martedì 26 marzo 2013

Le ultime ore di Goethe «Più niente!» Sipario


La messa in scena beffarda e nichilista di Bernhard 

Pietro Citati

"Corriere della Sera",  25 marzo 2013

Appena apriamo il nostro album di ritratti ad olio, di disegni e di silhouettes, rivediamo Goethe ottantenne nella «sala gialla» della sua grande casa al Frauenplan, circondato da un gruppo di amici. Ad un tratto una maschera di noia appesantisce i suoi lineamenti. Vede intorno a sé sempre le stesse persone: il figlio, la nuora, i nipoti, il cancelliere von Müller, Eckermann, Meyer, Kraüter e non riesce a sopportare la loro devozione affettuosa. Nessuno lo contraddice: nessuno lo diverte. Ma lui non può vivere senza distrazioni ed eccitazioni: ha bisogno di passare da un interesse all'altro con la rapidità con cui si cambia un vestito; deve muoversi in una società vivace ed allegra, mentre lì, a Weimar, lo attende un lungo, insopportabile inverno... Così immagina di aprire la sua casa ogni giorno, all'ora del tè: «Ognuno verrebbe e resterebbe a suo piacere, e potrebbe portare con sé degli ospiti, quelli che preferisce. I saloni sarebbero sempre aperti e illuminati dopo le sette, e ci sarebbe del tè e tutto quello che ci vuole in abbondanza. Potremmo fare della musica, giocare, leggere ad alta voce, chiacchierare, secondo l'inclinazione e l'opportunità. Quanto a me, apparirei e scomparirei, come lo spirito mi suggerirebbe. E se qualche volta non comparissi affatto, questo non dovrebbe disturbare nessuno...».
Quando le porte della casa di Goethe si aprono, e gli amici si raccolgono lietamente a giocare, a leggere e a prendere il tè, altri umori regnano sopra la casa del Frauenplan. Una porta laterale della sala gialla si apre silenziosamente; e agli ospiti appare un vecchio signore incipriato e vestito di nero, che porta tutte le sue decorazioni sul petto e si muove rigidamente, come se dovesse celare un impaccio o fingere una maestà che non possiede. Il vecchio signore brontola, pronuncia tra sé qualche parola incomprensibile: regala ai suoi sudditi dei consigli di galateo; e ai suoi amici sembra che «un vento gelato e tagliente soffi sopra i nevai».
Questo vento gelido e tagliente sembra guidato da una volontà maligna, che vuole colpire, offendere e restaurare sopra il mondo il soffio del Nulla. Il vecchio incipriato abbandona le usanze da cortigiano, e assume i modi grandiosi e triviali di Mefistofele. I suoi occhi si incupiscono, la voce diventa acre, le parole scherniscono gli uomini, «questa genia assurda, bassamente e metodicamente assurda»: contraddicono, irridono, vituperano le cose più sacre. Poiché Mefistofele è il principe di tutti i conservatori, anche Goethe recita la parte del conservatore arrabbiato. Mentre i giovani studenti liberali si agitano nelle università tedesche, egli critica la libertà di stampa, si scaglia contro la legge che autorizza il matrimonio tra gli ebrei ed i cristiani; prende la parte dei turchi contro i greci, dell'ordine costituito contro chiunque, in Germania, in Spagna o in Italia, cerchi di rovesciarlo.
* * *
Nel 1982, centocinquant'anni dopo la morte di Goethe, Thomas Bernhard ebbe una idea divertentissima. Non aveva mai adorato Goethe; ed immaginò di volare segretamente a Weimar, assumendo la parte di un segretario o di un cliente sconosciuto. Voleva assistere agli ultimi tempi della sua vita. Portò con sé i suoi occhi beffardi e parodici; e il suo impagabile stile — con le parole che si ripetevano, il periodo-salsiccia o il periodo-lasagna, l'ilarità incontenibile, che trasformò Goethe, il suo mondo e se stesso in una farsa senza misura (Goethe muore, Adelphi).
Molte cose Bernhard riprodusse con fedeltà: altre inventò e parodiò con una sfacciata buffoneria. Il suo Goethe era un nichilista: preso da un accesso di basso pessimismo insultava tutti, il suo principe Ernesto Augusto, la un tempo amatissima Charlotte von Stein, Kleist, Hölderlin, Schiller, la giovane Ulrike von Levetzow, alla quale aveva dedicato versi meravigliosi, e sopratutto se stesso, un vero lestofante, che aveva ingannato i suoi cari tedeschi, annientando per due secoli la vita intellettuale della Germania. Diffamava, brontolava, scherniva i suoi segretari e clienti, in perenne litigio tra loro.
Sappiamo che, durante la vita, Goethe aveva risposto con prodigiosa precisione, come una specie di burocrate di se stesso, alle lettere che riceveva. Seduto al tavolino, prendeva i fogli di carta, lasciando da ogni parte un margine largo ed elegante; e cominciava a scrivere, intingendo delicatamente la penna nel calamaio, che non doveva essere mai troppo colmo.
