domenica 16 dicembre 2012

This Land is My Land


Questi assassini seriali tirano sempre sui giovani

Un’ombra sul sogno americano 
L’odio omicida per gli innocenti

Antonio Scurati

"La Stampa", 16 dicembre 2012

Virginia Tech, 2007 Lo studente Cho Seung-hui uccide 27 ragazzi e 5 professori.Fra le sparatorie. riesce a mandare testi e immagini alla Nbc, poi si uccide
Columbine high school, ’99 Eric Harris e Dylan Klebold, due studenti, uccidono 12 compagni e un insegnante e feriscono altre 24 persone, poi si suicidano
Cinema di Aurora, 2012 James Eagon Holmes si traveste da Joker, entra nella multisala dove proiettano la prima di Batman, spara con una Glock: dodici morti
Amish school, 2006 Il 32enne Charles Carl Roberts fa irruzione in una scuola Amish in un villaggio della Pennsylvania e uccide 5 bimbe fra i 6 e 13 anni, poi si uccide

Una scuola elementare a Newton. Un centro commerciale in Oregon. Un luogo di culto in Wisconsin. Un cinema in Colorado. Infinite strade in posti come Chicago e Philadelphia». Sembrano i versi di This Land is My Land, la canzone con cui Woody Guthrie celebrava negli Anni Quaranta l’America delle libertà passandone in rassegna le meraviglie e le vastità geografiche. E sono invece le parole con cui ieri il presidente Obama ha elencato gli ultimi episodi simili alla strage di Newton, Connecticut, accaduti di recente in un’America terrorizzata. Gli fa eco il New York Times, dalle cui colonne apprendiamo che 26 persone, tra le quali 20 bambini, assommano alla «settima strage più violenta», come se si trattasse della classifica di un «Campionato della Morte», ha osservato ieri su queste stesse pagine Gianni Riotta.
E sono effettivamente questi i due aspetti che più sgomentano di questa ennesima strage d’innocenti: il fatto che colpisca alla cieca l’infanzia, che spari nel mucchio dell’età acerba, e il fatto che sia ennesima. Violenza di massa, indistinta, casuale eppure mirata contro l’innocenza. Violenza inaudita, incomparabile, senza paragoni eppure seriale, ricorsiva, già nota. La serialità, una delle caratteristiche prevalenti nella vita tardomoderna - che abbraccia quasi tutto il nostro mondo nuovo dalle modalità della narrazione a quella della trasmissione informatica - non risparmia nemmeno la violenza stragista rendendo quella vita impossibile. Perfino in tempo di guerra diviene inconcepibile vivere sotto la minaccia costante della strage seriale di massa di innocenti, figuriamoci poi in tempo di pace. E invece è proprio così che, prima negli Stati Uniti e poi nel resto dell’Occidente, ci stiamo abituando a vivere da quando è iniziato il millennio.
Ci sono date che spostano in avanti le lancette della storia su di un quadrante di sangue. Il 20 aprile 1999 fu una di quelle date. Quel giorno, a Columbine, una sperduta località del Colorado, Eric Harris e Dulan Klebold, due ignoti teenager dell’America profonda, entrarono nella loro anonima high school di provincia armati come due commando, ne attraversarono indisturbati i corridoi bordati di armadietti metallici, raggiunsero la sala mensa preceduti da ondate di panico, quindi aprirono il fuoco uccidendo dodici compagni e un professore prima di togliersi la vita. Le immagini della strage, registrate implacabilmente dalle videocamere di sorveglianza, fecero immediatamente il giro del mondo.
Da quel momento i rapporti tra le generazioni non furono più gli stessi. I genitori cominciarono a osservare i figli con lo sguardo scrutatore della sindrome paranoica, gli insegnanti cominciarono a osservare gli studenti con occhio clinico, l’occhio rivolto a diagnosticare la mania omicida.
Sul momento si pensò, si sperò, che si trattasse di un evento unico e irripetibile, l’evento che produce da sé la propria drammaturgia e squarcia la catena degli antecedenti e dei conseguenti. Ci trovavamo, invece, di fronte all’inizio di una serie storica, alla quale avremmo ogni volta dovuto ricondurre ogni nuova strage compiuta da liceali contro i propri simili o da adulti che, ripetendo i gesti dei loro predecessori con una perseveranza autenticamente diabolica, avrebbero ancora e ancora martoriato la speranza sparando alla cieca in asili, scuole, università e campi estivi. Si apriva allora - e siamo costretti ad apprenderlo oggi - una nuova epoca. Il XIX secolo ci aveva mostrato gli effetti dell’odio tra le nazioni, il XX quello dell’odio tra le classi, il XXI si apriva con le tragedie dell’odio stragista di un individuo contro una classe scolastica, contro l’embrione della comunità a lui più prossima e, dunque, contro un’intera nazione. Questo tipo d’odio psicotico e pronto per l’uso era l’equivalente ideologico del lanciarazzi portatile, della bomba atomica utilizzabile come arma da spalla. Ci avrebbe condannati a reggere l’urto dell’individualismo applicato al campo della distruzione di massa.
L’ex studente che abbatte diciassette persone in una scuola tecnica del Baden-Wuerttemberg, lo xenofobo delirante che semina morte in un meeting camp nei dintorni di Oslo, le vite falciate nel cortile di una scuola ebraica di Tolosa, le 33 morti disseminate nelle diverse aree del grande complesso universitario del Virginia Tech di Blacksburg, la bomba che esplode all’ingresso dell’istituto per i servizi sociali, il turismo e la moda Francesca Laura Morvillo Falcone a Mesagne di Brindisi…
Potremmo continuare a lungo. Sono solo alcune delle strofe di una interminabile trenodia, una corale, monotona, straziata lamentazione funebre ogni volta ripresa, ogni volta incompleta.
Per interromperla, non potendo interrompere il male che lamenta, chiudiamo pronunciando il nome di Dawn Hochsprung, 47 anni, preside di scuola. Sentiti gli spari, invece di ripararsi, ebbe il coraggio, la prontezza e la grazia di accendere il megafono per dare l’allarme prima di uscire nel corridoio e cadere sotto i colpi del killer.

