sabato 29 dicembre 2012

Enea, quel viaggio continua


Pietà, patriottismo, affetti: l'attualità del poema di Virgilio

Cesare Segre

"Corriere della Sera,  28 dicembre 2012

«Queste acque e correnti controlla Carònte, nocchiero/ orrido, di spaventoso squallore, a cui giace incolta/ molta canizie sul mento, gli occhi son fissi e di fiamma,/ sordido manto pende dall'omero, stretto in un nodo./ Lui con un palo spinge la barca e governa le vele/ e nel suo scafo colore ferrigno i corpi trasporta». «Cèrbero questi regni assorda latrando imponente/ per tre fauci, immane, riverso in un antro di fronte, vedendogli ai colli già ritte le serpi/ (…) / E l'indovina (la Sibilla) una focaccia gli getta (…) e lui, spalancando le tre gole in fame rabbiosa, quel ch'è gettato ghermisce».
Siamo ai canti III e VI dell'Inferno di Dante? No, siamo nel VI libro dell'Eneide di Virgilio (vv. 298-303; 417-422), e per molti particolari o episodi si constata l'attenzione con cui Dante ha letto il poema di Virgilio, e ne ha fatto tesoro: anche per lui Caronte è «bianco per antico pelo», Inf. III, 83, e «intorno alli occhi avea di fiamme rote» (99); anche per lui Cèrbero «con tre gole caninamente latra», Inf. VI, 14, e ingoia con le «bramose canne» non già la focaccia ma il pugno di terra che gli viene gettato nelle fauci. Le poche centinaia di versi con cui Virgilio narra il viaggio di Enea nel paese dei morti traspaiono in ogni momento dei primi canti della Commedia, che hanno anzi nell'Eneide il modello principale. A pensarci, è meraviglioso che un'opera letteraria avesse ancora un potere modellizzante dopo più di 1300 anni; ma non ce l'ha anche per noi? Altrettanto meraviglioso il cammino dell'invenzione: Virgilio, che scrivendo l'Eneide ha raccontato il mondo dei morti, ora fa da guida nello stesso mondo a Dante, come rivivendo la propria immaginazione.
Però all'influsso stilistico va anche aggiunto quello ideologico, e qui la continuità tematica è ancora più impressionante. Si sa che l'Eneide, secondo un programma encomiastico che però rispecchiava anche l'indole e i gusti di Virgilio, voleva celebrare la pace raggiunta da Augusto dopo decenni di guerre, anche intestine. Così, persino le vicende belliche, inevitabile argomento di un poema epico, erano narrate alla luce, finalmente vicina, di una pace promessa. Un disegno escatologico, in cui entrava anche l'origine della famiglia Giulia e del popolo romano, un destino di cui il greco Enea è il portatore e il simbolo.
Il discorso di Dante è più complesso, ma è strettamente legato a quello di Virgilio. Come si sa, secondo Dante la funzione provvidenziale dell'impero romano è stata quella di favorire l'espansione e l'affermazione del Cristianesimo. Perciò Giulio Cesare e Augusto, come fondatori dell'Impero, hanno svolto un ruolo determinante in un disegno, ancora, escatologico.
La propensione per la pace spicca persino nella struttura del poema, che nei primi sei canti è una narrazione di avventure, spesso dolorose, alla ricerca dell'Italia profetizzata come futura patria, e solo negli ultimi sei canti fa spazio alle guerre per il predominio sulla regione laziale. Come mettere in tandem prima l'Odissea, poi l'Iliade. E si è persino notato che, negli eroi dell'Eneide, vigore e combattività sono meno celebrati da Virgilio che pietà, patriottismo, affetti familiari.
Quest'ultima osservazione si trova già nell'ottima premessa a un'Eneide appena curata e tradotta in italiano: Publio Virgilio Marone, Eneide, traduzione e cura di Alessandro Fo, note di Filomena Giannotti, Einaudi, (pp. CVI-926). Parlando di traduzioni dell'Eneide, chi ha fatto il liceo qualche anno fa pensa subito a quella, cinquecentesca, di Annibal Caro, in endecasillabi sciolti, che fu a lungo libro di testo. Ma poi ne vennero pubblicate molte altre, con vari tentativi di rendere gli esametri latini. Si sa che la fonazione dei versi latini è lontana dal nostro sistema, dato che all'alternanza di sillabe toniche e atone, con cui abbiamo familiarità anche noi, s'intrecciava un'alternanza quantitativa: vocali lunghe e brevi, secondo schemi prosodici precisi. Si è tentato di far corrispondere i nostri accenti a quelli di un latino letto all'uso moderno, oppure alle lunghe e alle brevi della prosodia quantitativa. In proposito Carducci, che, da eccellente latinista, fece tentativi in questo senso, definiva i suoi prodotti «odi barbare», cioè incolte e un po' blasfeme rispetto alle norme latine: la pubblicazione di queste odi barbare rappresenta un episodio notevole della storia della nostra poesia, col suo programmato abbandono della metrica tradizionale italiana, fatta di versi isosillabici e di rime.
Fo, nel tradurre Virgilio, si allontana dai precedenti noti, e fonda i suoi versi su un'ingegnosa alternanza di schemi dattilici e schemi spondaici, creando delle specie di costellazioni fisse di lunghe e di brevi. Il risultato, a dirla nei termini più semplici, è che i versi della traduzione risultano più adattabili e più ampi del modello latino, così da poter assorbire eventuali esplicazioni del contesto. Basti un esempio, già citato: «Lui con un palo spinge la barca e governa le vele». I tre nuclei del verso si distribuiscono, stando alla prosodia italiana, fra due quinari e un senario (la congiunzione svanisce, assorbita nel nucleo che precede), ma la sequenza complessiva lascia intravedere una presenza di quattro dattili e due spondei. Se la nuova traduzione indurrà qualcuno, anzi molti potenziali lettori, a leggere o rileggere l'Eneide, ancora una volta essi testimonieranno la vitalità dei testi grandissimi. Ma sono proprio i traduttori a garantire, spesso, questo miracolo.

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