sabato 2 febbraio 2013

Adolf Loos e la casa sulla Michaelerplatz


Il nuovo edificio doveva sancire, secondo i committenti, 
il raggiunto successo imprenditoriale 
Celebre fu la disputa tra facciata decorata, 
voluta dalle autorità, e liscia, secondo lo stile dell'autore

Maurizio Giufrè

"Il Manifesto", 1 febbraio 2013

Marco Pogacnik è uno storico dell'architettura con una passione per Vienna e per i suoi architetti: della capitale asburgica ne conosce ogni angolo e chi ne ha dato forma e immagine. Ne abbiamo avuto prova nel catalogo della mostra romana su Adolf Loos (Galleria Nazionale d'Arte Moderna, 2006) dove un suo saggio spiegava il debito dell'architettura loosiana con quella che la precedette: i prodromi della modernità con Otto Wagner e gli architetti della sua Scuola, la Vienna barocca (Fischer von Erlach, Martinelli), il neoclassicismo e gli edifici ottocenteschi della Ringstrasse. Adesso quel denso scritto inquadra la sua recente monografia sull'opera più famosa dell'architetto viennese: la casa sulla Michaelerplatz. 
Non deve quindi trarre in errore il lettore il titolo del saggio Adolf Loos e Vienna perché nonostante i necessari riferimenti, l'autore non ci propone un itinerario dell'architettura loosiana nella capitale austriaca, bensì come fecero prima di lui Hermann Czech e Wolfang Mistelbauer con la loro Das Looshaus (Vienna, 1976) e poi Richard Bösel (1991), un'approfondita indagine sul «controverso processo di costruzione» che ha riguardato questo singolare edificio. Edito da Quodlibet e primo della collana che l'editore marchigiano dedica all'ingegneria edile e alla costruzione - diretta dallo stesso Pogacnik insieme a Luka Skansi - il volume si differenzia dagli studi precedenti per l'accurato e minuzioso scavo delle fonti dirette che hanno messo meglio in luce non solo i complessi rapporti tra le diverse figure che parteciparono all'esecuzione dell'edificio e il suo architetto, ma il particolare ruolo che vi giocò la committenza e i funzionari pubblici preposti all'approvazione delle numerose modifiche che la Looshaus subì in corso d'opera. 
Utilissimo, inoltre, è il corredo dei documenti - tra l'atlante dei disegni e il repertorio fotografico - che ci fa comprendere l'evoluzione articolata delle soluzioni architettoniche e che contraddistingue il lavoro storiografico di Pogacnik da essere soddisfatti - parafrasando Marco Pozzetto in occasione della scoperta di Otto Prutscher - che provenga ancora dal nostro paese uno studio così diligente sull'architettura viennese. Anche se sorvoleremo dei passaggi la storia della casa sulla Michaelerplatz ha inizio quando verso la metà del 1909 Leopold Goldman e Emanuel Aufricht, titolari della sartoria Goldman & Salatsch - affidano a Loos il progetto di un edificio residenziale e commerciale, nel quale trasferire le loro attività. Proprio davanti la porta urbana della Residenza imperiale, il nuovo edificio doveva sancire, nelle intenzioni dei committenti, il loro raggiunto successo imprenditoriale, merito dei loro impeccabili vestiti per una clientela di nobili e ricchi borghesi, come testimoniano gli stemmi araldici in bronzo posti sul fronte principale. Nel solco della tradizione è anche l'idea di architettura che Loos immagina per la sede della prestigiosa sartoria perché come lui stesso scrisse sulla rivista Der Architekt: «Ne abbiamo abbastanza del genio originale! Ripetiamoci all'infinito! Che un edificio sia simile all'altro!». Per Loos, come ha bene rilevato Pogacnik, «attingere alla città come fonte della propria architettura significa adottare un linguaggio ampiamente condiviso» e solo chi non inventa arbitrariamente è un «architetto-gentlemen». 