Se gli assassini siamo noi

Adam Gopnik

"La Repubblica",  16 dicembre 2012


DOPO il massacro della Virginia Tech del 2007 avevo scritto dell’immagine insondabile dei cellulari che squillavano nelle tasche dei ragazzi uccisi, e dei genitori che cercavano disperatamente di raggiungerli.
E avevo detto (come tanti altri) che sarebbe andata avanti così, se nessuno avesse fatto qualcosa, con queste modalità e con questa gravità che sono un’esclusiva del nostro Paese, caso unico fra tutti i Paesi ricchi, industrializzati e cosiddetti civilizzati del mondo. Avevo detto che ci sarebbe stato sicuramente un altro episodio come quello.
E c’è stato, anzi ce ne sono stati molti altri, e quando c’è stato il più recente e il più grave, ad Aurora il massacro alla proiezione del film di Batman, io (e molti altri) abbiamo detto, questa volta con i toni della disperazione, che nulla era cambiato. E io (e molti altri) abbiamo predetto che sarebbe successo di nuovo, e presto. E che ancora una volta le stesse voci malate avrebbero detto, «Oh, ma questo non ha niente a che fare con le leggi sulle armi o l’abuso del Secondo Emendamento, si tratta solo di qualche pazzo furioso», categoria di cui l’America, per qualche ragione, sembra particolarmente fornita.
E ora è successo di nuovo, bang, puntuale come un orologio, potremmo dire: venti bambini morti, bambini delle elementari, in una scuola di una ricca cittadina del Connecticut. E una madre che urla. E venti famiglie che si sentono dire che il loro bambino è morto. Dopo la strage di Aurora, ho sostenuto alcuni dibattiti con esponenti della lobby degli assassini di bambini — scusate, volevo dire la lobby delle armi — e tutti, senza eccezioni e con una veemenza folle, hanno ripetuto le stesse vecchie menzogne: sono cose che succedono negli Stati Uniti con la stessa frequenza che in altri Paesi (non è vero); sono più le persone protette dalle armi che le persone ammazzate dalle armi (non è vero, è una fandonia costruita ad arte); sono le persone, non le armi, che uccidono la gente; e tutte le altre menzogne perverse che individui che non possono essere definiti in altro modo che complici consapevoli di omicidi continuano a ripetere, individui che a modo loro sono altrettanto pazzi e malati degli assassini che difendono. (E il fatto che spesso siano le stesse persone che ostentano sdegno per la perdita di un solo singolo embrione non fa che rendere ancora più folle questa follia.) E allora esponiamo una volta di più i fatti puri e semplici, perché non possano esserci equivoci: massacri con armi da fuoco ce ne sono stati tanti, in tanti Paesi, e in tutti gli altri Paesi, a seguito della tragedia e della tragica consapevolezza che quell’episodio aveva suscitato fra i cittadini, le leggi sul possesso di armi da fuoco sono state rese più rigide. In tutti gli altri Paesi, come conseguenza di questo fatto, i massacri con armi da fuoco sono diventati rari. Solo in America i massacri con armi da fuoco, spessissimo di bambini e ragazzi, si verificano con ripugnante regolarità, e si verificano con ripugnante regolarità a causa della ripugnante regolarità con cui ci si può procurare un’arma da fuoco.
Le persone che si battono, e fanno pressioni, e fanno leggi affinché ci si possa procurare armi da fuoco con regolarità sono complici nell’omicidio di questi bambini. Hanno fatto una scelta morale chiara: il comfort e la rassicurazione emotiva che ricavano dal possesso di armi da fuoco è un valore supremo, più importante degli omicidi ricorrenti di bambini innocenti. Qualunque soddisfazione i proprietari di armi da fuoco ricavino dalle loro armi — sappiamo per certo che non hanno nessun valore cautelativo — è più importante della vita dei bambini. Bisogna riconoscerglielo: la vita è fatta di scelte morali, e questa è una scelta morale, molto chiara.
Tutto questo è una verità pura e semplice, riconosciuta in tutto il mondo. A un certo punto, questa verità forse diventerà così sanguinosamente evidente che la capiremo anche noi. Nel frattempo, rallegratevi di vivere nella capitale dei massacri-di-bambini-con-armi- da-fuoco dell’universo conosciuto.
© L’autore, firma del New Yorker, è uno scrittore, tra i suoi libri “Una casa a New York” uscito per Guanda (Traduzione di Fabio Galimberti)

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