sabato 16 marzo 2013

I Gesuiti, tra cultura e disciplina


Nella storia le battaglie di grandi intellettuali: 
il regicidio e l'anti-marxismo, la scienza e l'ecumenismo

Armando Torno

"Corriere della Sera",  15 marzo 2013

Parliamo di gesuiti, della Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1534. Papa Francesco ha riportato l'attenzione su questo Ordine, strutturato con disciplina militare e celebre per la cultura e l'intelligenza dei suoi membri. Anche se nel linguaggio comune — retaggio del secolo dei Lumi e di quello romantico nonché dell'avversione di figure come Vincenzo Gioberti — l'aggettivo «gesuitico», in senso figurato, è definito dal Vocabolario della lingua italiana Treccani: «finto, falso, ipocrita».
Eppure i gesuiti hanno lasciato traccia indelebile nella cultura e nella Chiesa. Il tema in classe l'hanno inventato nelle loro scuole, così come gli esercizi spirituali si sono diffusi nel mondo attuale grazie al modello fissato da Sant'Ignazio. L'incontro con le altre culture fa parte della loro missione. Lo stesso Francesco Saverio, tra i fondatori della Compagnia, nel 1545 parte per Malacca, in Malaysia: lì incontra dei giapponesi che gli suggeriscono l'idea di portare il vangelo nella loro terra. Non arretra, così come farà in tante occasioni, e una tradizione vuole che sia arrivato alle Filippine. È sepolto a Goa. Matteo Ricci fu pioniere del dialogo con la cultura cinese. Morì a Pechino. E che dire di Francesco Borgia? Viceré di Catalogna, santo, resta il formidabile organizzatore delle missioni dell'Ordine in India, Brasile e ancora in Giappone. Tra l'altro, la cultura gli deve molto: contribuì in modo determinante all'istituzione del Collegio Romano, ovvero l'attuale Università Gregoriana. Non sono che esempi. Se si aggiunge il caso del cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), si incontra un intellettuale che in molti hanno criticato ma indispensabile per comprendere il suo tempo. Formidabile apologeta, difese la Chiesa Cattolica dinanzi alla Riforma ricorrendo soltanto alla razionalità e alla tradizione; di contro, in Germania e in Inghilterra si istituirono cattedre per replicare a tale metodo. Amico di Galileo, dialogò con Giordano Bruno tentando di fargli abiurare le tesi considerate eretiche.
Inoltre, quando si parla di cultura dei gesuiti è inevitabile ricordare Francisco Suárez o Juan de Mariana, due menti della cosiddetta Seconda Scolastica, vissuti tra il Cinquecento e il Seicento. Il secondo divenne celebre per le polemiche legate alla sua opera De rege et regis institutione (1599), ove sosteneva la liceità del tirannicidio: si poteva uccidere il re quando il sovrano, abusando del potere concessogli da Dio, danneggiava patria, leggi e religione, ovvero portava a perdizione il popolo. L'opera fu condannata dai superiori ma lasciò tracce indelebili, a cominciare dalla Rivoluzione francese; anzi «la Marianne», simbolo della libertà, fu omaggio tardivo al gesuita ispiratore. Per Suárez si potrebbero riempire biblioteche. Filosofo, teologo e giurista tra i più acuti, influenzò le opere di autori quali Grozio, Cartesio, Leibniz e Vico, senza contare gran parte dei pensatori politici moderni, tra cui Carl Schmitt. Sosteneva che il potere ha un'origine contrattuale (il detentore originario è il popolo) e, in caso di tirannide, è lecito — se non doveroso — il diritto di resistenza.
In Italia furono i Gesuiti sollecitati da Pio XII a creare una serie di iniziative culturali per arginare il marxismo. Basterà ricordare l'Enciclopedia filosofica (1958, raddoppiata nel 1968); idearono quattro collane di testi per rimettere in circolazione idee non materialiste. Inoltre controllarono le voci religiose della Treccani. Figure come Carlo Maria Martini, di contro, seppero dialogare con quella cultura che la generazione precedente aveva combattuto. E, allargando gli orizzonti, ecco che il gesuita tedesco Augustin Bea, cardinale e confessore di Pio XII, fu pioniere dell'ecumenismo e del dialogo ebraico-cristiano. Teilhard de Chardin, invece, mostrò al mondo contemporaneo che scienza e teologia potevano abbracciarsi. Certo, Blaise Pascal nelle Provinciali non li amava, così come Voltaire. Nella voce «Pietro» del Dizionario filosofico il patriarca degli illuministi, dopo aver elencato le malefatte dei Papi, aggiunge che la santità del loro carattere è provata dal fatto che sono riusciti a sopravvive a tanti mali. Non perde l'occasione per riferire di un teologo che notava: «Se avessero commesso ancor più delitti, sarebbero stati dunque ancor più santi». E chiude: «Ma i gesuiti gli hanno risposto». Battuta che la dice lunga. Interpreta l'idea della Compagnia che mai si arrende dinanzi alle obiezioni.
Non tutti i pontefici li amarono e Giovanni Paolo II, in seguito al malore che colpì il generale Pedro Arrupe, li commissariò. Fu una decisione senza precedenti. Tutti videro una sfiducia nella Compagnia da parte della Santa Sede e un teologo quale Karl Rahner — uno dei protagonisti del Concilio Vaticano II; suo fratello Hugo era anch'egli gesuita — indirizzò al Papa una lettera nella quale dissentì in termini espliciti, accantonando quella «prova di fede» che taluni avevano individuato nell'intervento del pontefice. «Anche dopo aver pregato e meditato — scrisse — non ci è stato facile riconoscere "il dito di Dio" in questa misura amministrativa, perché la nostra fede e l'esperienza della storia ci insegnano che anche l'autorità più alta della Chiesa non è esente da errori».
Pietro Aretino fu uno dei pochissimi che riuscì a scrivere una frase, o meglio un verso, come «povero ignorante gesuita». È nei Sonetti lussuriosi (pubblicati da Salerno, presso cui è in corso l'edizione nazionale). Lo ha fatto alludendo a una sozzura erotica. Non certo per lo studio di Aristotele o della teologia.


