidianamente la loro insignificanza sociale.
Questa malattia, di cui le malattie cliniche sono solo metafore, non è di origine psicologica, ma culturale. Appartiene cioè alla cultura del nostro tempo che Nietzsche, centocinquant’anni fa, in un lampo profetico, aveva chiamato “nichilismo” e così descritto: «Manca lo scopo, manca la risposta al perché. Tutti valori si svalutano ». Che i valori si svalutino non è un problema. Ogni generazione ha svalutato valori logori e dato vita a nuovi valori. Ma là dove manca lo scopo, dove non c’è una risposta al perché della propria esistenza, che ai giovani d’oggi appare inessenziale perché il futuro, da promessa, è divenuto per loro una minaccia, come si fa a inventare nuovi valori in questo scenario chiuso non solo alla promessa, ma addirittura alla speranza?
La letteratura Sick-lit, come viene battezzata questa offerta letteraria di malattie cliniche nei romanzi per giovani, magari con intenti educativi per affinare la loro sensibilità, in realtà non intercetta la vera malattia che oggi angoscia la condizione giovanile perché, nell’atmosfera nichilista che li avvolge, i giovani possono senz’altro appassionarsi alla sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha sempre fatto, ma così facendo li si inganna, perché, come ci ricorda Günther Anders: la loro vita «non appare priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile, perché priva di senso».
Se questo è vero, come io credo, una letteratura sulla sofferenza che intreccia l’amore e il sesso alla sofferenza e alla malattia, se non è inutile, è senz’altro ingannevole, perché non è all’altezza del dolore giovanile che oggi soffre, per un deserto troppo arido, troppo avaro di senso.

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