Prima, però, del suo ingresso in scena, sono i proprietari ad avviare la pratica per il nuovo allineamento edilizio e nel contempo invitare nove architetti per un concorso d'idee che non darà però alcun vincitore e sul quale resta il dubbio che fosse solo una scusa. Seria e molto laboriosa fu, invece, la vicenda dell'inserimento urbano nel tessuto edilizio preesistente con il conseguente esproprio delle aree da destinare ad uso pubblico. Dai documenti d'archivio s'individuano i protagonisti: da un lato l'ufficio tecnico comunale e dall'altro i proprietari con l'architetto Ernst Epstein, incaricato di curare la pratica di concessione edilizia oltre che assistere Loos e dirigere il cantiere. Con dovizia di particolari e con lo scrupolo di ricostruire l'iter urbanistico, Pogacnik ci fa comprendere il rigore al quale doveva attenersi un architetto che operava nel tessuto edilizio viennese, ben altro dall'«immagine musiliana di una burocrazia asburgica ottusa e dispotica»; al contrario, attenta e consapevole della qualità del centro storico che amministrava. Comprendiamo inoltre meglio le ragioni dell'attivismo di Leopold Goldman diretto ad ottenere le migliori condizioni economiche dal Comune attraverso la definizione delle sezioni stradali e gli arretramenti del fronte dell'edificio sulla piazza che determinavano il valore dell'esproprio. 
Loos riconoscerà essenziale questa assidua partecipazione del suo cliente per le «illuminanti trovate» e le «concrete invenzioni» mai venuta meno, soprattutto in occasione della disputa cittadina sulla soluzione estetica della facciata. È noto che la controversia per una facciata decorata come richiedevano le autorità comunali e non liscia come desiderava Loos costituisce da sempre l'elemento centrale della storia della Looshaus. All'origine dell'aspro confronto ci sono una serie di «piccole incongruenze» tra disegni approvati e nuove varianti che Pogacnik ricostruisce con estrema precisione. Si comprende bene il ruolo di mediazione e di regia che svolsero Goldman e Aufricht con, ad esempio, la loro proposta di potere inserire in una seconda fase le decorazioni, dopo la verifica sul reale effetto estetico che i prospetti disadorni avrebbero avuto a confronto con lo zoccolo in marmo. 
È evidenziata, inoltre, anche la parte delle cronache cittadine che informarono puntualmente i viennesi dell'evolversi della vicenda tra le perplessità della Residenza imperiale e le «rigidità» del Comune, che negò anche ciò che in un primo tempo aveva approvato (una facciata intonacata a fasce orizzontali «a meandro») preoccupato delle conseguenze politiche che la discussione pubblica stava assumendo. Solo la tenacia e la pazienza della committenza, abile nel muoversi tra i mancati adempimenti dell'ufficio tecnico e disponibile a individuare soluzioni alternative pur di non accettare una «decorazione posticcia», conseguirono il risultato che avremmo ammirato. 
Non è possibile descrivere tutte le varie astuzie messe in gioco da Goldman e Aufricht nei confronti delle autorità se non l'ultima, quella definitiva: la presentazione della facciata liscia abbellita con ventisei fioriere in bronzo appese con dei grandi anelli al muro. L'amministrazione certo non si arrese, ma in un gioco delle parti contribuirono molti fattori, comprese le finte resistenze dell'architetto Epstein che rifiutò di proseguire nel suo incarico e quelle del fabbro che si oppose alla rimozione delle sue fiorire. Alla fine, nel maggio del 1912, il compromesso si raggiunse con l'aggiunta di quattro lampioni bronzei e l'impegno a tenere tutto l'anno piante vive davanti le finestre. 
Loos, contrariamente a quanto si è sempre tramandato nella storiografia del moderno, non considerò la soluzione delle fioriere un ripiego. «Sono disposto a sopportare - scrisse nel suo celebre scritto Ornamento e delitto - gli ornamenti persino sul mio corpo, se fanno la gioia dei miei simili». Non proprio di tutti se nel 1938 gli interni furono distrutti dai nazisti attuando quelle minacce, che come scrisse Aldo Rossi, la vecchia cultura asburgica seppe solo proferire sulla carta stampata. La casa nella Michaelerplatz sopravvisse, però, agli eventi tragici della guerra e Loos accusato di essersi reso «colpevole di un delitto» riconosciuto pari ai suoi «vecchi maestri viennesi» come sempre aveva desiderato. 

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