La Compagnia seppe propagare la fede nel mondo 
Oggi per il Papa venuto da lontano la sfida d’Europa
L’altro Francesco, quel gesuita che curò la Chiesa con i missionari

Adriano Prosperi

"La Repubblica", 15 marzo 2013

“Il nome è un programma”, ha detto il padre guardiano del convento francescano della Verna. Già: ma quale nome? È istintivo per un italiano immaginare che sia quello di San Francesco d’Assisi affiorato d’istinto alla memoria di un figlio d’emigranti piemontesi. Ma se avessimo la pazienza di porci davvero nei panni di un vescovo argentino di formazione gesuita scopriremmo che la nostra è una tipica illusione etnocentrica. «Romano lo volemo o almanco italiano», si gridava a Roma nel Medioevo alle porte del conclave. Così oggi. E chi deve rassegnarsi al fatto che il Papa non sia né romano né milanese e nemmanco italiano non rinunzia ad attribuire a chi viene da un altro continente e da un’altra cultura la devozione a quel san Francesco divenuto patrono d’Italia. Ma non è quello o almeno non solo quello il nome presente alla cultura e alla religiosità dell’uomo che è diventato Papa, o meglio, come lui stesso ha preferito dire, vescovo di Roma. L’arcivescovo di Buenos Aires non è soltanto il primo Papa venuto dall’America; è anche il primo papa della Compagnia di Gesù. È cresciuto e si è formato all’interno di un Ordine che ha residenze, scuole, archivi e luoghi di memoria a Buenos Aires e in tutta l’Argentina, anzi in tutta l’America Latina.
Nella memoria ufficiale della Compagnia ci sono almeno altri due santi con quel nome, tutt’e due del ’500. C’è san Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, membro di una potente famiglia aragonese alla quale regalò un uomo di Chiesa più presentabile del malfamato zio Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI. Ma è piuttosto improbabile che sia stato il suo profilo ad affacciarsi nella mente del cardinal Bergoglio. Che, nel suo primo messaggio, ha parlato di evangelizzazione. Ora, per un gesuita c’è da sempre un nome che significa evangelizzazione e apertura missionaria alle culture non cristiane. È quello di Francisco Xavier, noto in Italia come Francesco Saverio, compagno di Ignazio di Loyola e cofondatore della Compagnia: un uomo che ben presto lasciò Roma per una missione che lo condusse in un decennio di straordinarie esperienze prima nell’India portoghese, poi fino al Giappone; né finì lì, perché dopo aver fatto una deludente esperienza di battesimi di massa tra le folle dei paria di Goa al riparo delle armi portoghesi, e dopo aver affrontato con pochi compagni il lungo viaggio via mare, sulle rotte dei mercanti e dei contrabbandieri di armi, fino al remoto impero giapponese, volle raggiungere la Cina. Le sue lettere portarono in Europa il racconto di quel lontanissimo Oriente e un appello a tutti i giovani studenti delle università perché si candidassero a un’impresa missionaria di vastissime dimensioni. Diffuse immediatamente a stampa e inserite anche nella bella raccolta di relazioni di viaggi curata a Venezia da Gian Battista