Quante precauzioni doveva osservare! Le facciate delle lettere dovevano contenere lo stesso numero di righe: nessuna goccia di inchiostro poteva macchiare o adombrare il candore della carta; la lettera veniva lasciata asciugare per qualche minuto davanti alla stufa. Ma Thomas Bernhard, il nuovo segretario immaginario, ci assicura del contrario. Goethe non rispondeva mai o quasi mai a nessuna lettera: una volta scrisse a Edith Lafontaine, che gli aveva mandato alcune poesie per un giudizio, suggerendole di rivolgersi a Voltaire, il quale lo sostituiva nel ruolo di consulente letterario. Per il resto, le insulse segretarie catalogavano la insulsa corrispondenza; e poi Kraüter, Riemer ed Eckermann gettavano le centinaia di lettere giornaliere in enormi stufe, che riscaldavano la casa. Così il vecchio avaro risparmiava il prezzo della legna da ardere.
All'improvviso Goethe fu assalito -— Thomas Bernhard ci assicura con la consueta buffoneria — dalla passione per Ludwig Wittgenstein (che nacque nel 1889) e per il suo Tractatus logico-philosophicus. Lo ammirava moltissimo: certo si era accorto che molti dei suoi lampi, delle sue sentenze e dei suoi scorci si erano incarnati nella prosa del Tractatus. Ma Wittgenstein era andato molto più lontano di lui — insisteva Goethe; e lo eclissava. Il Tractatus era più bello e importante del Faust II, che aveva concluso da poco. «Sapere che la persona a lui più vicina era ad Oxford, anzi a Cambridge, e che a separarli c'era soltanto la Manica significava, per lui, Goethe, una gioia immensa».
Allora decise di invitare Wittgenstein a Weimar: non al vecchio albergo Elephant, dove scendevano tutti gli amici, ma proprio a casa sua, al Frauenplan, dove gli avrebbe fatto preparare due camere bellissime. Eckermann cercò di opporsi all'invito, ma lui lo insultò e lo cacciò, restando insensibile alle preghiere di tutte le donne e cameriere di casa, e al loro cicaleccio. Ordinò al segretario Kraüter di partire per Oxford o per Cambridge, coperto di un'enorme pelliccia, e di accompagnare Wittgenstein fino a Weimar.
Quando Kraüter fu in Inghilterra, a Oxford o a Cambridge, Wittgenstein morì improvvisamente di cancro. Così dobbiamo rinunciare al dialogo tra i due: dialogo che certo ci avrebbe riservato delle sorprese straordinarie. Goethe e Wittgenstein avrebbero parlato della tautologia, della contraddizione del dubitabile e del non dubitabile; e tutte queste parole sarebbero cadute nella prosa-salsiccia e nella prosa-lasagna di Bernhard, ripetute e variate fino all'ossessione.
Il 22 marzo 1832 — il giorno in cui Wittgenstein era atteso a Weimar — Goethe morì a mezzogiorno. Secondo la leggenda, pronunciò le più famose tra le sue parole: Mehr Licht! Più luce! Non sappiamo cosa significassero: forse non avevano nessun significato metafisico; ma erano soltanto un lieve cenno rivolto a un servo, perché spalancasse le finestre, mentre i suoi occhi si oscuravano, offuscati dalla prossima morte.
Secondo Thomas Bernhard, Goethe avrebbe detto invece Mehr nicht! Più niente! Bernhard giocava: ma queste erano certo le parole adatte a chi, negli ultimi anni, aveva ripetuto con la voce stridula di Mefistofele i mirabili versi:
«Passato! Una parola stupida.
Perché passato?
Passato è puro nulla, assolutamente lo stesso.
"È passato!". Che cosa vuol dire?
È come se non fosse mai stato,
eppure si agita in cerchio, come se esistesse».
* * *
Goethe morì seduto in una poltrona accanto al suo letto. Delirava: «Vedete quella bella testa di donna — con i capelli neri». Non poteva parlare, e così muoveva sulla coperta che gli nascondeva le ginocchia le sue grosse mani, che assomigliavano più a quelle di un contadino o di un artigiano che a quelle di un aristocratico. Disegnava nell'aria. Poi sentì le braccia diventare pesanti, e si mise a scrivere colle dita sulla coperta. Ogni tanto, faceva dei grossi e precisissimi segni di punteggiatura: virgola, punto, punto e virgola, punto esclamativo. Alla fine, disperse nell'aria una grande lettera, una W — la prima lettera del suo nome.
La sera del 6 novembre 1910, nella piccola stazione di Astapovo, dove Tolstoj era disperatamente fuggito, accadde qualcosa di simile. Il giorno prima della morte, Tolstoj era disteso nel letto del capostazione. La figlia Alessandra gli lavava il viso con ovatta ed acqua tiepida. Tolstoj sorrideva, socchiudeva gli occhi, aveva il visto tenero e tranquillo. Quando la figlia ebbe finito di lavargli una parte del viso, voltò l'altra parte e disse dolcemente: «Adesso l'altra, e non dimenticare di lavarmi le orecchie». Cominciò a delirare: credette di scorgere nella stanza una persona che non l'aveva salutato, scambiò un'amica di Aleksandra per Maša, la figlia morta, e col braccio magro e muscoloso prese per mano Tat'jana e non la lasciò andare.
Chiese che scrivesse sul diario i suoi pensieri, ma dettava soltanto delle parole incomprensibili. Poi volle che gli leggesse quello che aveva dettato. Non c'era nulla da leggere: ma lui insisteva disperatamente: «Leggimi quello che ho dettato. Perché taci? Cosa ho dettato?». Poi desistette; e passava inquietamente le mani sulla coperta, la sfiorava con le dita, avanti e indietro, avanti e indietro, senza fine, come se volesse incidere quello che nessuno capiva.
A un tratto disse: «Non posso addormentarmi, compongo sempre. Scrivo, e tutto si incatena armoniosamente».

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