Ramusio, quelle lettere furono uno straordinario incentivo al maturare di vocazioni per l’opera della propagazione del Vangelo nel mondo extraeuropeo. Vi si legge di popolazioni accoglienti e di raffinata cultura, molto ben disposte nei confronti dei predicatori della “santa fede”. C’era l’ostacolo della ignoranza della lingua: Francesco Saverio e i suoi compagni erano obbligati «a esser come fanciulli », a tacere e ascoltare. Ma così potevano scordarsi di se stessi, liberarsi da quell’amore di padri e madri e amici e patria che tratteneva dal dare alla propria vita la forma voluta da Dio: bisognava recarsi in quella «terra strana» a farvi l’opera della conquista spirituale.
Altre notizie arrivarono ancora di quell’irrequieto missionario: fino al solitario e clandestino approdo sul suolo dell’Impero cinese, luogo delle meraviglie descritte da Marco Polo e supremo oggetto del desiderio per Saverio. Morì su quella costa e il suo corpo, portato a Goa dai portoghesi, fu oggetto di una grande devozione coronata dalla canonizzazione ufficiale nel 1622. Dal suo esempio e dalle sue narrazioni prese avvio un fenomeno straordinario: quello del desiderio delle Indie che animò una schiera crescente di giovani e li spinse a supplicare il generale della Compagnia di mandarli nelle lontane Indie d’Oriente e d’Occidente a propagare la fede. Li muoveva una volontà di eroismo e di martirio, una ricerca della santità eroica, ma anche un profumo di terre lontane.
L’impresa della “fides propaganda” fu quella di un corpo scelto di inviati nel mondo esterno, fuori dei confini di un cristianesimo che apparve improvvisamente invecchiato. Fuori delle mura delle città europee si aprì lo scenario vastissimo di popoli pagani da evangelizzare. Abitavano nelle remote Indie ma erano presenti anche nelle periferie interne: avevano i volti degli indios peruviani e dei letterati cinesi ma anche quelli dei contadini e dei pastori della Corsica e dell’Abruzzo. Di fatto si era riaccesa la fiamma della predicazione degli Apostoli. Il missionario gesuita partiva lasciandosi alle spalle le incrostazioni della cultura europea e portava il messaggio universale di un cristianesimo che si presentava come la forma naturale della religione, iscritta da Dio nelle coscienze e latente nelle diverse confessioni nel mondo. Fu questo il contributo maggiore dei gesuiti alla ripresa della Chiesa di Roma nel, momento della massima crisi del cattolicesimo, quando la corte romana era gravata dal peso di accuse infamanti e l'unità della Chiesa europea si spezzava in tanti frammenti. Da allora i gesuiti si mossero sul difficile crinale fra culture diverse, osteggiati da altri ordini, sospettati di varcare i confini dell’ortodossia, tentati di dar vita a una nuova Chiesa apostolica senza le rughe di quella europea. Oggi uno di loro ha lasciato le antiche terre di missione. Quella che si è aperta col suo papato è una missione nuova, quella d’Europa. È facile prevedere che non sarà per nessuno una festa di gala.

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